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Roberto Baggio. Il Divin Codino
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E-book244 pagine3 ore

Roberto Baggio. Il Divin Codino

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Info su questo ebook

Pallone d'Oro nel 1993, Roberto Baggio è un campione amato da tutti, indipendentemente dai colori che ha indossato. L’ unico nella storia del calcio italiano ad aver segnato in tre mondiali diversi e anche per questo il solo colore che lo rappresenta è l’azzurro della Nazionale. Il 16 maggio 2004 accarezzava per l’ultima volta il pallone, sfiancato dagli infortuni e dalle incomprensioni con gli allenatori. Ma quello che è stato uno dei fantasisti più forti di tutti i tempi ha lasciato un vuoto che ancora avvertiamo, a livello sportivo e umano.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita11 ott 2019
ISBN9788832176827
Roberto Baggio. Il Divin Codino

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    Anteprima del libro

    Roberto Baggio. Il Divin Codino - Fabio Fagnani

    Introduzione

    Avere l’onore e l’onere di raccontare la carriera di Roberto Baggio è un privilegio che mai mi sarei aspettato di poter avere. Roby è stato il primo calciatore che ho ammirato, il primo di cui ho voluto la maglietta, il primo di cui ho avuto il poster appeso in cameretta.

    Ripercorrere le sue stagioni, i suoi gol, le sue vicissitudini, per me è stato qualcosa di emozionante, è stata un’esperienza da brividi.

    Dal suo esordio con il Vicenza, passando per il primo gol con la Nazionale maggiore, dal tradimento alla Fiorentina alla consacrazione bianconera, fino ai gol di provincia con Bologna e Brescia e al suo rapporto con San Siro, dove ha chiuso, il 16 maggio del 2004, la sua maestosa carriera.

    Quello che avete tra le mani è un viaggio all’interno della carriera di Roberto Baggio. È un tributo a un giocatore che ha cambiato il calcio e ha segnato il suo nome con un pennarello indelebile che nessuno riuscirà a cancellare.

    Questo libro è soprattutto rivolto a chi Baggio non lo conosce fino in fondo, alle nuove generazioni, ai giovani che sono abituati ad atleti perfetti e inscalfibili come Cristiano Ronaldo, a talenti strapagati, a giocatori mediocri che vincono i Mondiali.

    Roby Baggio era un uomo pieno di valori, di spirito, di dedizione e determinazione. E solo grazie alla sua forza interiore è riuscito a sconfiggere il più grande ostacolo della sua vita, solo così è riuscito a imporsi nel calcio italiano e a vincere in campo internazionale, solo così è riuscito a diventare l’emblema del calcio pulito, del calcio giusto e del calcio bello.

    Nella prefazione Alessandro Bonan, che ringrazio, ha detto «Baggio è il calcio», mentre Gianmarco Aimi e Tommaso Lavizzari, anche loro preziosissimi nel completamento di questo libro, lo hanno definito «poetico» e «un affascinante esteta» del pallone. Roberto Baggio è stato e sarà sempre un giocatore che ha valicato i confini terreni e sportivi, diventando un sentimento perché, come mi ha detto Beppe Bergomi nella sua intervista che potrete leggere nelle prossime pagine, «non si valuta un calciatore da quello che ha vinto, ma da quello che ha lasciato nei cuori dei tifosi».

    Grazie, Roby.

    Prefazione

    con Alessandro Bonan

    Forse è un unicum, ma gli impegni, i tempi serrati e il lavoro non ci hanno permesso di poter godere a pieno della penna di Alessandro Bonan. Ma lui, giornalista e conduttore televisivo (su Sky Sport ogni sera è direttore d’orchestra di Calciomercato - L’Originale), voleva comunque partecipare, essere presente all’interno di questo libro. E allora ci siamo fatti una chiacchierata, che funge da prefazione, sul calcio di Roberto Baggio e le prime esperienze di Bonan con il Divin Codino.

    Secondo te, Baggio è stato uno dei migliori talenti italiani?

    No. Credo fermamente che Roberto Baggio sia stato il più grande talento del calcio italiano di sempre. Aveva la capacità di spostare le difese, di cambiare le partite, di sovvertire i pronostici seguendo dei criteri tutti suoi, con questa tecnica brillante e questo fisico eccezionale che, non dimentichiamolo mai, è riuscito a portare avanti due ginocchia disgraziate fino a trentasette anni.

    Per me lui aveva qualcosa più di tutti. Una leggerezza unita alla potenza, una classe legata alla realizzazione, una velocità che non compromettesse la lucidità delle scelte, delle idee, delle volontà. Aveva una coordinazione tra cervello e fisico che nessuno possedeva.

    Qual è il tuo primo approccio con Roby?

    Quando Baggio fu acquistato dalla Fiorentina, era accompagnato da una sorta di mito, nonostante la giovanissima età. Si diceva che potesse diventare il nuovo Re del calcio italiano. E queste voci iniziarono a interessare e a farsi largo tra gli appassionati. Quindi, incuriosito, iniziai a seguirlo anche quando militava nella primavera della Fiorentina. Lui aveva subito l’infortunio al ginocchio, che lo aveva reso veramente un menomato in quel momento. Nessuno sapeva davvero se potesse di nuovo solcare un campo da calcio. Se potesse avere una carriera, un futuro, l’unica cosa certa era che avesse un talento fenomenale, ma bisognava capire se, anche se si fosse ripreso, quale potesse essere l’impatto sul suo gioco.

    Mi ricordo che al torneo di Viareggio, mi sembra fosse un Fiorentina-Milan, andai a seguire questo Roberto Baggio. E la prima cosa che mi colpì fu il fisico. Io me l’aspettavo più robusto, più grosso e invece lo trovai asciutto, longilineo, e già da quella partita capii che, nonostante l’infortunio subito qualche mese prima, aveva qualcosa di differente da tutti gli altri giocatori in campo. Aveva una tecnica superiore, una visione che andava oltre la sua età e una rapidità che infuocava le scarpette degli avversari. Se partiva, ti dribblava e non lo prendevi più.

    Questo è un flash che ho impresso nella memoria. Ma il suo affacciarsi nel mondo del calcio non fu immediato. Ci fu una sorta di calvario che gli interruppe continuamente l’approdo nei palcoscenici che davvero meritava fino a quando poi non è riuscito a trovare il suo equilibrio fisico, grazie ovviamente a un lavoro muscolare e atletico. Da quel momento in poi, è riuscito a diventare il calciatore fuori da ogni tempo che si è dimostrato. Chiaramente io fui un suo grande fan ai Mondiali del ’90, dove lui iniziò a fare il fenomeno.

    Questo da tifoso, invece da addetto ai lavori?

    Il mio primo contatto da giornalista è dopo una partita al Franchi. Non ricordo bene che partita fosse, ma ho impressa nella mente la visione dei suoi occhi e del suo carisma. Qualcosa di incredibile e di contagioso, riusciva ad avere una presa pazzesca sulle persone che lo circondavano. Forse io ero anche incline a subirne il fascino, visto la grande ammirazione sportiva che avevo nei suoi confronti, ma ci fu un’altra cosa che mi colpì moltissimo: l’intensità dello sguardo. Gli rivolsi delle domande nel post gara e poi, a un certo punto, evidentemente una lo interessò più delle altre e smise di guardarsi attorno e mi penetrò con i suoi occhi glaciali. E come se in quel momento sentissi delle vibrazioni, erano fortissime, era la sua impressionante personalità che si faceva largo. In quel momento la sentivo, la percepivo, con concretezza. Il tutto condito dalla sua grande cortesia e il suo candore nell’atteggiamento. Elementi che mi sorpresero non poco.

    Com’è ricordato Baggio dal mondo?

    Roberto Baggio è ricordato anche per USA ’94. Un Mondiale in cui ha cantato in un gruppo che era coordinato perfettamente dallo schematista per eccellenza, Arrigo Sacchi, ma la sua scena se la prende eccome, come il migliore dei frontman americani. È stato capace da solo di portarci in finale, di farci godere e sperare, cercando una vendetta che non è arrivata.

    Roberto Baggio è riuscito a fare la carriera che ha fatto in un periodo in cui c’erano forte intolleranze verso i giocatori di qualità, ma molto offensivi, come lui. Le incomprensioni con Sacchi, con Lippi, i dissapori con Capello e la trattativa sfumata con il Parma di Ancelotti che non sapeva dove metterlo. In un mondo fatto di 4-4-2 o 4-3-3, lui ero uno deschematizzatore, un fenomeno nel rompere gli schemi avversari, ma anche quelli della sua formazione, secondo gli allenatori tattici dell’epoca. Un elemento che farà sempre discutere nella storia di Baggio, che, per la verità, è sempre stato un tipo isolato, amato dalla gente, dagli appassionati, dagli addetti ai lavori, ma non troppo dagli allenatori e forse, questa, è stata anche una sua responsabilità.

    Mi racconti un aneddoto che ti lega a Roberto?

    Tra le tante cose che ho il piacere di ricordare di Roby c’è una serata speciale. Quella dedicata a Stefano Borgonovo, a Firenze. Io dovevo gestire il campo, anche per il pubblico, per fare spettacolo, interviste e coordinare un po’ il tutto. In questa partita di solidarietà, in questa cornice festosa per Stefano, il pubblico era sensibile e molto vicino a Borgonovo. Mi ricordo che Roby aveva un rapporto quasi viscerale, quasi metafisico, con lui. Ricordo Stefano con gli occhi spiritati, accesi verso il nulla, ma comunque pieni di gratitudine per tutti coloro che erano lì presenti per lui.

    A un certo punto di quella serata, per creare ancora più clamore, decido di mettere in piedi un calcio di rigore che non c’era mai stato per far calciare a Roberto quel famoso calcio di rigore che lui si era rifiutato di tirare a Firenze, quando indossava la maglia della Juventus, che poi calciò De Agostini e Mareggini parò. E proprio perché erano presenti a quella serata sia Roberto, sia Gianmatteo Mareggini, decisi di riproporre quella situazione, questa volta facendoglielo calciare. Ovviamente non ho detto nulla a Roby, avrebbe rifiutato. Mi ero messo d’accordo con Mareggini che voleva pararglielo a tutti i costi. Quando ho annunciato al pubblico che Baggio avrebbe calciato il rigore che non tirò, il Franchi esplose e nella sorpresa generale Roberto, anche se vistosamente infastidito, non poteva rifiutare. Lo ricordo benissimo, Baggio aveva delle scarpe tipo Hogan, alte, comode ma non funzionali su un campo da calcio. Roberto parte con un passo compassato, apre il piattone e, nonostante Mareggini riesca a intuire la direzione del tiro, segna. E realizza il tanto chiacchierato rigore di Firenze-Juventus del 6 aprile 1991. Poteva segnare anche in ciabatte.

    Mi hai detto che secondo te è stato il più grande di tutti. Perché?

    Lui era in grado di unire tutti. Nonostante i cambi di maglie, non sembrava uno attaccato i soldi, non era quello che gli interessava, almeno questo era quello che si percepiva. Lui era un uomo per il calcio. Questa è la chiave di tutto. Non era per il Vicenza, la Fiorentina, la Juventus, il Milan, il Bologna, l’Inter o il Brescia. Lui era per tutti. Era uno puro, che rappresentava questo sport nella sua essenza, nella sua bellezza, nella sua poetica più estetica, nella sua arte. E se vogliamo trovare una sintesi, è per questo che lui amava così intensamente la maglia azzurra della Nazionale, perché rappresentava il gioco del calcio. Senza schieramenti, senza bandiere, senza restrizioni contrattuali e senza denaro, appunto. Lui aveva un attaccamento reale verso il gioco, verso la sua passione per lo sport. E lo dimostra in quelle parole che disse alla conferenza stampa di presentazione coi colori bianconeri che gli sono stati messi addosso senza un suo chiaro consenso e lo sottolinea qualche mese più tardi proprio non calciando quel rigore, cosa che oggi sarebbe una follia, ma ha dimostrato cosa contasse veramente per lui. Io in quel gesto ci vedo una vena romantica, d’altri tempi, da romanzo ottocentesco, non compresa appieno dai tifosi fiorentini.

    Se i suoi eredi, Francesco Totti e Alessandro Del Piero, hanno rappresentato rispettivamente la Roma e la Juventus, lui, Roberto Baggio, rappresentava, rappresenta e rappresenterà il calcio.

    È andata abbastanza bene

    «Lo giuro signora, lo giuro. Io non ne sapevo niente». Quello che parla è un dirigente del Caldogno, la squadra della città natale di uno dei più grandi talenti del calcio, Roberto Baggio. Il dirigente sta cercando di spiegare alla signora Rizzotto, la mamma di Roby, quale fosse il motivo per cui la famiglia non fosse a conoscenza di un interesse per il figlio da parte del Vicenza. Da Caldogno a Vicenza il passo è breve se sei in macchina, ma per un ragazzo che sogna il pallone è qualcosa di incredibile.

    Era un giorno di primavera, di quelli che iniziano a essere tiepidini, ma la brezza leggera comincia a formicolare sopra le teste dei vicentini. A Caldogno ci sono poco più di diecimila abitanti, ma a volte, nonostante il paese sia piccolo, le persone non mormorano abbastanza e nessuno aveva detto alla famiglia Baggio che Roberto, il loro sesto figlio (di otto in totale), nato il 18 febbraio 1967, era stato selezionato da un osservatore di una squadra professionista.

    Roberto ha sempre portato dentro di sé la passione per il calcio. In casa si muoveva sempre con il pallone tra i piedi: andava in bagno con la palla, a letto con la palla, a pranzo con la palla. E giocava in continuazione, tant’è che più di qualche volta quel pallone ha colpito quadri, vasi, finestre. Papà Fiorindo lo rincorreva sperando di prendergli quel maledetto pallone che continuava a spaccare qualsiasi cosa all’interno di casa e dell’officina di famiglia. Roberto appena sentiva un rumore stridulo, piatto e non secco come quello del muro e della porta, scappava con il pallone in mano, sapeva di averla combinata grossa. E se papà Fiorindo avesse scoperto il danno, castigo per una settimana.

    La signora Rizzotto, all’anagrafe Matilde, è gonfia dal nervoso e non riesce proprio a capacitarsi di come sia possibile che nessuno l’abbia avvisata prima. Infatti, ha appena avuto un colloquio con un osservatore del Vicenza, che guardandola dritta negli occhi le ha detto: «Signora, ma voi vi rendete conto che figlio avete? Come mai non lo avete portato al provino?». La signora Matilde non sa assolutamente cosa rispondere all’osservatore e, intimidita, inizia a pensare se fosse stato Roby stesso a non dire niente a nessuno, rifiutando di andare al provino, oppure, pensa ingenuamente la signora, che se lo fosse dimenticato lei, quel provino, dandosi delle colpe che in realtà non aveva. «Quale provino, scusi?» risponde mestamente la signora Matilde. Per fortuna a chiarire la situazione interviene proprio l’osservatore che, senza mezzi termini, fa capire alla signora che il Vicenza aveva chiesto la possibilità di testare il ragazzo direttamente alla società dilettantistica. «Signora, è sei mesi che tentiamo di vedere suo figlio Roberto. C’è qualcosa che non va?», l’osservatore si trova nella strana situazione di dover dare delle spiegazioni, di dover insistere: di solito è il contrario. Non appena arriva un osservatore o un dirigente di una squadra professionistica si crea un gruppo di piranha attorno come se fosse una preda da spolpare. Ma la distanza della mamma di Roberto è presto detta. Il Caldogno ha fatto finta di non recepire il messaggio, quel giovane ragazzotto che piazzava gol a raffica durante le partite del campionato provinciale non poteva andar via, era troppo bello vederlo giocare.

    Una volta il presidente di una squadra avversaria ha incontrato Roberto poco prima dell’inizio della gara. Voleva vedere con i suoi occhi questo ragazzino dei Giovanissimi di cui tutti parlavano. «Chissà quanti ne farai oggi». La risposta, come sempre nella carriera di Baggio, arriva direttamente sul campo e mai con le parole. Il presidente degli avversari guarda l’allenatore della sua squadra e dice: «Quanti ne hanno fatti? Ho perso il conto». E l’allenatore risponde: «Quello ricciolino ne ha fatti cinque, nel primo tempo, ma credo possa raddoppiare prima della fine della partita».

    È un tipo taciturno che predilige la pratica alla teoria. Roberto ha delle qualità differenti da tutti gli altri.

    Mentre il dirigente del Caldogno incassa gli insulti della signora Matilde, la sera l’aria inizia a diventare un po’ più fresca e l’ambiente si fa candido. Roberto esce dagli spogliatoi, la doccia ha sistemato le botte, la stanchezza si fa sentire ma fosse per lui ne giocherebbe subito un’altra. La borsa è pesante, cammina lento, ma sul volto è stampato un sorriso grande come un pallone:

    «Allora mamma, hai visto che gol che ho fatto?»

    «Roby, devo dirti una cosa».

    «Dovevo passarla nell’ultima azione? Lo so».

    «No, Roby. Ascolta. Mi hanno chiesto se vuoi andare a fare un provino al Vicenza».

    Roberto guarda sua mamma impietrito, come se le stesse dicendo qualcosa completamente fuori di testa, qualcosa che non solo non si aspettasse, ma che sembrava rivolta a qualcun altro, a qualcuno che fosse più pronto o almeno che avesse la consapevolezza di esserlo.

    Gli occhi taglienti del ragazzo si stringono in un’emozione concitata, i denti mordono il labbro inferiore della bocca e con la mano destra inizia a frugarsi i capelli, come se fosse innervosito da questa notizia. Mamma Matilde osserva la sua reazione, capisce che suo figlio Roberto non sembra ancora pronto per un salto così, anche se poi si tratta solo di un provino. Se andasse male, pazienza si torna a casa, «se non te la senti non andiamo, Roby».

    In realtà quell’espressione che si è costruita sul volto del ragazzo non era nervosismo e nemmeno insicurezza, ma impazienza. Roberto non vedeva l’ora di iniziare davvero la sua carriera di giovane calciatore fuori da quella piccola città che, nonostante l’amore e il rispetto per il piccolo paese veneto, non poteva ancora fornirgli le ali di cui aveva bisogno per volare più in alto di tutti. Una volta tornato a casa ha salutato tutti senza dire niente a nessuno, ci penserà la mamma ad avvisare papà Fiorindo e i fratelli di questa notizia. Roberto va a prendersi il pallone e si sdraia sul letto. Si appoggia il pallone sulla fronte, chiude gli occhi e mentre sfrega un piede contro l’altro, quasi ad autoaccarezzarsi, inizia a sognare, a perdersi tra le curve della fantasia e a pensare di come potrà essere una carriera di calciatore. Di come potrà essere la sua carriera da calciatore.

    Il giorno del provino c’è tensione nell’aria, ma è proprio in queste situazioni che si percepisce chi ha il carisma e il carattere per gestire le emozioni e chi invece non potrà mai puntare a obiettivi abbastanza ambiziosi nella sua vita. Roberto torna a casa dopo il provino, è stanco ma non lascia trasparire alcunché. Sua mamma lo ferma, prendendolo per il braccio sinistro e aspettando che si giri su se stesso per guardarla negli occhi. Mamma Matilde è nervosa, vuole sapere com’è andato il tanto atteso provino al Vicenza: «Allora, com’è andata?». La verità è che sia papà Fiorindo che mamma Matilde pensavano che il calcio per Roberto fosse comunque solo un hobby e che questo provino, nonostante l’osservatore del Vicenza l’avesse messa giù come se fosse la più grande occasione per la carriera di Roberto di esprimere il suo talento, fosse soltanto un semplice provino. Niente di più, niente di meno. Un allenamento come un altro. Invece no. Papà Fiorindo ha sempre amato il ciclismo, la passione per le due ruote, per le salite, la velocità, fa parte del DNA di Fiorindo e del calcio non interessava molto, guardava ogni tanto la Nazionale, ma il suo trasporto per questo sport si fermava all’Inno di Mameli. In famiglia solo Roberto ed Eddy, fratellino minore di Roby, amano rincorrere il pallone.

    La mano di mamma Matilde stringe il braccio di Roby che si gira sui

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