Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Dallo scudetto ad Auschwitz: La storia di Arpad Weisz, allenatore ebreo
Dallo scudetto ad Auschwitz: La storia di Arpad Weisz, allenatore ebreo
Dallo scudetto ad Auschwitz: La storia di Arpad Weisz, allenatore ebreo
E-book196 pagine2 ore

Dallo scudetto ad Auschwitz: La storia di Arpad Weisz, allenatore ebreo

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

È un libro che commuove e indigna, che va letto tutto d’un fiato tanto è affascinante il personaggio di Weisz. Non lo conosceva bene nemmeno Enzo Biagi, bolognese e tifoso del Bologna. «Mi sembra si chiamasse Weisz, era molto bravo ma anche ebreo e chi sa come è finito», ha scritto in “Novant’anni di emozioni”. Arpad Weistz è finito ad Auschwitz, è morto la mattina del 31 gennaio ’44. Il 5 ottobre del ’42 erano entrati nella camera a gas sua moglie Elena e i suoi figli Roberto e Clara, 12 e 8 anni. A Matteo Marani ci sono voluti tre anni di ricerca, scrupolosa e insieme ossessiva, perché gli pareva di inseguire un fantasma. E ora, giunto alla terza edizione, questo libro meraviglioso si arricchisce di un apparato fotografico inedito.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita3 feb 2020
ISBN9788836160150
Dallo scudetto ad Auschwitz: La storia di Arpad Weisz, allenatore ebreo

Correlato a Dallo scudetto ad Auschwitz

Ebook correlati

Biografie sportive per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Dallo scudetto ad Auschwitz

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Dallo scudetto ad Auschwitz - Matteo Marani

    «lo squadrone che tremare il mondo fa»

    È fermo, in piedi vicino a una colonna.

    Ha il solito cappello calato sulla fronte e una giacca pesante, ché inizia a fare caldo in quest’aprile assolato del 1938. Visto da lontano, Arpad Weisz non è alto e non è basso. Non è bello e non è brutto. È. È un uomo normale, nelle forme fisiche quanto nel volto. Eppure basta osservarlo qualche istante per non staccargli lo sguardo di dosso. Ha qualcosa di misterioso e insieme di magnetico, una faccia simpatica e intelligente, che si scopre lentamente. Il sorriso è vago e indefinito, ma possiede anch’esso una strana magia. La stempiatura, benché evidente, non lo rende più vecchio dei suoi quarantadue anni.

    In una domenica pomeriggio che per il pubblico è stata di divertimento, lui ha finito solo da poco di lavorare. Weisz è un allenatore, un allenatore di calcio da una dozzina di anni. In pratica, ha cominciato quando veniva calata la prima pietra di questo stadio fuori dal quale si trova adesso ad attendere i giocatori, costretti dalla rottura del riscaldamento a usare le docce della piscina attigua al campo, tra altri nuotatori scandalizzati.

    Lui è lì ad aspettarli.

    È il vanto di Bologna, questo impianto, la via al progresso voluta dal gerarca cittadino, Leandro Arpinati, e tirata su con otto milioni di lire, metà dei quali ottenuti dal Partito nazionale fascista. Nel pomeriggio che declina verso il tramonto, il Littoriale, come l’ha voluto chiamare Mussolini, è un circo di bambini in movimento, tutti intenti a correre sugli spalti e attorno alle uscite. Il direttore dell’impianto se n’è lamentato con il podestà: portano via ciò che cade dalle tasche dei tifosi in tribuna. Ma è un’abitudine acquisita, familiare.

    Tocca a loro, più reattivi dei quattro vigili urbani impegnati a controllarli, applaudire per ultimi l’allenatore dello squadrone che tremare il mondo fa, secondo uno slogan in voga all’epoca. Il pareggio per 2-2 con il Milan, con reti in rimonta dei bolognesi Reguzzoni e Sansone, è infatti considerato più prossimo alla vittoria che non alla sconfitta, visto l’andamento della gara. Dunque si festeggia. Lo si fa nei tram che riportano a casa i tifosi e nelle chiacchiere di chi ha scelto di rientrare a piedi verso il centro di Bologna.

    Weisz si cala ancora più bassa la tesa del cappello, per sfuggire alla timidezza che lo esclude da ogni foto o rito pubblico, e si lascia alle spalle lo stadio con i suoi bambini. Per tornare a casa non ha che da compiere un breve tratto a piedi, meno di un chilometro. È quello il momento migliore per l’incontro ravvicinato con se stesso.

    Imbocca via Saragozza, passando sotto l’arco del Meloncello da cui i bolognesi salgono al santuario di San Luca da due secoli. Poche case a punteggiare uno scenario per lo più agricolo, di terra e polvere. Quindi percorre via delle Camicie nere e svolta a destra per via del Legionario, sfiorando appena via dello Squadrista.

    Pochi metri ed è arrivato. L’edificio dove abita è di due piani. È il più vicino alla semicampagna nella quale torreggia lo stadio, con l’altissima colonna di Maratona. È stata sollevata al cielo come simbolo di potenza, un simulacro fallico in mattoni rossi. Nella parte interna, non visibile da fuori, è alloggiata la statua equestre di Mussolini.

    Weisz occupa il primo piano di questo palazzo di via Valeriani 39, tra due giardini che ne delimitano i confini e un affaccio privilegiato sulle propaggini che si allungano verso la periferia. Poche linee del tram si spingono sin qua: c’è però il famoso 11, famoso perché capita sovente di trovare i giocatori del Bologna seduti accanto ai normali viaggiatori. Altri tempi, altro calcio.

    È comunque una posizione strategica: mille passi e si entra al Littoriale, cinquecento e si accede al terreno da calcio della Virtus, dove la squadra si allena in alternativa allo stadio. Accanto ci sono i campi da tennis, quelli sui quali Arpad si diletta con la racchetta nei giorni di libertà dal lavoro. Praticamente il centro nevralgico dell’attività sportiva.

    Una scelta azzeccata professionalmente e al contempo utile alla famiglia, alla moglie e ai due figli. Attorno c’è parecchio verde e la collina pare di afferrarla con le mani nei giorni tersi, ideale per le passeggiate nel tempo libero. Nel raggio di un chilometro c’è pure il parco dedicato ai caduti della rivoluzione fascista, dove i bambini giocano e i piccoli frequentano l’asilo più moderno della città.

    L’unica scomodità è la sede del club. Il gioco del pallone va crescendo dal punto di vista della propaganda ed è un richiamo troppo forte per lasciarlo campare ai margini. Specie dopo la vittoria nei Mondiali del 1934. Come ogni altra attività ludica è confluito nella Casa del Fascio, in pieno centro. È qui, tra la biblioteca, la sala delle udienze e un negozio da barbiere dove Weisz si fa tagliare i pochi capelli rimasti, che ha sede la Bologna sportiva, lo scatolone dentro cui è finito l’intero sport cittadino.

    Gli uffici rossoblu, in cui l’allenatore si mostra meticoloso stacanovista, sono al secondo piano di via Manzoni, nello stabile numero 4, che oggi ospita il Museo medievale. Si trova a pochi metri dal Diana, il più famoso ristorante della città in cui i giocatori corrono a mangiare contando sullo sconto del proprietario e sul profumo sensuale dei tortellini. Ed è anche a ridosso, risalendo via Indipendenza, del caffè del Corso, il ritrovo dei fascisti peggiori, dove un giorno del 1920 si era presentato, in monocolo, Hermann Felsner, l’allenatore poi vincitore di due scudetti con il Bologna.

    Pensate: lo avevano ingaggiato con un annuncio pubblicato su un giornale di Vienna, allora terra all’avanguardia grazie al Wunderteam, la squadra dei sogni, e lui aveva fatto capolino da sé in quel bar perché si erano dimenticati di andare a prenderlo in stazione. Senza saperlo, gli toccherà tornare a Bologna.

    Il centro è scomodo per chi viene da fuori come Weisz e i suoi giocatori, a eccezione di quel terzino sinistro, Dino Fiorini, che sfreccia in Lancia, antesignano dei calciatori moderni, persino testimonial di una dozzinale acqua di lavanda: il Bourjois. Sarà ucciso da un proiettile partigiano sette anni più tardi.

    Weisz detesta la mondanità, non si fa rapire dalle luci dei cinematografi o dalle locandine del teatro Duse e di quello del Corso, abbattuto nel ’45 da una bomba americana. È schivo, casalingo, lo spirito di autarchia non deve neppure dispiacergli. Forse gli pesano le trasferte in centro. Ma a parte questo contrattempo, per altro mitigato dal buon rapporto con i dirigenti, è difficile pretendere qualcosa di più.

    In quel tragitto dallo stadio a via Valeriani, nel montare della penombra, Weisz sta pensando proprio a questo. Ieri, sabato 16 aprile, ha compiuto quarantadue anni, e il bilancio della sua vita è quello di un uomo felice. Ha una famiglia unita, con due bambini belli, Roberto e Clara, e una moglie, Elena, altrettanto bella ed elegante, come la ricorda a settant’anni di distanza Olga Sansone, vedova di uno dei suoi migliori giocatori. Un fascino notevole, se è rimasto impresso nella memoria di chi la vide in un’unica circostanza allo stadio.

    Weisz ha avuto una vita ricca: sotto l’aspetto professionale ha ottenuto quanto si può chiedere solamente ai sogni. È l’allenatore più giovane ad aver vinto uno scudetto – primato ancora oggi imbattuto. Di scudetti ne ha vinti tre, tra Inter e Bologna, e anche il Trofeo dell’Esposizione a Parigi, una sorta di Champions League dell’epoca. Ci è riuscito battendo in modo netto i maestri inglesi del Chelsea. Un giornale francese gli aveva fatto il complimento più bello, in quei giorni: «Il Bologna di Weisz ha vinto come una squadra di professionisti inglesi, ma all’italiana».

    In questa stagione, quando manca una sola giornata al termine, è a due punti dalla vetta. Anche se non avrà più tempo di aggiudicarsi il titolo, è chiaramente felice, appagato.

    Mentre volge lo sguardo verso via Saragozza, poco lontano dalle scuole Bombicci in cui il figlio Roberto sta per concludere la seconda elementare ed è costretto, suo malgrado, alle adunate del sabato fascista con la divisa d’orbace che punge la pelle, Weisz se lo sta dicendo tra sé e sé. Nessun tecnico, o trainer, come si dice in giro, ha vinto lo scudetto con due squadre diverse. E pochissimi altri riusciranno a emularlo o a superarlo nei settant’anni seguenti.

    Ha dominato con la forza delle idee, introducendo novità decisive nel calcio italiano, da ogni punto di vista. Preparazione, professionalità, rigore scientifico. Ritagliandosi un posto di prestigio nella nascente storia del pallone.

    Ha pure interrotto i cinque anni di egemonia della Juve, ma è troppo timido per prendersene i meriti. Weisz ha pudore, misura, preferisce i piccoli fatti quotidiani alla grandezza. Di questo è fatto l’uomo. Quando ha da chiarire qualcosa con un giocatore, lo invita a cena a casa propria e lì parlano, si confrontano. Come reciterebbe il linguaggio odierno, fanno spogliatoio. È talmente pignolo che dopo ogni allenamento o partita aspetta i suoi giocatori all’uscita, per valutarne lo stato d’animo un’ultima volta.

    Una dedizione unica allo studio. E una serie incredibile di risultati: è arrivato primo tre volte, prodezza condivisa unicamente con lo juventino Carcano, ma Weisz lo ha fatto con squadre quasi sempre inferiori alla concorrenza.

    Ma com’è Arpad nella vita?

    Veste elegante, ha modi garbati, letture importanti alle spalle che gli garantiscono un italiano ricco e forbito, che pure non è la sua lingua madre. Ha scritto un manuale che fa testo nel mondo del calcio, e non solo da noi. Il corpo assomiglia al suo calcio: asciutto e funzionale. Forse nasconde una punta di vanità.

    Prima di rientrare a casa per mangiare la torta già pronta in tavola, Weisz si concede un ultimo pensiero. Ha gli occhi puntati sui campanelli del palazzo: la famiglia Cassoli, dalla quale è in affitto, divide il piano terra con i Prati-Bettucchi, al secondo stanno i Franceschini e i Tavoni. Nel piccolo universo di via Valeriani ci si conosce tutti. Nell’edificio accanto ci sono i Vasigli e i Rovinazzi, gli amici più cari. Ma lui, Arpad Weisz, oggi ha la testa altrove. È stranamente distratto.

    Il suo scrutare assomiglia più a un respiro che a una vera e propria meditazione. È un’esitazione, un attraversare spaventato la consistenza dell’aria. Nella freschezza della sera scorre qualcosa di pungente e di sinistro, qualcosa non colto finora. È un gelo che arriva da lontano. Non è l’estate che si annuncia, è piuttosto un nuovo inverno dopo l’inverno che già pareva alle spalle. È. È il momento più bello della sua vita e dista appena nove mesi dalla fuga dall’Italia, meno di quattro anni dall’inferno di Auschwitz, meno di sei dalla fine di tutto.

    1938. cinema, calcio, canzoni… e guerra

    A Bologna, i Weisz sembrano abitarci da sempre. Nelle ore in cui Arpad è impegnato negli allenamenti al Littoriale, Elena fa la spesa nei negozi distribuiti lungo i portici di via Saragozza. Clara gioca ogni pomeriggio nel cortile di via Valeriani con le coetanee. Suo fratello Roberto, nell’estate del 1938, aspetta di frequentare la terza elementare.

    Non la comincerà mai.

    Il 12 luglio è il suo compleanno ed è un giorno di festa in casa. Roberto è un bambino alto, curato, dotato di un portamento elegante che traspare dall’unica foto arrivata sino a noi. Lo si vede in compagnia della sorella e di Giovanni Savigni, l’amico del cuore. Lui è al centro, felice, con le braccia dietro la schiena. Ha un’aria composta. Lo stile gli viene forse dall’esempio materno, forse da una sviluppata intelligenza. Si prende cura della sorella minore durante i giochi nel tempo libero, con lei è scrupoloso e responsabile: è più maturo dei suoi otto anni.

    A scuola, in mezzo a una cinquantina di compagni, è sempre risultato il migliore della classe. Lo attestano le pagelle del 1936 e del 1937, oggi rintracciabili nelle cantine di una scuola cittadina bolognese assieme a quelle degli altri studenti dell’epoca. Roberto Weisz risulta lodevole in aritmetica e contabilità, ortografia, nozioni varie, religione (chiaramente cattolica, per via dei Patti lateranensi, ancora freschi), educazione fisica, condotta. Un en plein.

    Sia la prima che la seconda le ha concluse con il massimo riconoscimento, unico del numeroso gruppo, e un approvato ben impresso sulla pagella. Il dettato del 26 giugno 1938, prova finale della seconda, non presenta nemmeno un errore: «Le pecorine sono state condotte a pascolare nella vigna. Dall’ovile è stato lasciato un agnellino che bela in maniera pietosa. Quello sciocco batte il muso contro l’uscio di legno. Vorrebbe uscire e intanto il legno si scheggia e gli ferisce il nasino che sanguina».

    Vigneti, pascoli, agnellini. Weisz, che sull’elenco di classe è italianizzato in Veisz, non viene risparmiato dalla dottrina fascista, che sogna un’Italia rurale e domestica, un’Italia orgogliosamente contadina. Lo si deduce persino da un banale dettato scolastico. È la risposta alle sanzioni, all’autarchia; è la terza via che si materializza nei rituali fascisti, nella famiglia, nella fede cattolica come modello istitutivo.

    La visione di una vita bucolica è divenuta il credo ossessivo del capo del fascismo, nato nella campagna romagnola, che alterna la trebbiatura

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1