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Nostro figlio
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E-book147 pagine2 ore

Nostro figlio

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Info su questo ebook

Vent’anni dopo che Itai Zer ha finito il suo servizio di leva come impiegato in una base dell’aviazione israeliana, ecco che nella sua vita ricompare Avi Razi, il suo superiore. Questi gli chiede di aiutarlo a rapire suo figlio tredicenne, che non vede da molto tempo, per vendicarsi della sua ex moglie che lo abbandonò portandosi via il bambino quando era molto piccolo. Secondo il suo ex comandante, Itai Zer, oggi quarantenne, deve pagare un vecchio “debito”, perché fu lui a salvarlo da un imbarazzante coinvolgimento in una molestia sessuale negli anni del servizio militare. Zer, il protagonista del romanzo, oramai sposato e padre di una bambina, si trova coinvolto sempre più nell’intricata vita di
Avi Razi, costretto ad affrontare insieme a lui le tre donne di questo romanzo, Neta, la vittima della molestia e a quel tempo fidanzata di Itai Zer, Ayalà, la ex moglie di Avi Razi, che si è rifatta la vita con un altro uomo, e Yael, la moglie di Itai Zer. Pur non incontrandosi mai, esse tessono fra loro una complicità femminile dando una loro risposta alla vecchia disputa su chi sia veramente forte e chi debole quando uomini e donne devono affrontare le grandi problematiche della vita.
LinguaItaliano
Data di uscita21 mag 2014
ISBN9788865641163
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    Anteprima del libro

    Nostro figlio - Alon Altaras

    figlio

    Nostro figlio

    Nostro figlio

    Alon Altaras

    traduzione dall’ebraico di Aline Cendon e Alon Altaras

    copyright 2014 Atmosphere libri

    1

    L’ho conosciuto nell’esercito, nei lontani giorni dell’inverno 1980. A quei tempi prestavo servizio come impiegato all’ufficio riservisti, ero un soldato semplice nella base dell’aviazione Hatzor. Smarrito. Di quei viaggi per raggiungere la base ho un ricordo vago.

    Agrumeti rischiarati dall’intensa luce del mattino. Ora, a più di vent’anni di distanza, non mi è ancora chiaro come mai anche lei sia invischiata nella storia di Avi Razi, che all’epoca era ufficiale amministrativo dell’aviazione e poi è sparito dalla mia vita fino al nostro incontro di stasera, in un caffè in centro a Tel Aviv. È stato lui a riportarmi, per un istante, a quelle strade del sud, ed eccomi all’improvviso fare l’autostop lungo via Gea. Tengo in mano un libro per non prendere sonno e, in un inutile sonnecchiare, perdermi il viaggio di un’ora verso il malconcio ufficio riservisti, davanti all’infermeria della base numero quattro.

    È strano scoprire come nel lampo d’un vago ricordo tutti quei posti diventino isole di giochi amorosi e gli edifici intonacati a calce si intreccino con gli amori della giovinezza, che sospirano e fanno sospirare – non è detto per allegria. Avi Razi dovrà scusarmi tutto questo poetare, perché dopo le cose che mi ha raccontato, di certo, non c’è più tempo per la poesia. Comunque, prima di accettare la sua proposta, o quantomeno di prenderla in considerazione, dovrò cercare di ricordarmi come sia nato questo mio debito, di cui mi ha parlato poco fa, e quale faccenda sia rimasta aperta tra me e questo energico ufficiale, che nel frattempo è diventato calvo e grassoccio; con foga commovente mi ha appena raccontato d’essere stato lui, e non altri, a salvarmi dal carcere militare. Io, devo confessare, ho altri ricordi.

    Razi mi ha telefonato al lavoro, al Centro Programmi Scolastici di Carattere Scientifico, e mi ha detto d’avermi intravisto per caso sotto l’edificio del Comune, vicino al monumento dedicato a Rabin, in compagnia di una giovane donna con i capelli corti che teneva in braccio un bambino. Dopo avermi cercato sull’elenco, mi ha chiamato a casa e così ha avuto il numero del mio ufficio, perché lui è una persona che non si intromette nella vita privata. Io sono l’unica persona che lo può aiutare. Dobbiamo incontrarci, ha detto, è questione vitale.

    Sin dalla prima telefonata ha fatto leva sulla nostra amicizia ai tempi dell’esercito – un’amicizia che per quanto mi riguarda non è mai esistita. Ho accettato distratto l’ora e il luogo che mi ha proposto, cinque giorni dopo in un caffè di Tel Aviv e adesso, dopo aver sentito quello che aveva da dirmi, è arrivato il tempo di ricostruire, dal mio punto di vista, i fatti accaduti in quel posto. Dopo esserci congedati ho camminato lentamente, non avevo fretta di tornare a casa, cercando di far luce tra me e me su cosa l’immaginazione disperata di Razi avesse aggiunto alla storia, e cosa trattenessero i miei ricordi. A casa mi aspettavano Yael e la bambina, e non erano la compagnia adatta per rivangare i ricordi che Razi mi aveva risvegliato.

    La stradacontortache alla fine mi portò alla base, circondata da agrumeti, si pronunciava già ai primi richiami al servizio militare. Stavo seduto di fronte alla soldatessa che mi stava valutando in una stanza dipinta di verde, un tavolo di formica sbiadita ci separava e lei, dopo aver trascritto i miei dati personali, mi chiese con voce stanca:

    «Hobby?»

    «Pallacanestro e cinema. Ho fatto anche un cortometraggio durante il corso Cinema per la Gioventù, su due lesbiche che vivono in Galilea e un poeta che si innamora di loro ma loro non lo vogliono e lui tenta di suici…»

    «Senti, l’esercito non è interessato alla trama dei tuoi cortometraggi. Usi droghe?»

    «No».

    «Che scuola frequenti?»

    «Quella serale, vicino a Kikar HaMedinà», risposi prontamente, con voce sicura, cercando di migliorare l’immagine della scuola serale con una reazione decisa. Ma l’esaminatrice, con l’aria di chi sa come rimettere ognuno al proprio posto, dichiarò:

    «Conosco perfettamente la differenza fra una scuola serale e Kikar HaMedinà. Io scrivo qui che hai fatto dodici anni di studi, senza la maturità, solo dodici anni di studi. Mi auguro che per l’arruolamento tu abbia finito tutti gli esami e allora aggiungerò anche la maturità, inteso?».

    Tipo strano questa soldatessa, pensai, ha la faccia angelica ma il modo di parlare è più simile a quello d’un ufficiale dei vecchi film di guerra che mio padre ama vedere alla televisione. A quel punto decisi di rispondere con franchezza alle sue domande dirette.

    «Dove vorresti prestare servizio?» chiese, e un sorriso strano e irritante le sbocciò sul viso. Non riuscii a decifrarlo, forse sdegnoso forse stanco.

    «Vorrei prestare servizio al settimanale dell’esercito, oppure alla radio militare, o in un reparto che realizza dei film, se c’è qualcosa del genere da voi, qui nell’esercito».

    Lei rimase interdetta e dopo un breve silenzio disse piano, scandendo le parole, per essere certa che ne comprendessi bene tutto il significato:

    «Ragazzi come te, che ci arrivano dalle scuole serali, non vengono indirizzati a reparti del genere».

    Mi fissò con due occhi azzurri e inquieti:

    «L’esercito non ama le scuole serali».

    «E tu?», la interruppi, la stanza verdognola e il tono altezzoso della sua voce mi stavano opprimendo, «tu dove hai studiato?»

    «Nel famoso liceo Ben Zvi», disse con orgoglio, come bastasse questo nome per fugare ogni dubbio. «E questo, come tu sai bene, è un liceo tutt’altro che serale, si trova nella città di Givatayim, se non hai niente in contrario». Tornò a guardare le carte. «Vedo che sei della città di Ramat Gan, di una zona non lontana dal liceo. Se così stanno le cose, non devo spiegarti la differenza fra la tua scuola serale e il mio liceo».

    A quel punto avevo perso ogni interesse a polemizzare con lei e decisi di rivelarle un dato che avrebbe quasi certamente incrinato la sua arroganza. Volevo proprio vedere come sarebbe cambiata la sua espressione quando questa informazione l’avrebbe colpita, e come qualcuno che stesse estraendo un gioiello antico e raro da uno scrigno, con voce limpida e decisa, annunciai:

    «Sono epilettico o, per meglio dire, lo ero fino a poco tempo fa. Lo sono stato dai dodici ai sedici anni, ma forse lo sono ancora, chi lo sa? Se mi spavento o mi emoziono, tutto può succedere al mio cervello, scrivi esattamente ciò che ti sto dicendo, scrivi tutto, ti posso fare lo spelling della parola, se vuoi».

    «Epilessia?» lei quasi gridò per lo spavento e la sua voce urtò le pareti verdi della stanza. «Proprio epilessia? Con tutti gli spasmi, gli svenimenti, la schiuma alla bocca?»

    «Sì sì con tutte quelle cose che si vedono nei film. Due attacchi già li ho avuti, e tanti incontri con i neurologi. Fa impressione, no?».

    Lei non sapeva che atteggiamento assumere davanti a quella improvvisa confessione sull’epilessia, tentò di recuperare un tono formale così che ognuno tornasse nei ranghi.

    «Hai la documentazione di tutto questo casino medico?»

    «Non giro con un certificato da epilettico in tasca», le chiarii, ma la mia battuta non la divertì. Si riprese:

    «Per il secondo richiamo devi portare tutta la documentazione, i medici e lo psichiatra dell’esercito ti faranno dei controlli e vedranno cosa può fare l’esercito con la tua malattia».

    Insistetti, assumendo un’aria fintamente seria:

    «Dimmi, cosa ne facciamo della radio militare, del settimanale dell’esercito o il mensile dell’aviazione, o quantomeno di un reparto che fa film per l’esercito? Ho qualche speranza di arrivarci? Potrei essere il primo studente serale epilettico che presta servizio in uno di questi posti, no?».

    Lei mi guardò, come avrebbe guardato chi farfuglia parole senza senso, e suggerì sbrigativa: «Non essere ridicolo, e non dimenticarti i certificati medici quando verrai la prossima volta. A noi qui non piace essere presi in giro».

    Il suo avvertimento fu chiaro, non me ne sarei dimenticato e in quel momento non sorrisi. In seguito portai i certificati richiesti e in quella stanza fu stabilito che andassi a fare il primo addestramento con altre persone di salute precaria – un mese a Sebastia, in Samaria, nell’aria fredda dicembrina, in compagnia di autisti principianti e altri ai quali il futuro nell’esercito riservava ruoli di cuoco o magazziniere.

    Non sapevo che una parte di tutta quella meraviglia sarebbe stata riservata a me e aspettavo con nervosismo la fine del primo addestramento, per avere notizia di dove avrei passato quell’irrilevante lasso temporale di 18-21 anni. Il trattino che separava dei numeri scelti a caso – proprio quel trattino era diventato la preoccupazione maggiore della mia vita militare.

    Alla fine i notabili della diagnostica militare mi spedirono alla scuola tecnica dell’aviazione, corso per magazzinieri. Il sottoscritto, Itai Zer, che non è in grado di trovare le chiavi di casa, cui talvolta capita di dimenticare gli occhiali in frigorifero, sarà responsabile di un intero magazzino di pezzi di ricambio per cacciabombardiere. Impensabile. Il tragitto che porta dal magazzino all’errore e al carcere militare è corto e doloroso.

    Vagavo in mezzo alle tende da campo portando sottobraccio, ben in vista ad ogni ufficiale, il romanzo Tmol shilshom di Agnon, con una copertina rossa che attirava l’attenzione, e sotto l’altro il volume di poesie di Yona Volah, in copertina il dettaglio di un quadro di Klimt: una donna circondata tutt’intorno da fiori. Camminavo lentamente. Dalle tende si levava la voce del cantante Boaz Sharabi, Amerò solo te stanotte, io non ho niente, solo parole. Seguivo un percorso fisso, con la speranza che uno dei responsabili del corso si sarebbe accorto dell’insolito comportamento del candidato al ruolo di magazziniere tecnico.

    Soltanto l’indomani una di loro notò questo soldato malinconico che vagava fra i sentieri della base. Stavolta non avevo usato soltanto libri. Con le cuffie del walk man sulla testa non avevo più bisogno delle radioline transistor che si sentivano nelle grigie tende piene di soldati in attesa dei corsi. Boaz Sharabi mi arrivò dritto alle orecchie e mi fece tremare il cuore, speravo sarebbero arrivate finalmente anche le lacrime che mi avrebbero portato dritto dallo psicologo militare per liberarmi da una quotidianità minacciosa – piccoli pezzi di ricambio, bulloni, ganci, cacciaviti di varia misura che avrei dovuto conoscere per nome e per uso.

    Dovevo andarmene. A questo servivano le lacrime versate e la mano che tiene stretti i libri come fossero l’unica salvezza. Ma anche musica nelle orecchie, che fa nascere la volontà di camminare fino al cancello, uscire dalla base e aspettare in camera mia, a casa dei miei genitori, l’arrivo della polizia militare.

    Grazie alla sollecitazione della responsabile, mia salvatrice, lo psicologo mi ricevette per un colloquio e mi mandò direttamente dallo psichiatra dell’ aviazione. Mi chiese come mi chiamavo, come stavo, e fissando l’espressione del mio volto lesse a voce alta il resoconto dello psicologo, secondo il quale io, soldato semplice Itai Zer, gironzolavo per ore nella base tecnica dell’aviazione, piangendo e talvolta mormorando frasi insensate, tipo ‘luce rossa segnala allerta grossa, la mia libertà rubata cammina fino al cancello e torna al macello’.

    Feci cenno con la testa che sì, la descrizione corrispondeva, così il militare esperto dei meandri dell’anima decretò che il soldato Itai, matricola 3311243, soffriva di seri problemi di adattamento al sistema militare, e pertanto doveva essere collocato in un posto dove poter svolgere mansioni tranquille, da impiegato, che non lo mettessero in ansia e non risvegliassero dal letargo l’epilessia. Venni perciò mandato alla base militare numero quattro dell’aviazione.

    Arrivato a casa, non raccontai a Yael dell’incontro con Avi Razi. Sprofondai nella vecchia poltrona che stava davanti alla televisione, e mentre Tami piagnucolava nella stanza accanto, chiusi gli occhi e feci finta di appisolarmi. Sapevo che Yael mi stava guardando, ma sentivo che era meglio non raccontarle

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