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La naja che non volevo
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La naja che non volevo
E-book152 pagine2 ore

La naja che non volevo

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Info su questo ebook

La naja, un tempo esperienza obbligatoria per tutti i giovani italiani, segnava il definitivo passaggio all’età adulta. In quei mesi si era lontani da casa - per alcuni era la prima volta in assoluto -, e si entrava in contatto con giovani provenienti da tutta Italia, e come in ogni caserma si instauravano rapporti di amicizia o di conflittualità. Ma la naja era soprattutto orari rigidi, disciplina severa, turni di guardia massacranti, punizioni e nonnismo. Eppure in questo racconto a trecentosessanta gradi della vita militare, Renato Romano coglie tutte le sfaccettature, anche le più insolite, restituendo un quadro di un mondo che per molti aspetti aveva un ruolo positivo nella formazione delle nuove generazioni.

Renato Romano è nato a Venezia nel 1967 e vive in Campania. È una delle giovani voci della nuova poesia contemporanea. Il suo nome figura nel Compendio degli Autori Italiani del Secondo ’900. Due le raccolte di poesie all’attivo: Lucia (1992) e Prigioniero ad Auschwitz. Poesie, 1990-2004 (novembre, 2014), che ha presentato in tutta Italia, riscuotendo notevoli consensi di critica e di pubblico. Ha in preparazione un secondo romanzo dai toni noir e una raccolta di interviste ad artisti e cantanti dell’epoca d’oro della canzone napoletana come Sergio Bruni, Roberto Murolo, Aurelio Fierro e altri. è giornalista pubblicista. Collabora, sporadicamente, a giornali, riviste e a testate online. È alla sua prima prova narrativa.
 
LinguaItaliano
Data di uscita1 feb 2019
ISBN9788855080101
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    La naja che non volevo - Renato Romano

    sempre.

    Prologo

    Naja¹

    Pensiero duro, spartano,

    emozioni soffocate e recise…

    Disciplina severa,

    ragazzi strappati ai propri affetti:

    nessuna poesia in tutto ciò…

    Nuvole oscure si addensano ai confini,

    il tempo si accorcia

    come i nostri capelli

    e la nostra volontà.

    Il guardaroba, in caserma,

    distrugge la memoria delle cose:

    non le ritroveremo più uguali,

    ma molto più sdrucite,

    rovinate irrimediabilmente.

    Fabio Arras

    1 In Poesia, n. 68/1993, pp. 77-78

    L’esonero

    Nell’estate del 1985 giunse la fatidica ora della naja.

    Mi decisi a fare domanda di esonero dal servizio militare perché non potevo trascorrere un anno rinchiuso in caserma, lontano dalla mia passione per la musica, lontano da Maria Noè, la mia ragazza di cui ero tanto innamorato, distante dalla mia band nella quale suonavo come bassista; per cui cercavo in tutti i modi possibili di essere esentato dalla cosiddetta naja che, purtroppo, un tempo, era obbligatoria.

    Cercai di farmi venire in mente un escamotage che funzionasse alla perfezione, perciò scelsi di appoggiarmi all’art. 100 del paragrafo 4 di una legge bandita dal ministero della Difesa, che proclamava testualmente: Primogenito e unico figlio maschio di padre vivente, affetto da infermità permanente ed insanabile, che lo renda inabile ad esplicare la sua abituale attività lavorativa, e non eserciti, di fatto, altra attività lavorativa, ovvero di madre vedova o nubile, purché in entrambi i casi, con la partenza del figlio la famiglia venga a perdere i necessari mezzi di sussistenza.

    Mi appigliai a questa legge pur ritenendola completamente sballata.

    La mia famiglia era alquanto agiata. Anche se io partivo, non avrebbe perso i necessari mezzi di sussistenza.

    Ero primogenito e unico figlio maschio, di madre vedova, ma tutto questo non significava niente per due semplici ragioni: la prima perché mia madre stava molto bene di salute; la seconda perché con la mia partenza lei non avrebbe di certo patito la fame.

    Essendo per natura un tipo testardo e cocciuto, a tutti costi volli tentare questa avventura.

    Mi misi sulla strada di cercare un lavoro. Non fu affatto facile trovarlo, tanta era la disoccupazione che anche all’epoca c’era in giro. Anche perché di lavorare non mi andava molto. Di suonare sempre, ma di lavorare poco.

    Tutte le volte che mi si parlava di lavoro rimanevo perplesso, immobile.

    Ma se volevo ottenere i documenti utili per l’esenzione dal servizio militare, dovevo per forza trovare un lavoro che mi garantisse un reddito sufficiente per il sostentamento della mia famiglia.

    Un amico mi fece il nome di un assessore comunale con delega ai servizi sociali, che avrebbe potuto aiutarmi a trovare un lavoro. Tale assessore era molto benvoluto in città. Costui aveva un soprannome: ‘O figlio ‘e Totonno ‘o pallaro.

    Quest’uomo, al contrario di quanto potrebbe far pensare il nomignolo, oltre ad essere stimato da tutti per le sue doti umane e professionali, era davvero una brava persona, sempre attento e cortese verso il suo elettorato, un vero gentleman: aveva tutte le caratteristiche e le sembianze del vero politico di razza!

    Grazie al suo aiuto, riuscii a trovare subito un impiego a tempo determinato presso una rinomata industria di conserve alimentari. Fui assunto come ragioniere. Il mio incarico era tenere la contabilità del magazzino merci.

    Alcuni mesi dopo fui chiamato, tramite il mio comune di residenza, a sostenere la visita fisica e psico-attitudinale, cioè dovevo sottopormi ai primi famosi tre giorni. Era mio obbligo presentarmi al Distretto militare di Salerno entro e non oltre il 29 novembre dell’anno in corso.

    Alla visita fui puntuale. Svolsi tutti i test attitudinali e i controlli medici di routine ai quali risultai idoneo. Dopo, presso il mio comune di residenza, presentai senza colpo ferire l’intera documentazione occorrente per l’esonero.

    Intanto, ero convinto che il mio diabolico piano, benché non fosse perfetto, riuscisse, in qualche modo, a fregarli proprio tutti.

    Il messo comunale

    Siamo in un piccolo paese del Sud, nel cosiddetto Agro nocerino sarnese, non lontano dalla mitica Pompei, la cittadina ai lembi del Vesuvio nota in tutto il mondo per l’eruzione vulcanica del 79 d.C.

    Qui la vita si svolge in apparenza monotona, lenta, sempre uguale, nulla sembra mai accadere. In realtà, ovunque la vita brulica sotterranea, freme segreta, il fuoco cova sotto la cenere. Come la lava incandescente immortalò gli ultimi istanti dei pompeiani così, con i miei limitati mezzi e assai più modestamente, proverò a fare io. Fisserò su carta con spirito non meno ribollente alcune vicende mie e dei miei concittadini.

    Era una giornata di pioggia quando sentii trillare, ripetutamente, il campanello alla porta.

    Già prima che mi svegliassi, percepii nel sonno che quella sarebbe stata per me una brutta giornata. Era iniziato a piovere alle cinque del mattino. L’acqua veniva giù a catinelle battendo spiovente contro i vetri delle finestre serrate.

    Era proprio una di quelle tristi giornate invernali in cui l’umidità ti entra nelle ossa, una di quelle giornate in cui la pioggia inizia dalle prime ore del mattino e finisce la sera. Una di quelle giornate che ti fanno sprofondare in un baratro di tristezza, che ti sembrano apocalittiche.

    Il campanello, insistente, continuava a squillare, tre, quattro, cinque volte di seguito. Mia madre accorse ad aprire l’uscio di casa. Era il messo comunale.

    Quella mattina avevo dormito un po’ più del solito, la sera precedente mi ero esibito quasi fino all’alba in un pub a Cava dei Tirreni. Fu un bel live, io e i ragazzi della mia band riscuotemmo un insolito consenso.

    Da poco mi ero levato dal letto, mi trovavo ancora in pigiama. Feci appena in tempo a nascondermi dietro la porta socchiusa della mia stanza, dove rimasi ad origliare. Mi chiedevo cosa volesse costui. Intanto non mi andava di farmi vedere conciato in quel modo. Sentii ripetere diverse volte il mio nome. Ad orecchie tese stetti ad ascoltare per quasi un quarto d’ora. In quel lasso di tempo capitò che un paio di volte mi proiettai fuori di me, quasi mi sdoppiai, vedendomi contemplare quegli attimi di fervida trepidazione. Subito capii che si trattava della mia domanda di esonero militare. Rientrato in me, compresi ben presto che tutto doveva essere andato a monte, nel senso che la mia domanda d’esonero era stata respinta.

    Ed infatti la mia documentazione fu respinta in base all’art. 100 del paragrafo 4, nr. 12 che, citando di seguito le testuali parole del messo comunale, recitava: Respinta la domanda di dispensa dal compiere la ferma di leva dal manifesto di chiamata alla leva della classe 67, perché l’iscritto in atto è sprovvisto di reddito in quanto licenziato il 31/12/985 e quindi con la Sua partenza alle armi le condizioni economiche della genitrice peraltro sufficienti, reddito pensionistico ed immobiliare non subiranno alcun peggioramento.

    Coloro i quali io credevo, ingenuamente, di fregare, erano riusciti a mettermi con due piedi in una scarpa.

    Con una sentenza del genere, ero spacciato. Non avevo altra scelta, dovevo per forza partire.

    Dalla porta socchiusa della mia stanza, cercai di sbirciare chi fosse questo Giuda Iscariota che quasi di primo mattino aveva portato una così crudele e spietata novella.

    Lo fissai attentamente, affinché potessi scrutarlo dalla testa ai piedi. Era basso, magro e pelato; aveva la testa più liscia di una palla da bigliardo. Gli applicai subito un appellativo, un soprannome, il primo che mi venne per la testa. Se per tradizione – dissi tra me – tutti in città hanno un nomignolo, perché non metterne uno anche a lui? In quel momento, me ne sovvenne uno che faceva proprio per lui. Lo soprannominai il sorcio.

    Con l’immaturità propria della gioventù, mi prendevo gioco di lui tutte le volte che lo incontravo per strada, soprattutto quando ero in compagnia dei miei amici, che in tono canzonatorio gli urlavano all’unisono: «Mannaggia ‘o sorecillo a pezza ‘nfosa…!!!». Non era antipatico solo a me. Nessuno di loro poteva digerirlo.

    Ci si erano messi in due a fregarmi, e molto ben di concerto tra loro: la fabbrica di conserve alimentari e il Ministero della Difesa.

    L’industria conserviera, infatti, mi licenziò dopo soltanto tre mesi avermi assunto e il Ministero aveva giustamente bocciato la mia domanda di esonero perché ero disoccupato e quindi senza reddito. Non potevo affatto mantenere una famiglia, tanto meno mia madre, il cui reddito con la mia partenza non avrebbe subito alcun peggioramento.

    Purtroppo il sorcio, poveretto, non aveva proprio nessuna colpa.

    Ma intanto lo detestavo. Come si dice dalle mie parti: Non lo potevo proprio vedere!.

    Dopo questo mio insuccesso rimasi molto più che deluso, ero quasi terrorizzato. Lo riconosco: all’epoca ero un ragazzo un po’ viziato. Mi veniva da piangere quando pensavo che tutto il mio lavoro se n’era andato in fumo. Eppure mia madre me l’aveva detto: «Guagliò ‘a mammà», mi ribadiva di seguito, «nun ce sta’ niente ‘a fa, tu ‘e partì; tu ‘e partì…!!!».

    Meno male che avevo Maria Noè, la mia ragazza, dalla quale mi precipitai subito e da cui cercai di avere un po’ di conforto. Anche lei rimase sconvolta. Vide agitarsi lo spettro di restare sola trecentosessantacinque fottuti lunghissimi giorni.

    Ero molto legato a Maria Noè, la donna che avrei dovuto sposare, e volevo sposarla perché l’amavo. Maria Noè era una bella ragazza mora dal viso dolce e il fisico prosperoso. Di carattere semplice, indole schietta e di poca cultura, aveva appena vent’anni e già lavorava sodo dando una mano in un piccolo ristorante di famiglia. Era ben fatta e non le mancava un fondoschiena notevole; l’unica parte del corpo che usciva fuori dai canoni erano due tette che sembravano cocomeri. A parte questa piacevole imperfezione, il suo corpo era invidiabile, per me un autentico capolavoro di madre natura, quasi una reincarnazione della Venere di Callipigia. Potevo mai resistere per trecentosessantacinque giorni di naja senza vedere Maria Noè? So di cadere nella vieta retorica, ma per me, Maria Noè, era tutto: il giorno, la notte, la luna, le stelle, il mare, il sole, i monti, tutto… Era la prima donna della mia vita, la prima ragazza che avevo becciato.

    Con lei avevo scoperto l’amore. Con lei avevo condiviso le prime emozioni, i primi palpiti, i piaceri. Con lei ero cresciuto, m’ero fatto uomo con la U maiuscola. Con lei avevo scoperto il sesso. Era mia e volevo che restasse mia. Per sempre.

    Anche lei non esitò ad aiutarmi a evitare il servizio militare.

    Mi accompagnò a casa di un amico di suo padre che aveva il pallino per la politica e che, pare, avesse molte amicizie influenti.

    Mario era il suo nome. In città era ben noto per il suo passato da sindacalista, di lui tutti parlavano bene. Grazie al suo aiuto riuscii, nel termine di trenta giorni, a presentare ricorso Gerarchico indirizzato al Ministero della Difesa, presso la Direzione Generale del Contezioso di Roma. Mario mi assicurò di avere un amico che lavorava presso quel Ministero, un alto funzionario della direzione generale del Contenzioso, quindi diede per scontato che il ricorso venisse accettato.

    Passarono alcuni mesi ma non ebbi risposta. Intanto Mario era sempre convinto che tutto sarebbe andato bene. Anch’io avevo riposto una gran fiducia in lui. Anche perché ormai lui era la sola ed unica mia speranza, la sola ed unica mia chance, la mia sola ed unica carta in gioco.

    Passarono altri mesi, e mentre io smaniavo per il lato B di Maria Noè, in una soleggiata mattinata di ottobre

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