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Francesco Totti: Solo un capitano
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Francesco Totti: Solo un capitano
E-book240 pagine3 ore

Francesco Totti: Solo un capitano

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Nessun calciatore in epoca moderna è stato tanto legato alla sua città e alla sua squadra come Francesco Totti. Così facendo è diventato il simbolo vivente dei colori giallorossi come dei luoghi dove è nato e cresciuto. Un rapporto quasi viscerale con Roma e la Magica, che l'ha trasformato in una sorta di “ottavo re” e un personaggio conosciuto e apprezzato non solo in ambito calcistico. In questo libro è raccontata la lunghissima carriera di colui che da "Pupone" è cresciuto fino a diventare il capitano di una fede. Oltre vent'anni di gol, agonismo, giocate e imprese sportive, fino al commovente ritiro: un lungo periodo in cui Totti ha finito per incarnare, con orgoglio, il significato di essere romani e romanisti.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita9 nov 2020
ISBN9788836160754
Francesco Totti: Solo un capitano

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    Anteprima del libro

    Francesco Totti - Alessandro Ruta

    Murales

    L’auto entra nel centro sportivo. Un parcheggio libero, eccolo, vicino all’ingresso. Padre e figlio sono arrivati, è tempo per il ragazzo di andare all’allenamento della squadra. Si assomigliano abbastanza i due, anche se forse il giovanotto ha preso più dalla mamma, a dire il vero, specie nei lineamenti del viso. Però caspita se è biondo, come il padre da piccolo.

    «In bocca al lupo Cristian, e divertiti, soprattutto. Vedi pure di non farti male».

    «Papà, ma tu non vieni dentro?»

    «No dai, ti aspetto qua. Magari vado a sbrigare delle commissioni, devo ricevere delle telefonate per lavoro, credo».

    «Strano, di solito entri a vedermi giocare».

    «Sì, ma oggi, davvero, non posso. Torno qua a breve, non ti preoccupare. Mica ti abbandono, mi troverai qua, quando finirai».

    «D’accordo, come preferisci».

    La portiera dell’auto si apre, Cristian scende e corre dentro il centro sportivo con la borsa sulle spalle. Il padre però non ha delle commissioni da fare, né le telefonate. Rimane lì, malinconico, nel parcheggio di un posto che è intitolato a Fulvio Fuffo Bernardini, nella zona sud di Roma, a Trigoria. Per la stragrande maggioranza delle persone quella è semplicemente Trigoria. Non c’è nemmeno bisogno di specificarlo ai tassisti, se ci si vuole andare: basta il nome.

    Fulvio Bernardini era stato un grandissimo giocatore della Roma e allenatore della Nazionale, un personaggio che ha fatto la storia del calcio in Italia, come il papà di Cristian. Che quel posto lo conosce a menadito, potrebbe girarlo bendato e riconoscerebbe ogni gradino, ogni ciuffo d’erba dei campi da calcio, il rumore del registratore di cassa al bar. Se dovesse entrare verrebbe salutato da tutti i presenti, qualcuno gli chiederebbe un selfie, altri persino si vergognerebbero, si darebbero di gomito col vicino sussurrando: «Ehi, l’hai visto? Ma è proprio lui?», «Sì, sì, è lui, sicuramente ha portato il figlio agli allenamenti».

    Ma pure se dovesse andare verso il cuore di Roma, Via del Corso, Piazza Navona, da nessuna parte verrebbe lasciato in pace. Nella Capitale è famoso quasi come il Papa, forse di più. Non può nemmeno andare all’alba a correre sul Lungotevere: è una sorta di recluso di lusso nella sua città, a cui allo stesso tempo ha dato tantissimo. I romani per il suo matrimonio, pur senza conoscerlo di persona, gli hanno mandato dei regali, dal bene che gli vogliono. Gli hanno persino dedicato dei murales in giro per la città, uno bellissimo, su una parete giallorossa, lui che esulta rivolto verso il cielo: è in Via del Pozzuolo, dietro Via Cavour, nel centro dell’Urbe. Un altro, immenso, sui muri della scuola media Giovanni Pascoli, che aveva frequentato tanti anni prima.

    Non varca la soglia dell’impianto sportivo perché gli è venuto un groppo in gola tremendo. Gli torna in mente tutto: gli avvenimenti conclusivi di quella storia d’amore, ad esempio, il suo addio definitivo al club, sfumata la carriera da dirigente per dissapori interni alla società. E quando, circa trent’anni prima, la stessa scena tra genitore e figlio si verificava identica con lui nei panni di Cristian, del giovane virgulto che andava ad allenarsi, accompagnato da mamma Fiorella, che veniva da Porta Metronia, da Via Vetulonia, una bella vasca anche senza traffico, mezz’ora di macchina.

    Dalla casa dove viveva con la famiglia a quella dove condivideva la vita di squadra: sempre con la Roma, di cui era stato calciatore, capitano, simbolo e chissà quante altre cose. Sul campo come nel cuore.

    Il papà di Cristian, che di cognome fa Totti, si chiama Francesco: cerca un po’ di musica per allontanare le lacrime, accende la radio, parte Su di noi di Pupo. «Su di noi nemmeno una nuvola, su di noi l’amore è una favola…» Passa a Ligabue, che è interista, ma pazienza: «Balliamo sul mondo, va bene qualsiasi musica, cadremo ballando, sul mondo lo sai, si scivola…», infine i Queen, roba da stadio, potente, «We will rock you». Gli sembra di rivedersi, adolescente, correre pure lui verso l’inizio di quella magica storia.

    Lo sceriffo e lo gnomo

    Via Vetulonia, numero 18. Roma è una città enorme, ma per molti suoi abitanti non è altro che l’unione di diversi paesi, piccoli o grandi, tutti con la loro storia, tutti con il loro microcosmo. E anche all’interno di questi quartieri ci sono delle sottozone. San Giovanni, per esempio, può voler dire molte cose: intanto il nome ufficiale sarebbe Appio Latino, ma poi un conto è la zona vicino alla basilica, la piazza dove c’è il Concertone del Primo maggio, un altro quella verso le Terme di Caracalla, o il Parco della Caffarella, l’Alberone, e tutte le Mura Aureliane, che fanno da cornice. Mura lunghissime, in cui si aprono varie porte, e ogni porta è uno sguardo su un mondo: San Giovanni, Asinaria, Latina, San Sebastiano e Metronia.

    Entrando da qua si arriva facilmente in Via Vetulonia. Al numero 18 vive la famiglia Totti: papà Lorenzo, detto Enzo, mamma Fiorella e i loro due figli, Riccardo, nato nel 1970 e Francesco, sei anni dopo, il 27 settembre del 1976. Enzo Totti lavora in banca e lo chiamano Sceriffo, addirittura per due motivi: deve avere sempre tutto sotto controllo e riesce sempre in pochissimo tempo a soddisfare i bisogni delle persone. «Ti serve qualcosa? Dammi mezz’ora e te la recupero», e così succedeva. La signora Fiorella è casalinga, si occupa prevalentemente dei suoi genitori anziani, uno dei quali, Costante, il nonno di Francesco e Riccardo, è socio vitalizio della Roma, squadra per cui fa il tifo da sempre. Anche Enzo è romanista, mentre mamma Fiorella no, simpatizza per la Lazio.

    Il calcio in casa ci è entrato, comunque. Impossibile tenerlo fuori, in quella zona semicentrale, ma al contempo popolare, dove si può ancora giocare per strada. Riccardo è molto bravo, si è già fatto un nome, ma il piccolo Francesco, piccolo in tutti i sensi, di età e di corporatura, è ancora minuto per le partite serie; in più, fino ai cinque anni, faticava proprio a parlare, e ci era voluto l’aiuto di un logopedista. Tuttavia, da piccolo, a otto mesi, aveva destato un’enorme impressione a tutti quelli che l’avevano visto spingere coi piedi un Super Santos arancione, uno dei primi regali ricevuti dai genitori, sulla spiaggia di Porto Santo Stefano, sulla costa tirrenica.

    Questo secondogenito dal pallone non si stacca mai. Un giorno papà Enzo decide che Francesco, che non ha ancora dieci anni, deve superare un test. Lo si potrebbe definire un esame dell’università della strada: il saper tenere botta ai ragazzini più grandi che giocano in Piazza Epiro, a due isolati da Via Vetulonia. Lì ci sono quelli forti, vicino al mercato comunale. Se ci andasse da solo non gli farebbero neanche sfiorare il pallone, ma con l’aiuto dello Sceriffo tutto è più semplice. E in effetti va così: «Ma chi? Lo gnomo?», dicono gli altri ragazzi guardando il piccolo Totti, minutino e pure timido, timidissimo. Qualcuno lo conosce già, è sempre lì in giro nel quartiere con Riccardo. Si convincono solo perché c’è Enzo, ma ben presto si rendono conto che quel nanerottolo ha una marcia in più: per l’età che ha è fortissimo. «Rifacciamo le squadre, dai». E il primo a essere chiamato adesso è proprio lo gnomo. Nessuno vuole giocarci contro, adesso: esame superato alla grandissima.

    La vita a casa, per il resto, è quella di molti coetanei. I cartoni animati nel pomeriggio, Holly e Benji soprattutto, ma senza disdegnare telefilm americani importati di recente come Chips, la sigla ascoltata a tutto volume che fa arrabbiare mamma Fiorella, le scorribande nel quartiere con Angelo, il cugino, figlio del fratello della madre, a suonare i citofoni e scappare, il flipper nel bar sotto casa, in cui Francesco è un vero portento. Fa anche il chierichetto in chiesa, i genitori sono molto credenti, e un giorno succede una sorta di miracolo: la signora Fiorella, in visita nella maestosa Sala Nervi del Vaticano insieme al figlio più piccolo, riesce a intrufolarsi in mezzo agli altri presenti fino ad arrivare a tu per tu con papa Giovanni Paolo II. Il risultato è un bacio in fronte del pontefice polacco a Francesco, che ha sette anni e frequenta la prima elementare. Una sorta di benedizione eterna? Chissà. Intanto lì per lì a Fiorella fregano il portafoglio, nella calca.

    Dopo Piazza Epiro, però, il passo successivo è trovare una squadra con cui giocare a calcio non solo per strada. Va bene le sfide con i più grandi, adesso poi che sta cominciando a crescere a botte di pappa reale e carnitina poi non è nemmeno più lo gnomo, però se questa passione lo prende così tanto perché non mettere il ragazzino un attimo in carreggiata? Lì comunque, alla Fortitudo, la squadra del quartiere, dove i compagni sono anche i complici delle varie marachelle, non basta essere il re di Paperelle, un gioco in cui con diversi tipi di pallone bisogna colpire persone in movimento, che scendono da una scalinata in diagonale, e che perfeziona la mira nel tiro e il controllo del rimbalzo, quando la sfera torna indietro. E dopo un po’ non basta più nemmeno la Fortitudo, perché gli allenatori di lì si rendono conto che Francesco ha qualcosa di speciale.

    Una delle squadre giovanili più importanti di Roma è la Santa Maria in Trastevere, per tutti la Smit. Gioca nell’omonimo quartiere, ma si allena dall’altra parte della città, in zona Ponte Marconi: tuttavia il sacrificio vale la pena, perché a Totti basta un provino per entrare e per ottenere il primo tesserino da calciatore vero, color rosa e numero 097264. Mamma Fiorella comincia lì a caricarlo sulla sua Fiat 126 per scarrozzarlo in giro per l’Urbe, ma lo fa volentieri, perché Francesco il calcio non solo lo ama, ma se lo gusta. È davvero bravo, gli allenatori stravedono per lui e le voci corrono, sono sempre di più i curiosi che cercano informazioni su quel ragazzino biondissimo dal tocco di palla vellutato e che gioca a testa alta. E pazienza se con la scuola rimane un filo indietro, lui i compiti li farà quasi sempre in macchina, ripetendo le lezioni alla mamma che sta guidando.

    Nella capitale ci sono tre squadre professionistiche, di fatto: la Roma, la Lazio e la Lodigiani. Ed è quest’ultima a tuffarsi sul figlio dello Sceriffo, che ormai ha dieci anni, ma viene fatto giocare con i dodicenni. Parla sempre poco, ma lascia che sia il campo a pronunciarsi. Gli danno la maglia numero 8, più che altro perché la 10 sarebbe una responsabilità troppo grande, meglio che non si monti la testa, anche se in realtà è una persona molto generosa e altruista, aiuta gli allenatori a portare il materiale in campo ed è sempre l’ultimo a lasciare l’allenamento dopo aver riportato gli attrezzi in magazzino. «Ma quanto è bravo?», si sente sempre più spesso durante le partite dove gioca Francesco, che da regista di centrocampo è stato spostato in avanti, sulla trequarti, se non come attaccante puro.

    La fama lo precede e giunge fino al nord Italia. A Milano, per la precisione. Lì c’è una società determinata a mettere sotto contratto tutti i migliori giovani in circolazione, forte anche di risorse economiche difficilmente battibili: è il Milan di Silvio Berlusconi. L’emissario incaricato di informarsi su Totti Francesco, residente in Via Vetulonia, tesserato per la Lodigiani, si chiama Ariedo Braida. Un giorno si presenta direttamente a casa: con sé ha un contratto e una maglia rossonera da far indossare al ragazzo, che ha quasi dodici anni. È l’estate del 1988, il Milan ha appena vinto lo scudetto con Arrigo Sacchi mostrando uno stile di gioco rivoluzionario. È una notizia che provoca un grande trambusto: si tratta di ribaltare la vita di una persona e della sua famiglia, spostarsi a Milano, pagare le spese di trasferimento. «Non c’è fretta, in realtà, Francesco può rimanere alla Lodigiani ancora due anni, l’importante è che firmi per noi, perché prima o poi altri grandi club verranno qua a chiedere informazioni», spiega Braida, il quale si vedrà rimbalzare l’offerta in maniera gentile ma ferma.

    In effetti, esattamente un anno dopo, alla porta della Lodigiani vengono a bussare le altre due squadre della capitale: Lazio e Roma. Il club biancoceleste ha anch’esso un campioncino nella rosa delle giovanili, coetaneo di Francesco, destinato a un grande futuro, un difensore che gioca con un’eleganza ineguagliabile e che si chiama Alessandro Nesta: offre parecchi soldi, a differenza della Roma, che mette sul piatto altri giocatori oltre a una somma di denaro. La scelta ora spetta a Francesco, che è tifoso giallorosso, come suo padre e soprattutto suo nonno Costante, a cui era molto legato. Va spesso all’Olimpico a vedere La Magica, e freme quando si avvicinano alla tribuna i suoi due idoli, Giuseppe Giannini, il capitano, e Bruno Conti, agli ultimi scampoli di una carriera straordinaria da campione del mondo. Non è una decisione difficile: al bivio il ragazzo sceglie la Roma, che alla Lodigiani manda 300 milioni di lire e due altri calciatori, Gianni Cavezzi e Stefano Placidi. Solo il primo arriverà in A, seppur per poco, con la maglia del Cagliari, anni dopo.

    Mamma Fiorella è più tranquilla, avrà il suo figliolo vicino a casa. Continuerà ad accompagnarlo con la sua 126, ma sempre a Roma, allo stadio Tre Fontane, sull’immensa Via Cristoforo Colombo, nel quartiere Eur, dove si allenano le squadre giovanili giallorosse. Molto meglio che prendere treni o aerei per Milano, sapendo che Francesco è lontano, in una città che non conosce.

    «La Roma avrà bisogno di te»

    Gildo Giannini non è solo il papà del Principe, Giuseppe, capitano della Roma. È anche e soprattutto il responsabile del settore giovanile giallorosso. Da anni conosceva Totti, seppur non direttamente, ma sapeva che il ragazzo aveva delle qualità speciali, che gli ricordavano quelle del figlio. È stato Gildo a insistere con il presidente del club, Dino Viola, ex senatore democristiano, perché investisse quei 300 milioni di lire – più due calciatori già formati – sul giovane talento. Non era una cifra da ridere per un tredicenne, ma Giannini papà avrebbe garantito davanti ai dirigenti.

    Dal numero 8 sulla schiena presto Totti sarebbe passato al 10: è Franco Superchi, portiere di riserva nella Roma dello scudetto del 1983, che glielo assegna: al diavolo la prudenza, con quel fantasista dietro le due punte nei Giovanissimi provinciali e poi regionali. Ed è subito spettacolo, gol e assist. Le diverse squadre della società se lo rubano, gioca con i più grandi oltre che con quelli della sua età. Così facendo la scuola va un po’ alla deriva, in macchina con la mamma Francesco oltre a fare i compiti e a ripetere deve anche mangiare, e finisce spesso con l’addormentarsi, sfinito. Inevitabile, la bocciatura in terza media: frequenta la scuola media Giovanni Pascoli, dove ha conosciuto un giovanissimo professore di educazione fisica, Vito Scala, che diventerà suo amico oltre che il fisioterapista personale, una sorta di factotum.

    Francesco si toglie delle soddisfazioni quasi solo con la Roma e con il calcio in generale. Fa il raccattapalle nelle partite di campionato, ma nell’estate del 1990 l’Italia è paralizzata dal Mondiale, di cui l’Olimpico è il centro nevralgico. Per la finale tra Germania Ovest e Argentina, Francesco è lì a bordocampo. Passa accanto alla Coppa del mondo, a quel trofeo che sogna di sollevare un giorno. Quando gli ricapita un’occasione così? Sfiora il trofeo, chissenefrega della scaramanzia.

    Pochi mesi dopo partecipa alla sua prima cena di Natale del club. È un momento speciale, più che altro perché quella sarà l’ultima apparizione pubblica del presidente Viola, già gravemente malato di tumore. Un cancro all’intestino se lo porterà via di lì a poche settimane: un malore a fine dicembre, un’operazione, la morte. Il volto del proprietario della Roma, in carica dal 1979, in quella sera invernale è già segnato e sofferente, ma quando passa davanti a lui Totti non riesce a trattenersi, gli prende la mano e comincia a parlargli. «Tu sei Francesco, vero? Tutti mi dicono di te. Quanti anni hai?», «Quattordici, presidente», e Viola, con un filo di voce, «Ecco, quattordici. Se continui così, dirò all’allenatore di farti debuttare in Serie A quando ne avrai sedici, appena il regolamento lo consente. Francesco Totti, vero? Bravo, bravo. La Roma avrà bisogno di te».

    Dino Viola, un presidente unico (quasi come il suo vero nome all’anagrafe: Adino) nella storia giallorossa: romano acquisito, visto che era nato nella Lunigiana, era finito nella capitale a lavorare – come tanti del resto – seguendo le orme del fratello. La Roma l’aveva nel destino, fin da quando l’andava a vedere a Testaccio, negli anni Trenta, aggrappandosi di nascosto ai respingenti del tram, curioso di vedere dove portava quel mezzo stracolmo di gente. Come Totti, anche lui aveva rischiato di finire alla Lazio: d’altronde come amico aveva nientemeno che Silvio Piola, bandiera biancoceleste, che gli fece fare un provino, ma il suo cuore batteva solo per la Magica. La seguì anche poche settimane dopo il matrimonio con la moglie, la signora Flora, in trasferta a Livorno: un vero ultras ante litteram, in bicicletta controvento da Pontedera per quaranta chilometri. D’altronde la Roma stava per vincere il suo primo scudetto, come sarebbe accaduto una settimana dopo, e Viola non poteva mancare.

    Nel 1942 l’Italia era in guerra e lui, laureato in Ingegneria meccanica, lavorava come collaudatore del bombardiere strategico quadrimotore P.108B della Piaggio, subendo anche un incidente abbastanza grave da cui si salverà per miracolo. Diventa socio del club nel 1963 e presidente nel 1979, il 16 maggio. Il giorno dopo era già al telefono con Niels Liedholm, ex tecnico della Roma, a cui strappava la promessa di un ritorno. Era l’inizio di un ciclo memorabile, con lo scudetto conquistato del 1983 grazie al contributo di tutta la squadra, naturalmente, ma soprattutto dell’acquisto più azzeccato della gestione Viola, quello del brasiliano Paulo Roberto Falcão. Un giocatore la cui avventura in giallorosso terminerà malissimo, tra accuse di non essersi preso la responsabilità di calciare uno dei rigori durante la lotteria decisiva nella finale di Coppa Campioni all’Olimpico contro il Liverpool, nel maggio del 1984, e un ultimo contratto faraonico rinnovato a fatica (pare anche con l’intercessione di Giulio Andreotti, potentissimo uomo politico democristiano e tifoso romanista) prima di una serie di infortuni.

    In fondo era questo Viola, un uomo che non badava a spese, trattava i giocatori come figli e soffriva tantissimo nel vederli partire per altri lidi, come successo con Carlo Ancelotti, per esempio, finito al Milan nel 1987, l’anno prima dell’approccio fallito di Braida con Totti: un addio con molte lacrime da ambo i lati. Una persona speciale, ironica e brillante, capace di battute rimaste nella storia, come lo scudetto del 1981 assegnato alla Juventus «per questione di centimetri», dopo il gol annullato al romanista Turone nella decisiva sfida di Torino contro i bianconeri per un fuorigioco dubbio, mai del tutto chiarito. In quello stesso stadio prenderà anche dei calci da alcuni tifosi juventini, in un’altra occasione.

    Il presidente parlava in violese, una sorta di stile dialettico pieno di frasi velate, mezze insinuazioni, mezze verità, sempre in maniera raffinata, anche commentando in negativo le sorti della sua squadra («Il vero brasiliano è Bruno Conti», riferendosi alle prestazioni negative di due altri carioca

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