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RITORNO IN TRATTORIA

Una piccola rivoluzione sta investendo la tavola italiana: si chiama trattoria.

Lenta ma inesorabile un’ondata di nuove abitudini e desideri sta riscoprendo quello che era il fulcro di un sistema ristorativo che l’aveva sempre avuta come spina dorsale ma al tempo stesso la snobbava. La trattoria (così come l’osteria nella sua accezione attuale) era amata da tanti, nel mondo, ma poco valorizzata dagli italiani. Esattamente come la cultura gastronomica di base, in Italia: ciò che proveniva e proviene dalla cultura materiale popolare e appartiene alla storia e al sistema familiare ha sempre faticato a trovare dignità nel sistema culturale “tradizionale”. La grande novità è che, complice una situazione di crisi in cui al post pandemia si è sommata una nuova instabilità economica, il desiderio di identità e semplicità, così come i valori della convivialità e della tradizione, sono diventati primari. In una parola: concretezza. La trattoria italiana (e Slow Food su questo ha fatto da apripista) si è sempre basata su tre punti cardine: una forte valorizzazione del territorio e della tradizione, una buona accoglienza e il rapporto qualità-prezzo. Il tutto era spesso condito da una gestione familiare che riportava la ristorazione di trattorie e osterie in una dimensione molto prossima a quella di casa, che è poi l’origine di ogni sapere gastronomico del Belpaese. Questo, però, è stato per anni ancorato a un modello non sempre capace di evolvere e accogliere il nuovo, proprio per quel concetto di tradizione che – talvolta – diviene adorazione delle ceneri, piuttosto che custodia del fuoco (cit. Gustav Mahler). La trattoria come tempio immutabile, l’idolatria delle nonne (anche quelle inventate) e la presunta contrapposizione fra tradizione e innovazione hanno gravato come un macigno su un settore che non ha sempre saputo dare spazio alle voci nuove, in particolare quelle giovani. E per un po’ è successo quello che anni fa accadeva anche nel mondo del vino: i giovani abbandonavano casa per andare a cercar lavoro altrove. Per fortuna, proprio come è accaduto nel comparto enologico negli ultimi tre decenni, da qualche tempo le nuove generazioni stanno trovando un modo inedito per interpretare la trattoria di oggi, e tornano a casa. Un vero e proprio rinascimento sta interessando questo settore, complice forse anche l’avvicinamento di quegli chef da fine dining che hanno cominciato a guardare alla cucina di territorio e a valorizzare chi la fa. D’altro canto sono loro ad avere bisogno di questo e non viceversa. Ma cerchiamo di capire meglio in cosa consista questo vento di cambiamento.

Alcuni anni fa l’iniziativa imprenditoriale di un ristoratore dei colli bolognesi, Alberto Bettini (alias Amerigo a Savigno) faceva sì che quella che poteva restare una semplice trattoria del comune di Valsamoggia si trasformasse in un laboratorio di qualità in cui il quotidiano diveniva speciale grazie a un attentissimo approvvigionamento di materia prima di qualità, alla sistematizzazione del lavoro, a una valorizzazione del contenuto attraverso il racconto e la proposta originale. Alberto aveva viaggiato e si era ispirato alle grandi case stellate d’Europa per poter costruire il suo dal 1934 (dal nome del nonno), solo che lo stile, l’attenzione per il dettaglio, le proposte degustazione qui vengono applicati a una trattoria e non alla cucina creativa. Non è un caso che questo sguardo al futuro, ma con radici saldamente ancorate al territorio, possa vantare anche 25 anni di stella Michelin, sostanzialmente l’unica mai data in Italia a una trattoria che fa davvero la trattoria, perché invece di ristoranti vestiti da trattorie ce ne sono tanti. L’eccezione che conferma la regola, insomma, perché di stelle a insegne del genere la

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