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Calciatori di sinistra: Da Sócrates a Lucarelli: quando la politica entra in campo
Calciatori di sinistra: Da Sócrates a Lucarelli: quando la politica entra in campo
Calciatori di sinistra: Da Sócrates a Lucarelli: quando la politica entra in campo
E-book307 pagine4 ore

Calciatori di sinistra: Da Sócrates a Lucarelli: quando la politica entra in campo

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Info su questo ebook

Il calcio è una cosa seria, molto spesso più vicina alla politica di quanto si possa pensare. Questa raccolta di storie lo conferma: in ogni epoca e luogo ci sono stati calciatori che non hanno avuto paura di svelare il proprio impegno, anche fuori dal rettangolo di gioco. Da Agustin Gómez Pagola – inviato in Unione Sovietica durante la guerra civile spagnola e poi diventato agente del Kgb – al più famoso Sócrates, colonna della nazionale brasiliana degli anni Ottanta. La politica è entrata in campo attraverso gesti coraggiosi come quello di Carlos Humberto Caszely, bomber cileno che si rifiutò di stringere la mano a Pinochet, o romantici come la fuga dal calcio di “Javi” Poves, che alla notorietà ha preferito una vita in giro per il mondo; ma anche grazie a personalità insospettabili, come Vicente del Bosque, David Villa, Lilian Thuram e Vikash Dhorasoo, e tra gli italiani Cristiano Lucarelli, Damiano Tommasi, Riccardo Zampaglia, Paolo Sollier. Spaziando dal Sudamerica alla Russia, dalla Spagna all’Italia, Peinado offre una panoramica completa sui “calciatori di sinistra” attraverso il racconto delle storie e dei conflitti che hanno segnato le loro vite.
LinguaItaliano
Data di uscita5 mar 2021
ISBN9788867182848
Calciatori di sinistra: Da Sócrates a Lucarelli: quando la politica entra in campo

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    Anteprima del libro

    Calciatori di sinistra - Quique Peinado

    Quique Peinado

    Calciatori di sinistra

    Da Sócrates a Lucarelli: quando la politica entra in campo

    immagine 1

    ISBN: 9788867182848

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice

    E tutto cominciò così

    Il calciatore che perse contro Santiago Carrillo

    Nel maggio del ’68 sotto ai sanpietrini c’era anche un campo di calcio

    Il Gladiatore

    Calci a sinistra della sinistra

    Quei due braccialetti

    Quando l’eroe non compare nella foto

    Quando il calcio tacque

    L’esilio di un uomo perbene

    L’uomo che rifiutò di stringere la mano a Pinochet

    Il calcio (e il mondo) che sogniamo

    Prima di Sócrates: Alfonsiñho, Nando e Reinaldo

    L’ultima squadra proletaria

    ​Squatter, sciamano e portiere

    Amore, disamore e politica all’italiana

    L’ultimo marxista

    Ricerca e fuga

    La vita di Villa senza Villa

    Altre vite, altre storie

    Note

    Ringraziamenti

    A mia madre e a Paloma,

    in rigoroso ordine di apparizione

    E tutto cominciò così

    Enric Gonzáles non lo sa, e la città di New York ha vissuto momenti ben più memorabili, ma senza di loro il libro che state leggendo non sarebbe mai esistito. Non ricordo il nome dell’hotel, però era nella zona nord, sulla centesima strada o giù di lì, e io ero in fissa con Historias del Calcio ( Storie del Calcio, 2007), un libro che raccoglie alcuni articoli sul calcio italiano scritti da Gonzáles per «El País». Uno di questi parlava di Cristiano Lucarelli e della sua storia d’amore con il Livorno. I fatti erano così luminosi che per riuscire ad appesantirla bisognava essere molto rozzi (spero di non esserlo stato io nel capitolo che le dedico in questo libro), ma Enric Gonzáles la impreziosisce togliendosi di mezzo, che è ciò che fanno quelli bravi e che aspiro a fare io – sebbene non abbia resistito a mettere qua e là qualche cameo (nella maggior parte dei casi per contestualizzare e sempre senza manie di protagonismo). In quell’hotel di Manhattan passai il libro a Paloma, che su certe questioni è l’essere umano con la migliore capacità di giudizio che conosca nonostante si sia sposata – da sobria – con me, e le chiesi di leggere il pezzo. Se Calciatori di sinistra ha una faccia, non è quella del Sócrates della copertina né la mia: è quella che fece lei dopo averlo finito. «È splendido», mi disse. Vedendo la sua espressione seppi che là c’era un libro.

    Qualche tipo particolarmente sveglio, dato che qualcuno più preparato di te c’è sempre, avrà notato che qui non si trova traccia di Diego Maradona, Jorge Valdano o Éric Cantona. No, non appaiono. E ci sarà qualche italiano a cui mancherà Fabrizio Miccoli, i tifosi del Getafe reclameranno Fabio Celestini, gli argentini chiederanno la storia di Javier Zanetti e degli zapatisti, oppure quella del Loco Montaño, l’attaccante peronista, o gli sarebbe piaciuto che intervistassi l’intrigante Facundo Sava, il giocatore-psicologo passato anche dalla Spagna. Forse anche che parlassi un po’ più di César Luis Menotti. Chissà che questo libro non finisca nelle mani di uno scozzese che avrebbe voluto leggere di Pat Nevin, di Paddy Crerand o di David Speedie e della loro solidarietà operaia, può darsi che qualche donna senta la mancanza di più ragazze, come la abertzale Eba Ferreira, o magari a Mirand de Ebro qualcuno avrebbe desiderato che trovasse spazio in queste pagine anche Pablo Infante, che in un’intervista si è dichiarato di sinistra. A quest’ultimi dico che è colpa sua, che si è rifiutato di essere intervistato. E la stessa ragione vale per i tifosi del Betis, del Valencia o del Cadice che avrebbero voluto leggere di Joaquín Quino Sierra Vallejo.

    Vi mancherà anche Paul Breitner, il giocatore tedesco maoista che giocò nel Real Madrid, però il fatto che si sia tagliato la barba per soldi (lo pagarono centocinquantamila marchi dell’epoca per la campagna pubblicitaria di un dopobarba), e che ormai in là con gli anni abbia dichiarato di non essere mai stato realmente di sinistra e che tanto la sua famosa foto col poster di Mao quanto le sue dichiarazioni comuniste furono una posa e dei peccati di gioventù, mi hanno tolto la voglia di occuparmene.

    Questo libro è, credo, il primo al mondo scritto su questo preciso argomento, e sicuramente è il tentativo più esaustivo di parlare di calciatori di sinistra. Un dato fantastico, perché è un pezzettino di storia, e ciò mi rende orgoglioso. Però non si tratta di questo: è solamente un libro di racconti su giocatori di calcio professionisti che hanno preso una posizione politica pubblicamente. Mi piacerebbe che fosse piacevole da leggere, appassionante, e che alla fine pensaste che sia valsa la pena di pagare il prezzo che avete pagato per comprarlo. Ho scartato di proposito certe storie scrivendo le quali non mi sentivo a mio agio, o che non mi facevano divertire. Senza indugio. Per esempio, non c’è niente sulla Guerra Civile spagnola. È un’omissione consapevole.

    Ora, se avete vicino un rilevatore di frasi melense e piene di zucchero spegnetelo perché si romperà con le seguenti parole… è già spento? Allora vado: questo è, senza dubbio, il progetto più importante della mia vita. Quello che ha preteso più da me e del quale mi sento più orgoglioso. Nonostante ciò, l’obiettivo è solo intrattenervi. Il che è già abbastanza.

    Bene, potete riaccendere il rilevatore. E adesso leggete, è per questo che avete pagato.

    Il calciatore che perse contro Santiago Carrillo

    Se i comunisti credono che il calcio sia l’oppio dei popoli, allora il Partito comunista di Spagna negli anni sessanta era un campo di papaveri. Santiago Carrillo, tifoso dichiarato dello Sporting Gijón che durante l’esilio andava in incognito a vedere le partite delle squadre spagnole all’estero, comandava le fila clandestine iberiche della falce e martello, e in una delle più dure battaglie della storia dell’organizzazione si trovò davanti un calciatore. Non fu, evidentemente, un giocatore qualsiasi. Il protagonista di questa storia era nato a Errenteria, nei Paesi Baschi, ma era cresciuto in Urss, dove diventò ingegnere senza mai smettere di tirare calci a un pallone. Giocò con la gloriosa maglia rossa dell’Urss e ne difese l’emblema nell’arena politica fino alla morte. Agustín Gómez ebbe molti rivali, nei campi di calcio e sul terreno delle idee, ma nessuno duro come Carrillo.

    Agustín Gómez Pagola fu uno dei molti niños de Rusia che, in piena Guerra Civile, furono inviati in Unione Sovietica per sfuggire a un futuro che prospettava fame e morte. A quindici anni, nel 1937, lasciò Errenteria per andare a Mosca. Era già un giocatore di calcio. Di fatto, la prima cosa che fece al suo arrivo fu calcare un campo di gioco. «Si è giocata nello Stadio Dinamo, in campo ridotto, la prima partita internazionale giovanile tra la Stadio, squadra composta da pionieri di Mosca, e la squadra basca del sanatorio Obninsk. I capitani Agustín Gómez e Kolya Kustov hanno presentato le loro squadre. La partita è terminata 2 a 1 a favore della Stadio. Molte migliaia di bambini riempivano il campo», raccontata l’«Abc» dell’epoca. In pochi anni, Agustín si era trasformato in un comunista da manuale, amante dell’Unione Sovietica e, inoltre, calciatore di prestigio.

    La prima selezione calcistica agonistica dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche fu formata nel 1923. Da allora e fino ai Giochi Olimpici di Helsinki del 1952 disputò soltanto partite amichevoli. Come tutto lo sport sovietico, la squadra aveva sia una finalità agonistica sia una politica. Erano pionieri che dovevano tenere alto il nome dell’Urss e il suo esemplare sistema sportivo. Tra i cognomi Nikolayev, Bashashkin, Petrov e Gogoberidze ne risaltava uno: Agustín Gómez Pagola. A trent’anni era capitano della Torpedo Mosca, dopo essere passato per il Krasnaya Roza e il Krylia Sovetov Samara. Nella sua carriera aveva già affrontato i migliori: marcò anche Ladislao Kubala nel suo debutto internazionale con l’Ungheria. Però andare ai Giochi era un’altra cosa. E anche se la squadra si fermò presto (vinse 2-1 contro la Bulgaria, ma poi fu eliminata dalla Jugoslavia in uno spareggio seguito al 5-5 del primo incontro), il cognome Gómez rimarrà per sempre nella storia del calcio sovietico. Come in quella della Torpedo, il club dell’industria automobilistica, che riuscì a fare breccia nel dominio della Dinamo, del Cska e dello Spartak (dove giocava un altro niño de Rusia, il bilbaino Ruperto Sagasti) vincendo la Coppa Sovietica nel 1949 e nel 1952.

    Dopo il cattivo risultato dei Giochi Olimpici, Gómez, che nel torneo aveva fatto la riserva, disse che sulla squadra aveva pesato la tensione di avere addosso gli occhi delle massime cariche nazionali. Certo, non tutti potevano sostenere quella pressione come lui. Certo, gli altri calciatori non erano allo stesso tempo militanti del Pce né venivano inviati con una certa frequenza in missione in tutta Europa per organizzare i comunisti spagnoli, sempre sotto l’ombrello di papà Pcus (il Partito comunista dell’Unione Sovietica). Certo, non c’erano molti calciatori, né mai ce ne sarebbero stati, con la storia politica di Agustìn Gómez.

    Nel 1953 muore Stalin e nel 1956 si concludono i primi accordi perché alcuni di quei bambini, ormai adulti, ritornino in Spagna. In questo contingente c’è Agustín Gómez, in una manovra che il Regime di Franco vende come il salvataggio di centinaia di spagnoli dal pericolo sovietico. A Gómez, certo, non interessava che lo salvassero da niente. Finì all’Atletico Madrid, anche se giocò poco o nulla. A 34 anni il calcio di altissimo livello per lui era alle spalle e, inoltre, la sua missione era un’altra. Adesso rientrava nel Paese che aveva dovuto abbandonare da adolescente per aiutare i comunisti nella clandestinità. Al suo ingresso in Spagna fu interrogato, come tutti quelli che tornavano, dalle autorità franchiste. Il 12 dicembre, la Divisione di investigazione sociale, oltre che catalogarlo come «uno di quelli che lavorano», scriveva in un’informativa: «Durante il suo soggiorno in Russia è stato giocatore di calcio, facente parte della squadra chiamata Torpedo Mosca. Apparentemente è in attesa di autorizzazione dalla Fifa per il suo passaggio all’Atletico Madrid, squadra con la quale si allena, e il giorno 8 ha giocato contro il club di calcio tedesco del Fortuna Dusseldorf».

    Gómez, agente del Kgb e massimo responsabile del Partito comunista dei Paesi Baschi, già ritirato dal calcio professionistico (che allora era poco più che una copertura), si dedicò ad allenare squadre giovanili a Tolosa, in Guipúzcoa, anche se la sua principale occupazione era quella di attivista al servizio di Mosca. Alla fine dovette fuggire dalla Spagna e visse in vari Paesi latinoamericani, tra cui il Venezuela, con diverse identità. Non ha mai smesso di essere un dirigente del Pce.

    Il suo grande scontro con Santiago Carrillo si realizza nel 1968. L’Urss decide di reprimere la Primavera di Praga, il timido tentativo del presidente cecoslovacco Alexander Dubcek di uscire dall’ortodossia sovietica e proporre un’apertura con quello che chiamava «socialismo dal volto umano», e invade il Paese. Centinaia di migliaia di soldati del Patto di Varsavia (Unione Sovietica, Bulgaria, Ddr, Ungheria e Polonia) e 2500 carrarmati invadono il Paese per frenare il tentativo di riforma. Il Pce, a rimorchio di una corrente guidata da Carrillo, decide di condannare l’invasione. Il settore più ortodosso e vicino a Mosca si oppone. Tra loro, Agustín Gómez, il più fedele ai sovietici.

    «Agustín era venuto a lavorare con noi sulle questioni dei Paesi Baschi, e ricordo che allora rimproverò ai sovietici di tenere, alle volte, delle posizioni da grande potenza. La sua approvazione (alla condanna all’invasione) non fu un ostacolo al fatto che più tardi, dopo l’invasione, partecipasse a un progetto di scissione pro-sovietica insieme a Eduardo García Lopez (segretario organizzativo del Pce in quel momento)», dichiarò Santiago Carrillo. Pare molto meno certo che Gómez approvasse la condanna all’invasione. Semmai il contrario. Semplicemente, come risulta dagli atti, disse che non avrebbe «fatto niente che pregiudichi l’unità del partito». Però ciò che non si poté mai mettere in dubbio fu la sua fedeltà agli ordini che arrivavano da Mosca di fronte alla sfida di Carrillo, che già cominciava a pendere verso quello che si sarebbe poi chiamato Eurocomunismo, e che si allontanava dal comunismo ortodosso sovietico.

    In quei momenti le tensioni erano già insostenibili e Agustín Gómez ed Eduardo García López, l’altro militante della sua stessa tendenza, erano stati espulsi dal Pce, sebbene Carrillo desse a intendere con la frase del precedente paragrafo che furono loro ad andarsene per fondare il loro partito. Un anno dopo sarebbe stato sospeso dalla militanza anche Enrique Líster, eroe militare della Guerra Civile. Gómez non accettò mai la sua espulsione, e criticò duramente Carrillo per quello che, a suo giudizio, era l’isolamento del Pce dal resto dei partiti comunisti nel mondo, così come la sua posizione accomodante con la Chiesa. Molti militanti abbandonarono il Pce con il suo eroe calciatore, e fondarono un partito con un nome che spaventerebbe il marketing politico attuale: Pce (VIII e IX Congresso). Più che una scissione, reclamava di essere il vero Partito comunista di Spagna sotto l’ombrello di Mosca. Di fatto, la sua prima decisione fu espellere Santiago Carrillo per «alto tradimento della causa comunista».

    Fu una manciata significativa di militanti quella che seguì Gómez, identificata con lo zoccolo duro più ortodosso del comunismo. «Compagno Agustín Gómez, la tua causa trionferà!», si leggeva sui cartelli del nuovo partito. Finanziato da Mosca, il Pce (VIII e IX Congresso) cominciò anche a pubblicare un’edizione parallela del periodico «Mundo Obrero», con la testata rossa anziché nera. Nel 1980 scompare formalmente, dopo essersi fuso col Partito comunista dei lavoratori, che l’anno precedente aveva ottenuto quasi 48mila voti alle elezioni generali. Da lì sarebbe sorto un partito che è vivo ancora oggi: il Partito comunista dei Popoli di Spagna, garante di quell’ortodossia comunista che difese sempre Agustín Gómez, e che alle elezioni generali del 2011 ha ottenuto 26.436 voti.

    La salute di Gómez, il valoroso calciatore della Torpedo Mosca, l’agente del Kgb, l’uomo forte del Pcus in Spagna, a poco a poco si deteriorò. Ritornò a Mosca, la terra che amò di più, e morì quando mancavano tre giorni al suo cinquantatreesimo compleanno e quattro alla morte di Francisco Franco. Un anno dopo, Santiago Carrillo decideva, senza il permesso di Mosca, di rientrare in Spagna dopo essersi accordato con Adolfo Suárez, il grande traghettatore della transizione verso la democrazia. Quando tornò aveva una casa già pronta a Madrid. L’incaricata perché tutto fosse perfetto fu Carmen Sánchez Biedma, figlia di un repubblicano assassinato nel 1948… e moglie di Agustín Gómez.

    Nel cimitero Donskoi di Mosca, tra le tombe in cirillico, ne risalta una con lettere dell’alfabeto latino. È nera e reca la foto di un uomo non molto vecchio: è Agustín Gómez Pagola, e sotto la sua effigie, di solito, ci sono fiori rossi, e un’iscrizione in spagnolo, ormai quasi cancellata dal passaggio del tempo: «Dirigente comunista». Lo fu fino all’ultimo giorno. Il calcio fu solo un mezzo per fare la rivoluzione.

    Nel maggio del ’68 sotto ai sanpietrini c’era anche un campo di calcio

    Nel 1961 l’attaccante Thadee Cirkowski, stella del Racing Club di Parigi, una celebrità del calcio francese, guadagnava poco più di quattrocento franchi al mese, il 20% in meno dello Smic, il salario minimo orario vigente nel paese. Raoul Scholhammer del Metz, altro giocatore transalpino abbastanza conosciuto, centosettanta franchi. Ovvero la metà del minimo permesso per qualsiasi altro lavoratore. Lucien Laurent, presidente del Sedan Ardennes (nonché ex calciatore e autore del primo gol della selezione francese in un Mondiale, nel 1930), faceva alzare i suoi giocatori alle sei del mattino per dimostrargli che erano dei lavoratori alla stregua di quelli di una qualsiasi fabbrica (era un dirigente della Peugeot, dove aveva lavorato tutta la vita predicando con l’esempio, e accettò di partecipare al Mondiale in Uruguay solo a patto che nella sua impresa gli riducessero la paga al salario minimo dell’epoca). I calciatori firmavano con i club vincoli che arrivavano fino al compimento dei trentacinque anni e non avevano alcun diritto di decidere sul proprio futuro. Se negli anni sessanta la condizione lavorativa dei calciatori europei era precaria, in Francia obbligava quasi a una ribellione.

    Almeno così la pensava un giovane colto che era arrivato dal Camerun negli anni cinquanta per studiare, Eugène N’Jo Léa. Un tipo che, racconta la leggenda, segnò undici gol nella prima partita disputata sul suolo francese, e che fu capace di lasciare una delle grandi di Francia, il Saint-Étienne, per andare prima a Lione e poi a Parigi, a giocare con l’Olympique e col Racing, in cerca delle migliori università dove poter studiare Diritto. Paradossalmente, l’appoggio maggiore lo ricevette da Just Fontaine, l’uomo dei tredici gol al Mondiale del 1958 (continua a essere il record più antico della storia del calcio), nato in Marocco e di madre spagnola, il giocatore che aveva meno bisogno di ribellarsi. Lui sì che era un privilegiato. Allo Stade Reims, la grande squadra francese che cercò di fare ombra al Real Madrid, aveva un ottimo stipendio, e poteva già considerarsi sistemato per tutta la vita. Però Fontaine non poteva tollerare la situazione in cui versavano i suoi compagni. Nel novembre del 1961 i due fondarono, insieme a un altro gruppo di calciatori di alto livello, la Union Nationale des Footballeurs Professionels (Unfp), il primo sindacato nazionale di calciatori professionisti.

    Trovarono un grande appoggio mediatico alle loro rivendicazioni in una rivista unica nella storia del calcio: «Miroir du Football». Fondata nel 1960, era pubblicata da Éditions J, la casa editrice del Partito comunista francese, e fu il supporto cartaceo a un calcio ideologizzato e trattato ai più alti livelli giornalistici. Alcuni dei redattori della rivista erano stati giocatori semiprofessionisti, e fecero da megafono alle rivendicazioni dei calciatori. Nell’ottobre del 1962 appoggiarono il tentativo di sciopero – alla fine abortito – della selezione francese in una partita della fase preliminare degli Europei del 1964 contro l’Inghilterra (a quel tempo la competizione si sviluppava in maniera differente da oggi, con due anni di eliminatorie andata e ritorno; solo la fase finale, con le semifinali e le finali, si giocava in un’unica sede prescelta, in questo caso la Spagna), come un’altra azione, questa volta la minaccia di fermare il campionato per una giornata, che alla fine portò a leggere migliorie salariali per i giocatori.

    Con «Miroir du Football» dietro, i giocatori francesi si sentivano incoraggiati a cercare di fare sempre nuovi passi in avanti. Quello definitivo fu merito di colui che in quel momento era l’uomo più popolare della storia del calcio transalpino: Raymond Kopaszewski, il figlio di immigrati polacchi che si era trasformato in leggenda con il nome di Kopa. L’attaccante, che giocò nel grande Real Madrid dal 1956 al 1959 e si aggiudicò il Pallone d’Oro del 1958, era ritornato allo Stade Reims dopo la sua avventura blanca (due campionati spagnoli vinti in tre stagioni). Il 4 luglio del 1963 pubblicò l’articolo che avrebbe fatto esplodere per sempre il calcio francese. Il titolo era sufficientemente chiaro: I calciatori sono schiavi. Nel pezzo, uscito sul settimanale «France Dimanche», Kopa scriveva che «oggi, in pieno ventesimo secolo, il calciatore professionista è l’unico essere umano che può essere venduto e comprato senza tenere conto della sua opinione».

    Incontrò, logicamente, l’opposizione dei club, ma anche quella dei tifosi e, soprattutto, della stampa. «L’Équipe » scrisse: «I giocatori guadagnano abbastanza denaro grazie alla generosità dei presidenti. Sono privilegiati, e sbagliano a lamentarsi dei piccoli inconvenienti della loro professione». Sempre contro la propria categoria e a favore dei calciatori, ecco invece «Miroir du Football»: «Le sue parole sono giuste, perché definiscono esattamente la condizione sociale del giocatore di calcio oggi», scrisse François Thebaud, il suo direttore. Kopa fu condannato a sei mesi di sospensione, qualcosa di mai visto prima. Quando finì di scontare la sanzione, il commissario tecnico Georges Verriest decise di non convocare l’attaccante per il successivo incontro della nazionale, nonostante la Francia avesse vinto solo una delle dodici partite precedenti, e disse, senza nascondersi, che non lo aveva chiamato a causa della sua insubordinazione. Quando non gli rimase altra soluzione che convocarlo di nuovo, dato che la nazionale stava sprofondando, Kopa pretese come condizione che il tecnico ritrattasse pubblicamente ciò che aveva detto. Dato che Verriest non volle farlo, l’uomo che nel 2003 sarebbe stato designato come il migliore calciatore francese della seconda metà del ventesimo secolo rinunciò a tornare in nazionale. Fu di nuovo sanzionato, ma il suo carattere da contestatore non si placò: la dignità veniva prima di tutto.

    Ma potrebbe, questa lezione di insubordinazione, essere il legame tra il movimento studentesco del maggio del ’68 e il pallone? Sebbene il malcontento dei giovani francesi dipendesse da molte ragioni, la goccia che fece traboccare il vaso fu una partita di calcio. Intorno alla metà di marzo, sei studenti dell’Università di Nanterre (a Parigi) membri del Comité Nacional de Vietnam, che si opponeva alla guerra, erano stati arrestati. Il fatto provocò un’ondata di malessere tra gli universitari, alla quale si mescolarono rivendicazioni meno idealiste. Una di queste era la protesta perché la divisione per sesso delle residenze del campus impediva ai ragazzi di accedere all’unico televisore, che si trovava nella sezione femminile, e quindi di poter vedere le partite. Era il 22 marzo e a cominciare da allora i fatti presero una velocità vertiginosa. Studenti e lavoratori si unirono nelle loro rivendicazioni, molto meno ludiche e più dure di quello che fa pensare lo slogan «Abbasso la noia!» che è rimasto legato a quei giorni, e le occupazioni delle fabbriche e delle università si unirono ai duri scontri per le strade. I manifestanti, che convocarono uno sciopero generale molto riuscito, staccavano i sanpietrini dal suolo per lanciarli contro le forze dell’ordine. Gli esegeti del movimento raccontarono molto poeticamente che sotto i sanpietrini c’era la spiaggia, sebbene le pietre staccate servissero per attaccare la polizia. Un gruppo di calciatori credette che sotto l’asfalto ci fosse anche l’erba, il terreno di gioco di un calcio migliore.

    Il 22 maggio 1968 un gruppo di calciatori, capeggiati dai redattori di «Miroir du Football» (che essendo stati giocatori semi-professionisti erano iscritti alla Federazione), occuparono la sede della Federcalcio francese, al numero 60b dell’Avenue d’Iéna, a Parigi, nel pieno della zona istituzionale. Erano per lo più giocatori di club dilettantistici di Parigi, ma non mancavano anche dei professionisti della Ligue 1, come André Merelle e Michel Oriot, del Red Star, squadra del comune di Saint-Ouen, a nord della capitale. Trattennero i dipendenti della Federazione e si organizzarono sotto il nome di Comitato d’Azione dei Calciatori. Presto stilarono un manifesto di sei punti con richieste lavorative concrete e appesero due striscioni alla facciata: «Il calcio per i calciatori» e «La Federazione proprietà dei seicentomila calciatori».

    Tra le loro rivendicazioni, la principale era la richiesta dell’eliminazione della cosiddetta Licenza B, che penalizzava i giocatori che volessero cambiare luogo di lavoro senza il consenso dei loro capi. La norma stabiliva che i calciatori non potevano giocare con la prima squadra del club dove decidevano di trasferirsi e che avevano il permesso di giocare solo nelle squadre satellite, da lì il nome di Licenza B. De facto si trattava di un biglietto per la schiavitù. Il resto erano rivendicazioni più o meno generiche o critiche ai dirigenti del calcio francese, come la richiesta di un’assicurazione sanitaria per coprire gli infortuni di gioco che mettevano fine alla carriera di certi giocatori (qualcosa relativamente comune all’epoca, per esempio Just Fontaine si ritirò per un infortunio ricorrente), lo scarso investimento dei club nel settore giovanile e l’autoritarismo dei presidenti. «I gerarchi della Federazione hanno espropriato il calcio per servirsene nel proprio semplice interesse egoista», diceva il manifesto, che affermava anche che i dirigenti lavoravano «contro il calcio», cedendone il controllo ai politici «e attaccando la sua essenza popolare».

    E poi, oltre alla battaglia puramente sindacale, i reclusi nella sede della Federazione si facevano carico di una rivendicazione stilistica. «Miroir du Footbal» si era distinto come sostenitore del gioco sudamericano, più creativo, contro la fisica e disciplinata

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