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Oltre il tatami: Il viaggio di un cuore ambizioso
Oltre il tatami: Il viaggio di un cuore ambizioso
Oltre il tatami: Il viaggio di un cuore ambizioso
E-book268 pagine4 ore

Oltre il tatami: Il viaggio di un cuore ambizioso

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Info su questo ebook

Elena Pantaleo è una donna eclettica, curiosa e anche ambiziosa. Elena – avvocato cassazionista, consigliera del Coni, membro del dipartimento sport del Partito Democratico ed esperta di geopolitica – ci prende per mano e ci porta dentro una vita (la sua) vissuta a cento all’ora e corsa su più binari contemporaneamente. Il libro alterna i momenti più importanti della sua vita da atleta. Dall’amore per lo sport alla scoperta di una disciplina in cui sa eccellere (quella kickboxing che la porta sul tetto del mondo in più di un’occasione) passando per la politica sportiva grazie alla quale capisce che può realmente cambiare qualcosa fino ad arrivare al racconto recente – sotto forma di diario – del suo avvicinamento ai World Combat Games di Riad. Un libro che parla di agonismo senza retorica e che accende una luce vivida sul valore comunitario e sociale dello sport.
LinguaItaliano
EditoreLab DFG
Data di uscita29 mag 2024
ISBN9791280642660
Oltre il tatami: Il viaggio di un cuore ambizioso

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    Anteprima del libro

    Oltre il tatami - Elena Pantaleo

    Prefazione

    Il 26 settembre 2023, con la promulgazione da parte del Capo dello Stato della Legge Costituzionale n. 1 a tutela del valore dello sport, la Costituzione della Repubblica Italiana è stata modificata per la 46° volta dalla sua entrata in vigore, più precisamente con l’introduzione di un ultimo comma all’articolo 33 che recita: «La Repubblica riconosce il valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dell’attività sportiva in tutte le sue forme».

    La sua formulazione descrive la piramide del valore dell’attività sportiva nella sua multidimensionalità e declinata su tre piani, tra di loro in rapporto complementare: quello educativo, legato al percorso di crescita, allo sviluppo e alla formazione individuale della singola donna e del singolo uomo; quello sociale, che vede lo sport come fattore di aggregazione e strumento d’inclusione che abbatte barriere e agevola il dialogo, prevenendo e combattendo fenomeni negativi e devianze; quello di promozione del benessere psicofisico, evidenziando la correlazione con la salute, intesa però quest’ultima nella sua più moderna accezione di benessere integrale della persona, fisico e mentale, e comunque non riducibile a una mera assenza di malattia.

    Con l’espressione in tutte le sue forme riferito all’attività sportiva, è stato poi chiarito oltre ogni ragionevole dubbio che lo sport nella sua complessità, sia esso professionistico quanto dilettantistico, di vertice quanto di base, ha un senso ampio e profondo, secondo il modello ispiratore della normativa europea e interNazionale di riferimento che tendono a garantire una tutela assoluta della funzione e della promozione dello sport per tutti, rispetto al giornalismo sportivo protagonista dei titoli da prima pagina del lunedì mattina, troppo spesso dedicati allo sport spettacolo e ai suoi risultati ampiamente dominanti sui mainstream media.

    Al momento la tutela dello sport in Costituzione, seppur estremamente significativa, può apparire meramente simbolica poiché se ne riconosce il valore ma non si determina un diritto. Sarà responsabilità della classe dirigente, politica ma anche sportiva, convertire il riconoscimento in un diritto esigibile e universale, da garantire a tutti, con particolare attenzione alle persone in difficoltà, qualunque esse siano, relegate spesso ai margini delle periferie urbane e sociali.

    Ora proviamo a lasciarci ispirare da una citazione attribuita al celebre statista italiano del diciannovesimo secolo Massimo d’Azeglio, che in una delle più diffuse formule recita: ...fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani, a significare che per quanto geograficamente e politicamente unita dal 1861 l’Italia era (e forse sarebbe il caso di dire è ancora) segnata da differenze profonde fra tradizioni e lingue e legata da uno scarso senso di vera unità.

    A questo punto potremmo dire che inserita l’attività sportiva in Costituzione con la modifica dell’art. 33, ora dobbiamo comporre una piena e condivisa identità e cultura dello sport italiano e questa costruzione non può prescindere dall’acquisizione a patrimonio condiviso delle storie delle donne e degli uomini che al mondo dello sport si sono donati e sacrificati ogni giorno.

    Sono storie di amori e di rinunce, di passioni e di sconfitte: perché, non bisogna mai dimenticarlo, nello sport come nella vita si perde più spesso di quante volte si vince e capita di distinguere un fuoriclasse proprio da come si rialza da una caduta al tappeto.

    Ma una cultura sportiva degna di questo nome è anche costellata da storie di successo e di vincitori, e questa è una storia di vittoria, di una campionessa nello sport e nella vita: la storia di Elena Pantaleo.

    Un racconto, il suo, che tutto è tranne che un plastico e ordinario percorso lineare di studio, pratica sportiva agonistica ed ingresso nel mondo del lavoro, non il tipico e standardizzato progetto riuscito di Dual Career, tutt’altro che un mero percorso di esame attento e minuzioso delle opportunità (poche) e delle scelte critiche (molte di più) che la vita, la scuola e la società offrono per coniugare la convivenza tra percorsi accademici e professionali con quello della pratica dello sport, amatoriale prima e agonistico di vertice poi.

    Non abbiamo quindi davanti un compendio sull’inserimento degli atleti a fine carriera nel mondo del lavoro, anzi se vogliamo affronteremo proprio l’opposto: non una ricetta astratta e vincente ma il racconto di un viaggio alla ricerca del senso più profondo dello sport e la sua condivisione.

    La condivisione di una passione per una disciplina, la kickboxing, senza se e senza ma, al di là di ogni luogo comune o stereotipo diffuso che attribuirebbe questo o quello sport a bambini e bambine, ragazzi e ragazze, solo in base al sesso o alla prima impressione di chi viene magari classificato troppo alto o troppo magro, ma anche la condivisione di un progetto ambizioso come vincere una medaglia d’oro (Italiana, Europea o mondiale? Non cambia, Elena le ha vinte tutte!) e alla fine di un percorso di impegno e sacrificio, sostenuta dalla famiglia, presa per mano dal suo Maestro e condividendo la strada con chi sa apprezzarla e sostenerla come il suo compagno, decide che la vita le prospetta altre sfide per le quali lei non smette mai di prepararsi, perennemente alla ricerca di qualcosa da imparare bene per migliorarsi e per migliorare ciò che la circonda.

    Lo sport le ha dato tanto e questo libro è una finestra aperta sulla vita della sua autrice e protagonista, un primo atto di restituzione e condivisione, per rendere partecipi i lettori di qualcosa di bello ricevuto e conquistato insieme e in rappresentanza di un mondo di cui Elena è orgogliosa di fare parte e che, sono certo, è orgoglioso di lei: il coni, la Federkombat, la sua Sicilia, la sua famiglia.

    Sono certo che il meglio debba ancora arrivare, ad maiora!

    Juri Morico

    Presidente Nazionale opes

    1.

    Sono tornata

    Guardo l’orologio, sono le 18:45, l’allenamento comincerà tra quindici minuti, come al solito sono in ritardissimo. Prendo il borsone che per mesi è rimasto abbandonato in un angolo in camera mia e lo apro, l’odore mefitico che esce mi ricorda i campi della pianura padana nella stagione della concimatura. Guardo dentro per un check veloce: guantoni, caschetto, parapiedi, paratibie, gomitiere, sembra esserci tutto. Infilo i pantaloni del kimono, la maglietta, l’asciugamano per la doccia, una bottiglia d’acqua, il tutore per la spalla, quello per il bicipite femorale e chiudo tutto. Aspetta, il paradenti. Dove sta il paradenti? L’avrò lasciato a marcire dentro un guantone come faccio sempre o l’ho perso? Sono le 18:55 ormai è tardissimo e non ho il tempo di cercarlo, lo farò dopo. Scendo trafelata di casa e uscendo dal portone lo scirocco mi travolge come se avessi spalancato lo sportello del forno. Allenarsi con questo caldo è una tragedia quando non sei abituato ma col tempo mi sono convinta che ci dia un vantaggio competitivo non da poco: ho pensato spesso che sia il motivo per cui i nordici alla Coppa del mondo che si svolgeva a Rimini a fine giugno (il celebre Bestfighter, ormai purtroppo chiuso) non vincevano mai. Cammino veloce verso la palestra e già comincio a sudare negli otto minuti che coprono il tragitto tra la mia casa e quell’insegna che già a vederla mi fa correre il cuore. Scendo dallo scivolo che porta al seminterrato dove sta l’Aikya, la mia casa, e mi vengono le farfalle nello stomaco come quando dopo tanto tempo vedi finalmente il ragazzo che ti piace. Decidere di tornare in Sicilia dopo così tanti anni fuori non è stato facile. Ho lasciato il lavoro, la mia casetta, le opportunità di Roma, ma il richiamo della mia terra era così forte che quando ho finalmente deciso ho sentito da subito il cuore più leggero. È strano tornare a casa propria dopo tutto questo tempo. Un conto sono le visite una volta tanto, altro è riprendere i ritmi e i legami che ti servono nella costruzione della tua routine. Certe cose di Palermo mi sembrano infinitamente diverse: il centro riqualificato e ormai aperto al turismo, gli airbnb un po’ ovunque, perfino i trasporti pubblici mi sembrano più nuovi e funzionali, ci sono nuove zone della movida che non conosco completamente. Altre cose però sono sempre le stesse. Le cene con Marcolino, piazza Sant'Anna, il cibo, casa dei miei genitori, il caos per le strade e, soprattutto, l’Aikya, il mio dojo: la palestra dove mi sono allenata per tutta la vita, prima di andarmene, è sempre casa. Alla segreteria c’è Anitha che mi accoglie per prima con un sorriso splendido Sei tornata finalmente!. Si sono tornata, finalmente. La saluto con un abbraccio e con lei tantissime persone, amici, volti conosciuti di adulti che mi hanno vista crescere e adesso mi vedono che sono un po’ adulta pure io. Bacio e abbraccio tutti ma poi scappo nello spogliatoio a cambiarmi, sono le 19:05. È proprio da me cominciare con un ritardo la mia preparazione per i World Combat Games. Entro nella sala con il tatami bianco che è strapiena di gente, c’è un caos di persone che chiacchierano, giocano, c’è chi ha preso la palla e chi è attaccato alla sbarra. Moltissimi ragazzini non li conosco. Saranno nuovi, penso. Però io non sto qui da cinque anni, non saranno così nuovi, magari. Molti altri però li conosco, li avevo lasciati quando erano dei bambini e adesso sono adolescenti allenatissimi e carichissimi per la stagione, non hanno smesso di allenarsi un secondo durante l’estate per prepararsi alle prossime gare. Altri sono gli amici di una vita, quelli della old generation, quelli che già 10 anni fa erano qui con me ad allenarsi quando eravamo tutti junior che guardavano ai grandi con rispetto e ammirazione. Adesso sono io quella grande a cui guardare? Sono perfino più grande di quanto lo fossero i miei idoli quando ho cominciato. Che ansia, non ci pensare. Saluto tutti, ho un sorriso a trentadue denti stampato in faccia e il cuore pieno, mi sembra Natale. Vedo il mio Maestro, Gianpaolo, il suo abbraccio è quello che aspetto di più, il suo sorriso quello che mi dà più serenità. Mi fa una carezza e poi si mette nella solita posizione, al centro della sala, di fronte alla porta d’ingresso. È il segnale che la lezione deve cominciare, tutti si mettono in riga ma siamo così tanti che è più una parentesi quadra. Nelle altre palestre la riga si forma in ordine di grado: partendo dalle cinture nere a destra e finendo con le cinture gialle e bianche a sinistra, dai più vecchi (in anni d’esperienza, non anagrafici) ai più giovani. Da noi la riga è un’anarchia totale, ognuno si mette dove si vuole, alcuni hanno la cintura e il kimono altri sono in pantaloncini corti. È un po’ come dire: siamo qui tutti insieme, non importa quanta esperienza hai, non ci sono livelli, solo compagni d’allenamento. Appena tutti si sono sistemati e cala il silenzio, Gianpaolo ci guarda tutti con un sorriso, unisce le mani come in una preghiera e tutti insieme diciamo oss. Tutti cominciamo a correre. Facciamo un po’ di esercizi e infine ci mettiamo a terra per lo stretching. Dopo lo stretching arriva la parte più bella. protezioni! Ed eccolo, il momento di vestirsi delle nostre armature. Mentre eseguo senza neanche pensarci movimenti che ho già fatto un miliardo di volte inizio a pensare a quello che verrà dopo. Riuscirò a ricordarmi come si fa il blitz? Come ci si difende? Le mie gambe funzionano ancora o i miei piedi avranno perso completamente la sensibilità necessaria? Gianpaolo spiega la prima tecnica della serata e io mi alzo in piedi, dice di formare le coppie, chiedo a Giulia di farmi da compagna. Mi metto in guardia e inizio a saltellare, è naturale come il respiro. Inizio con gli attacchi. Inizio sempre con gli attacchi. Sono la prima cosa che ho imparato, quella che mi è venuta più istintiva. Braccio avanti, braccio dietro, con passo avanti, uscendo sulla destra, uscendo sulla sinistra. Il mio corpo sembra ricordare bene gli schemi motori, l’ansia lascia spazio alla gioia di essere tornata nel mio habitat naturale: con i guanti addosso, a piedi scalzi su un tatami, mille schiocchi di guanti che ne toccano altri intorno a me, i muscoli tesi che riprendono a contrarsi e scattare esattamente da dove li avevi lasciati, l’adrenalina che mi infiamma per ogni calcio dato e a ogni punto ricevuto. Mi sento così bene che è difficile esprimerlo a parole. Come un uccello in gabbia che finalmente torna a volare. Finalmente respiro. Sono tornata a casa.

    1.2 Il mondo prima della kick

    Siciliana doc, classe ’96

    Riuscire a trovare un modo unico per definirmi non è mai stato facile. In una vita in cui l’unica costante sembra essere la mutevolezza delle situazioni e la tensione verso il prossimo obbiettivo, forse c’è una sola caratteristica di me solida, fissa, da cui mi sento rappresentata a pieno: come dice la mia bio di Instagram, sono una fiera siciliana. Sono nata a Palermo nel 1996 e qui ho vissuto gran parte della mia vita. Ma la mia appartenenza isolana non è solo geografica: è sociale, è culturale, è culinaria, è caratteriale. Essere siciliano vuol dire tante cose: significa scoprire solo da adulta che le melanzane si possono mangiare anche non fritte; che il tuo tono di voce è naturalmente di qualche decina di decibel più alto del resto della popolazione; che ogni evento importante della tua vita con tutta probabilità aveva uno splendido mare azzurro a fare da sfondo e il suono delle onde non troppo lontane. Se sei un siciliano che in questa definizione si riconosce con fierezza, significa anche una certa predisposizione o una certa adattabilità al caos, ai ritardi, alla disorganizzazione e una spiccata propensione per il problem solving, che si sviluppa solo quando niente intorno a te funziona. Nascere palermitana significa tantissime cose: sei un po’ ai confini, cresci sapendo che c’è una Italia ricca di cui parlano i turisti e di cui tu non fai parte, sai che (prima una certezza, adesso fortunatamente molto meno) la prima cosa a cui penseranno gli stranieri quando accenni alle tue origini sarà la Mafia e se parli con dei nordici sarà il reddito di cittadinanza.

    Certe volte quando parlo con Emanuele, il mio fidanzato milanese, mi stupisco di quanto diverse siano state le nostre vite, come se fossimo cresciuti in due mondi diversi. A volte mi racconta casualmente cose come sai quando pranzavo a scuola... e io mi blocco. Ma scusa, tu pranzavi a scuola? Certo, sennò il pomeriggio poi mia madre mi doveva accompagnare di nuovo. Tempo pieno a scuola, questo sconosciuto. E io racconto invece di come la merenda al liceo era fatta di sfincione e pane e panelle mentre la sua era alle macchinette, oppure delle sue domeniche al fiume comparate alle mie in spiaggia. La mia famiglia allargata piena di zii e cugini e la sua ristretta ma affiatatissima. La carne che per me si compra esclusivamente in carnezzeria e che lui invece prende nei giganteschi supermercati dell’hinterland. La sua vita pendolare che gravitava intorno a Milano, piena di metro e treni fin da subito e io che il primo aereo l’ho preso a tre anni, la prima nave per attraversare lo stretto pochissimo dopo, ma per il primo treno in Italia ho dovuto aspettare quasi la maggiore età.

    Se sei siciliano insomma vivi in una Italia un po’ diversa, sei isolano e un po’ isolato, certe volte ti senti un cittadino di serie B, sai che per vedere il concerto di un grande artista con tutta probabilità dovrai prendere un aereo, ma per miliardi di altre ti senti speciale, l’ultimo tassello di una storia millenaria ricchissima, fatta di popoli diversi che si rispecchiano in ciò che mangi e nella splendida architettura così varia che ammiri quando passeggi per le strade della tua città, qualsiasi essa sia.

    Ma tra le tante bellezze che mi sono state regalate per diritto di nascita, il più grande dono che la Sicilia mi ha fatto è sicuramente una vita vicina alla natura: il mare, i boschi, le montagne. Dalle spiagge all’Etna, la mia terra mi ha sempre regalato bellezza, quando questa non viene deturpata dalla munnizza che i miei concittadini purtroppo tendono ad abbandonare anche nei posti più improbabili. Se dovessi scegliere una scena per raccontare la mia infanzia siciliana, non potrebbe che essere presa dalle pericolosissime gare in bicicletta che facevo con le mie cugine e mio fratello nella assolata campagna saccense (o sciacchitana) circondata da uliveti dove trascorrevamo le estati con i nonni. A riparlarne adesso con i miei genitori sembra che ci passassimo decisamente meno tempo di quanto ricordi, eppure io potrei giurare di aver trascorso tutti gli anni ad agosto intere settimane a esplorare i campi di grano e gli aranceti del nonno e dei proprietari vicini in sella alla mia mountain bike, raccogliendo in giro bestie varie ed eventuali da addomesticare (si andava con tranquillità da cani e gatti a topi, gechi e rane, senza preferenze specifiche) arrampicandoci sugli alberi e inventando nuove strane competizioni per riuscire a ferirci vicendevolmente nel più creativo dei modi possibili.

    Fortunatamente però né il gioco né le esplorazioni finivano con la mia estate. I miei genitori prendevano molto seriamente il loro ruolo pedagogico e a casa mia da quando mi ricordi, all’inizio dell’anno si sceglievano obbligatoriamente un corso di lingua e una disciplina sportiva da seguire. Anche se me ne sono accorta più in là con gli anni, la mia vita già allora era fortemente condizionata dal privilegio di essere parte di una famiglia siciliana, sì, ma soprattutto benestante.

    Lo sport non è facoltativo

    In Sicilia, come nella maggior parte delle regioni del sud d’Italia, lo sport si incontra in famiglia. Non lo dico io, ma i dati dell’Osservatorio Valore Sport¹. Nel nostro paese infatti, è presente una marcata eredità familiare (quasi otto ragazzi su dieci fanno sport quando entrambi i genitori praticano abitualmente attività sportiva, contro poco più di tre ragazzi su dieci quando entrambi i genitori sono non praticanti). Se sei fortunato come me fai parte di quella minoranza di popolazione che nasce praticando sport. Anche se recentemente è stata, fortunatamente, reintrodotta l’educazione fisica alle elementari, quelle due microscopiche ore a settimana non bastano a colmare l’enorme divario che si crea subito tra due categorie di bambini: quelli che hanno i genitori sportivi e quelli che non li hanno.

    Se ci sono delle società avanzate dove l’attività fisica è così perfettamente integrata nella vita della popolazione che fa parte in maniera assolutamente naturale del quotidiano senza che nemmeno ci si debba sforzare (si veda l’Olanda con le bici, la Norvegia e la Germania con i trekking o l’Australia con skateboard, surf e sport acquatici in generale) purtroppo la mia splendida regione, con il terzo più alto tasso di obesità (ci rubano le prime posizioni Basilicata e Campania ma per pochissimi decimali) di una nazione che è diciottesima su ventisette nella classifica delle nazioni sportive europee, sconta un’enorme lacuna culturale in merito. È vero che negli ultimi anni si stanno facendo passi da gigante, ma è anche vero che se le statistiche che ho riportato sono tragiche ancora adesso, non è difficile immaginare quale fosse la situazione negli ultimi anni del secolo scorso.

    Non è solo un fatto culturale, sia chiaro. In un paese con una impiantistica sportiva scolastica assente in buona parte del paese², in particolar modo al Sud³, e una dotazione infrastrutturale sportiva che, paragonata a quella dei nostri colleghi europei, risulta carente e desueta⁴, specchio di una spesa pubblica insufficiente⁵, l’educazione sportiva viene delegata dallo Stato ai privati. Se da adulti ci sono alcune (non molte) discipline che possono essere facilmente praticate in solitaria in un parco o addirittura a casa, senza bisogno di altro se non della propria voglia di fare, di pochissima attrezzatura e di una connessione internet per aver immediatamente spiegate le basi dello yoga, del pilates, o di come ci si riscalda e si fa stretching da qualche youtuber, da piccoli la situazione è più complicata la situazione. Probabilmente mandare i figli piccoli a correre soli nei parchi potrebbe essere considerato abbandono di minore. Questo significa però che per le famiglie che vogliono iniziare i pargoli al favoloso mondo della attività sportiva servono soldi e tempo, chi non li ha si attacca. In Italia, in media, il 10% dei cittadini non fa sport a causa di un costo troppo elevato, il 47,9% dei sedentari è in condizione di elevata vulnerabilità economica e il 30% dei bambini tra i sei e i dieci anni non fa sport a causa della situazione economica delle famiglie. Ovviamente, se si ha la fortuna di nascere in una regione dove c’è una solida impiantistica pubblica, se il cus (Centro Universitario Sportivo) è buono, se la palestra comunale funziona, se ci sono corsi il pomeriggio magari nelle stesse strutture scolastiche, i soldi richiesti sono pochi. Allo stesso modo, se i trasporti pubblici funzionano, se le strade sono sicure, se ci sono servizi tipo scuolabus che aiutano le famiglie a portare i piccoli da un capo all’altro della città o piste ciclabili davvero sicure, anche il tempo richiesto è poco. In questo senso, è facile immaginare come lo sport sia molto più accessibile ai bambini di una famiglia di Bologna che a quelli di una famiglia di un paese qualsiasi dell’entroterra siciliano o di un quartiere periferico di Palermo. Insomma la mia fortuna è stata duplice: non solo sono nata in una famiglia che può permettersi di iscrivere i figli a dei corsi privati, ma in più nella mia famiglia lo sport era effettivamente praticato (tristemente posso dire di aver conosciuto tanti rampolli di famiglie abbienti che non sanno nuotare o andare in bicicletta, poterselo permettere è necessario ma non sufficiente) e riconosciuto come elemento fondamentale di formazione e, in generale, come parte immancabile della vita dell’essere umano.

    Questo significa intanto che la domenica ci si svegliava presto, per andare in bici o con i pattini a rotelle in via Libertà (grande viale alberato lungo kilometri che attraversa tutto il centro di Palermo, trasformandosi poi in

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