Credo che c’è qualcosa, sicuramente, di strano: Marco Pantani, Madonna di Campiglio, 5 giugno 1999
Di Dario Corsi
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Da quei fatti, che ebbero conseguenze drammatiche sulla vita di un uomo e di uno sportivo amato da tutti, appassionati e non, che ne seguivano le imprese con un coinvolgimento smisurato, sono passati vent’anni. Si è detto e scritto tanto, ma nessuno prima di Dario Corsi ha dimostrato, in modo scientifico e inconfutabile, che le modalità del protocollo antidoping seguite per l’analisi del sangue di Pantani non erano corrette e i risultati non veritieri. L’analisi che ne consegue è evidente: il 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio è stata commessa una grave ingiustizia.
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Anteprima del libro
Credo che c’è qualcosa, sicuramente, di strano - Dario Corsi
Dario Corsi
Credo che c’è qualcosa, sicuramente, di strano
EDIFICARE
UNIVERSI
© 2020 Europa Edizioni s.r.l. | Roma
www.europaedizioni.it
I edizione elettronica febbraio 2020
ISBN 978-88-5508-862-6
Distributore per le librerie Messaggerie Libri
PREFAZIONE
Ho deciso di scrivere un libro per narrare un episodio grave che ha causato conseguenze drammatiche nella vita di un uomo, atleta di livello mondiale.
Nel 1999 Marco Pantani venne ingiustamente escluso dall’82mo Giro d’Italia e privato di una vittoria ormai certa.
Un episodio terribile, che ha tragicamente segnato la vita di un campione amato da tutti gli sportivi.
Dopo tanto tempo, nelle pagine di questo libro ho voluto ricostruire cronologicamente quanto accaduto in quegli anni, aggiungendo spiegazioni scientifiche inconfutabili, per fare chiarezza su un episodio di clamorosa ingiustizia, che ha distrutto un uomo, prima ancora che uno sportivo, capace di far sognare gli italiani con le sue superbe imprese.
Mi rendo conto, come biologo, che l’argomento trattato non possa essere di facile comprensione per i non addetti ai lavori, ma la mia intenzione è raccontare in modo semplice cosa sia successo e come i fatti avvenuti il 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio, durante il Giro d’Italia, vadano riletti in una chiave diversa, alla luce delle conoscenze scientifiche.
Oltre a rivelare il profondo torto subito quel giorno da Marco Pantani, voglio e devo raccontare la mia passione per questo sport, che mi ha portato ad incrociare diverse volte nella vita la strada di Marco Pantani.
Mentre Pantani saliva ai vertici della notorietà nel mondo dello sport, io svolgevo attività di ricerca presso il laboratorio di Biochimica dell’Università di Urbino. I miei studi e la ricerca scientifica hanno corso paralleli e a volte si sono incrociati con il destino di questo campione.
è una storia vera.
Per raccontarla devo necessariamente parlare in prima persona, descrivendo e spiegando nel dettaglio e cronologicamente il susseguirsi degli eventi accaduti.
Desidero ringraziare il professor Francesco Galli e il dottor Francesco Morena, esperti biologi dell’Università degli Studi di Perugia, che hanno redatto due perizie scientifiche riguardanti i miei studi sugli esami ematologici cui Marco Pantani venne sottoposto.
È anche grazie alle loro valutazioni che prende forma l’obiettivo di raccontare in questo libro la verità su ciò che accadde quel giugno 1999 e di evidenziare gli errori e gli sbagli commessi nel protocollo di analisi Io non rischio la salute
ideato dall’Unione Ciclistica Internazionale (U.C.I.) e dal Comitato Olimpionico Nazionale Italiano (C.O.N.I.).
Per motivare senza ombra di dubbio la fondatezza di ciò che scrivo, devo prima di tutto spiegare chi sono e di cosa mi occupo, i miei studi e perché possiedo informazioni certe ed incontestabili su questo tragica vicenda sportiva.
Troverete in questo libro emozioni, passioni e spiegazioni tecnico scientifiche. Vi auguro una buona lettura, certo che alla fine comprenderete finalmente la verità.
CAPITOLO 1
LA MIA PASSIONE PER LA BICICLETTA
Nel 1977, quando avevo undici anni, i miei genitori mi regalarono per Natale tre libri che narravano la storia di tre campioni del ciclismo, Fausto Coppi, Gino Bartali e Ottavio Bottecchia. I libri erano accompagnati da una bellissima lettera scritta dai miei cari.
A quell’epoca andavano di moda la pista Polistil
e la bici da cross Saltafossi
per divertirsi con gli amici. Quei tre libri subito non mi resero felice, ma ben presto mi cambiarono la vita, nel vero senso della parola: dopo averli letti, nacque in me una passione smisurata per il ciclismo, che ancora mi accompagna.
Lessi dapprima il libro che raccontava il fantastico Tour de France di Bartali del 1948, all’inizio senza troppo entusiasmo, rendendomi poi conto che, pagina dopo pagina scoprivo una storia nuova. Era come immergersi in un ciclismo fatto di epiche sfide e campioni d’acciaio. Rimanendone affascinato, divorai con profondo interesse i libri di Mario Fossati su Coppi al Tour de France del 1949 e di Giulio Crosti su Bottecchia vincitore del Tour de France del 1924 e del 1925.
Fu naturale, l’anno seguente, chiedere come regalo di compleanno una bicicletta da corsa per iniziare le sfide con i miei coetanei. La bicicletta divenne sfida, velocità, sacrificio, emozioni, rovinose cadute, splendide vittorie e una grande scuola di vita.
Tra gli undici e i diciotto anni mi cimentai nelle corse agonistiche fino alla categoria dilettanti. Nonostante la passione e l’impegno, mancava il talento, non l’ardore o la serietà. Ero riuscito a vincere qualche corsa di minore importanza, ma il confronto con i ciclisti più talentuosi non reggeva, così decisi di concentrarmi sullo studio.
Smisi definitivamente di correre, come fecero tanti, quando agli allenamenti si affiancarono le medicine. Con profondo rammarico abbandonai la vita di sportivo.
A diciotto anni, dopo aver conseguito la maturità al liceo scientifico, mi iscrissi all’università. Avevo vinto una borsa di studio per merito scolastico, destinata agli studenti le cui famiglie non potevano sostenere le spese universitarie. Furono anni difficili, ma sereni.
L’esperienza acquisita nell’ambito agonistico venne gradualmente trasferita nella nuova disciplina, dove impegno, regolarità, sacrificio erano alla base di ogni auspicabile risultato. Gli esami universitari superati erano le vittorie di tappa, la laurea il traguardo finale.
Subito mi sembrò facile aver smesso di correre, ma dovetti ricredermi. Era come se mi mancasse qualcosa di vitale: la sfida.
Per mia fortuna vissi una nuova avventura, che mise a dura prova le mie capacità e la voglia di sfidare me stesso: scienze biologiche presso l’Università di Urbino, una facoltà scientifica all’avanguardia.
Avevo avuto la possibilità di scegliere una facoltà di mio gradimento e che si rivelò molto più azzeccata di architettura, verso la quale si era a lungo diretto il mio interesse.
Dopo un solo anno, periodo nel quale avevo solo frequentato le lezioni senza sostenere esami, feci domanda per entrare come allievo interno
presso il laboratorio dell’Istituto di Chimica Biologica dell’università, di cui era responsabile un giovane professore, Mauro Magnani, che in seguito sarebbe diventato il mio tutor.
Dapprima fu sorpreso dalla mia insistenza nel voler frequentare senza la necessaria preparazione un laboratorio pieno di provette e reagenti, ma alla fine, convinto dal mio entusiasmo, mi concesse il benestare, a condizione che superassi almeno un esame.
Passai brillantemente l’esame di matematica e in breve tempo mi ritrovai a imparare come si lavorasse in un laboratorio di biochimica: ero entrato nel gruppo di ricerca del professor Magnani, il quale mi disse di comprarmi un camicie bianco e di presentarmi in laboratorio il lunedì successivo.
Provai una gioia indescrivibile, al pari di quando salii per la prima volta su una bicicletta da corsa e iniziai a pedalare. La differenza era che quel lunedì, in quel laboratorio, non dovevo fare nulla, anzi dovevo stare fermo per non combinare guai, ma l’energia che circolava dentro di me era la stessa che provavo al via di un’importante gara ciclistica.
La bicicletta è una grande scuola di vita
La bici mi aveva tolto i comuni svaghi dell’adolescenza, le cene con gli amici, le uscite del sabato sera, i bagni al mare d’estate, ma mi ha insegnato a crederci sempre e lavorare a testa bassa per ottenere il miglior risultato possibile.
L’esperienza acquisita nel sostenere i sacrifici dovuti alla pratica sportiva mi aiutò a superare con naturalezza le continue difficoltà del nuovo percorso universitario.
Gli studi universitari si rivelarono abbastanza facili: gestivo lo stress degli esami e dei risultati in laboratorio come avevo già vissuto la preparazione alle corse agonistiche sin da piccolo. Mai agitarsi. Usare prima la testa delle gambe. Valutare ogni singolo passo con raziocinio e impegno, evitando sperperi di energie senza ragione.
Avevo la certezza che solo quando avevo fatto tutto al meglio, potevo sperare di ottenere un risultato.
Vedo moltissime similitudini tra uno sportivo e un ricercatore universitario. Come nello sport, punto arduo, non è la singola vittoria, ma la riconferma della propria classe. Allo stesso modo nella ricerca ciò che conta è che l’esperimento effettuato sia ripetibile e dia gli stessi risultati. In ballo c’è sempre una gara, una cronometro
con il cuore in gola, una sfida con se stessi e con le proprie capacità.
Quasi sempre un ricercatore è solo nella sua stanza con i suoi calcoli. La pubblicazione del suo lavoro su una rivista scientifica prestigiosa è il suo trofeo più ambito, perché in realtà non ci sono coppe né tifosi che ti acclamano.
Un ricercatore è solo, molte volte con i suoi dubbi e le sue speranze, un po’ come un corridore, che sfreccia di fronte al pubblico, ma non lo vede né lo sente.
Un ricercatore credo sia paragonabile ad un cronoman
o ad un ciclista solitario in fuga, solo con la sua fatica. Essere un ricercatore è una scelta difficile: va riconosciuto il merito a chi ha coltivato la sua vocazione per una vita, e lotta ogni giorno nonostante gli ostacoli che incontra.
Sono davvero fortunate le persone che riescono a fare ciò che amano: così la vita ha un senso e merita di essere vissuta. Io ho avuto questa fortuna, che si può definire vocazione: di buon mattino entravo nel laboratorio di biochimica, mangiavo un panino a pranzo, mi rimettevo al lavoro chiudendo il portone dell’università alle otto di sera. Mi piaceva il silenzio dei corridoi dopo che tutti avevano lasciato il loro posto di lavoro. Ero il padrone del laboratorio,