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Binari Paralleli
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E-book302 pagine4 ore

Binari Paralleli

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Info su questo ebook

Sei personaggi diversi in sei periodi storici differenti: Cha e Vinicius, due guerrieri con lo stesso destino ma vite agli antipodi; Chavi e Tora, una sacerdotessa succube di una gabbia dorata e una scrittrice in fuga da essa; Iusto, giullare vittima dei propri timori e Casta, archeologa imprigionata nella paura del passato.

Dovendo fronteggiare un incubo che ritorna, sarà proprio Casta a tirare le fila di tutte queste vite passate, di sentimenti che, come i treni, alla fine ritornano, aprendole gli occhi sulla lezione fondamentale della propria esistenza.

Binari paralleli rappresenta un viaggio sui binari talvolta sconnessi che la vita ci presenta, indipendentemente da quando, come, dove e con chi siamo vissuti. E' un'avventura alla guida dei nostri sentimenti, che ci spingerà a viverli da dentro per capirli nel profondo.
LinguaItaliano
Data di uscita23 nov 2016
ISBN9788822868176
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    Anteprima del libro

    Binari Paralleli - Flavia Vincenzi

    Flavia Vincenzi

    Binari Paralleli

    UUID: 92f0e6fa-b0a7-11e6-aa62-0f7870795abd

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Prima edizione: novembre 2016

    ©Copyright - 2016 Flavia Vincenzi (TUTTI I DIRITTI RISERVATI)

    Immagine copertina: mimagephotography / 123RF Archivio Fotografico

    Editing a cura di: Martina Galvani

    Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a nomi, fatti, luoghi, persone esistite o esistenti è puramente casuale.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo, anche parziale, costituisce violazione dei diritti dell'autore secondo quanto previsto dalla legge 633/1941 e successive modifiche. 

    Questo e-book non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell'autore.

    Contatti autrice: flolessdesign@gmail.com

    Il vero motivo per cui questo libro è stato scritto

    Uno dei primi libri che ho letto è stato Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry.

    Quel piccolo, curioso esserino mi ha fatto amare la lettura e più tardi la scrittura.

    Mi ha insegnato ad ascoltare le persone, a guardarle negli occhi, a chiedere perché; e nonostante la mia fanciullesca fase dei perché sia passata da qualche anno, rimane in me la curiosità verso l'animo umano, le emozioni, le esperienze, la ricetta unica (anzi a volte l'unica ricetta) che ognuno di noi conosce per sfornare la ciambella della propria vita.

    Poco importa se siamo vissuti mille, cento o dieci anni fa: la paura, la felicità, la delusione, l'amore continuano a far parte di noi, ci uniscono attraverso l'ineluttabilità dei sentimenti e delle loro conseguenze – le nostre scelte.

    Sono proprio le nostre scelte che ci rendono diversi e che cambiano il corso delle nostre vite.

    Perché un guerriero sceglie l'amore mentre un altro il cinismo?

    Perché qualcuno accetta di vivere e morire in gabbia mentre qualcun altro non può fare a meno di scappare?

    Fermarsi a riflettere sui sentimenti, le reazioni, le scelte e le conseguenze è essenziale per crescere, in ogni senso – per me è stato così e sempre lo sarà.

    Questo libro è un viaggio nella profondità dei propri sentimenti e del proprio vissuto, un esercizio di coraggio che dovevo a me stessa ed una promessa a chi vorrà immergersi in questa tela variopinta: vi troverete rappresentati da qualche parte, forse i colori bizzarri vi trarranno in inganno per un po' ma alla fine vi riconoscerete.

    Esiste naturalmente anche un'altra scelta: leggere questo come un romanzo di pura narrativa, senza implicazioni o filosofia alcuna, appassionarsi alle storie dei suoi personaggi e magari aver voglia di rileggerlo guardandoli da una diversa angolazione.

    Mi sono divertita un mondo a creare questo libro. L'ho scritto di notte, rubando a piene mani dalle tasche di Morfeo, ma non sono mai stata tanto felice.

    L'inizio e la fine

    Ancora un respiro. Ce la posso fare. Provo a respirare ancora una volta. Piano, piano, socchiudo le labbra, catturo un po’ d’aria e la infilo in bocca. Ecco fatto.

    Dovevo arrivare alla fine della mia vita per capire cosa cercavo, e ora sono qui che scorro i miei momenti di eternità con gli occhi. Vedo tutto e capisco tutto, ma adesso non mi serve più, se non a fare pace con quello che sono e con le contraddizioni di cui sono sempre stata vittima.

    Che morte stupida la mia. Impigliata tra i binari con le ruote del motorino, perdo l’equilibrio, batto la testa e… ciao, Casta. Sarebbe da ridere se non fosse una tragedia. D’altronde, cosa ci si può aspettare da me se non un’uscita di scena sbilenca e curiosa, come la mia esistenza?

    Sono distesa sull’asfalto ghiacciato, con decine di sguardi puntati addosso e altrettante mani che vanno e vengono quasi desolate di non poter fare altro che toccarmi. Sento le urla dei pompieri affaccendati sul mio motorino, sento il fischio del treno lontano, sento un brivido di freddo, come se stessi nascendo di nuovo… Mi ci vuole uno sforzo immane per tornare a dove tutto è cominciato, ma voglio godermi ogni momento di questo puzzle finalmente completo. Vorrei dirvi di non distrarmi, di non affannarvi intorno a me, io sto meravigliosamente, non mi vedete sorridere? Eppure, tutto ciò che esce dalla mia bocca è un flebile: Cha, che nessuno capirà né ascolterà.

    Cosa dici? Zitti, sta dicendo qualcosa!

    Cha.

    Cha? Hai detto Cha?

    Cha… vi.

    Cosa dici? Non capisco...

    Non guardarmi così. Tu non mi conosci e Cha per te non significa nulla, e nemmeno Chavi, questo lo so. È soltanto l’inizio e la fine, e se l’hai sentito, ci hai regalato un altro respiro, un senso e una luce nuovi: l'Amore.

    Cha

    Balac, accanto a te è il mio destino. Io porterò alto il nome del mio popolo, combattendo in nome tuo. Sono invincibile e il mio nome, Cha dei Maya, risuonerà come una eco per tutto il territorio del nostro regno. Nessuno osi sconfiggere Cha o si attirerà le ire di Balac e degli altri dei protettori dei guerrieri.

    Questo è stato il mio primo pensiero. Non è un gioco. Non lo è mai stato. Sono nato con la consapevolezza di dover fare qualcosa di grande per la mia gente. Mi ricordo l’istante in cui sono nato, la luce accecante, la sensazione di freddo, lo sguardo di mia madre e le parole preoccupate di chi le stava attorno, perché non piangevo. Ero attonito, affascinato dalla sua bellezza e pensai che solo col silenzio avrei potuto mantenere con me l’essenza di quello splendore per sempre.

    Man mano che passava il tempo, mia madre si abituò a non sentirmi piangere. Mi guardava con i suoi enormi occhi neri sempre sorridenti, come una dea che ha trovato la pace sulla terra. Io mi perdevo in quello sguardo magnetico, carico di felicità e sofferenza. La amavo più di me stesso, ma non riuscii mai a dirglielo.

    Una notte, avrò avuto qualche mese di vita, sentivo il suo respiro caldo vicino a me, la sua presenza rassicurante, le sue forme abbondanti che mi avvolgevano come una coperta calda mentre mi sussurrava: Dormi, piccolo Cha. Non vedremo più nessun sacerdote, non berrai più quelle orribili pozioni. Tu sei destinato alla sofferenza e alla grandezza, tua e altrui, questo è il nostro destino e lo affronteremo, un passo alla volta. La sua voce era risoluta ma amorevole. Aprii gli occhi e la guardai intensamente, tanto che le scese una lacrima. Quella fu la prima notte in cui entrambi dormimmo pacifici e i demoni che fino a quel momento ci avevano turbato se ne andarono definitivamente.

    Uno, due, tre, forza, forza, non voglio femminucce nella mia classe! Questa era la frase ricorrente del maestro Xapatli. Era un maestro molto severo, con una profonda conoscenza dell’arte della guerra, dei segreti delle armi e dell’animo umano. Tuttavia, quest’ultima sua dote non lo rese mai indulgente verso chiunque; me incluso.

    Avanti, Cha, brandisci il pugnale come se fosse una piuma di uccello! Impugnatura ferma, così. No, no, sposta quel pollice. Non curvare la schiena! Voglio un portamento fiero! Un altro errore così e ti metto alla porta a chiedere la carità!

    Quando mi riprendeva in questo modo il suo viso scuro si segnava di tante piccole rughe, il suo gesticolare si faceva inconsulto e sembrava anche più vecchio di quanto non fosse. Si meritava una risposta coi fiocchi. Io ero il più bravo lì dentro, le mie capacità superavano di gran lunga quelle di qualsiasi allievo fosse mai passato sotto le sue mani, e lui lo sapeva. Decisi di concentrarmi su di me, gli avrei dimostrato coi fatti di chi si stesse prendendo gioco.

    Mia madre aveva faticato non poco a farmi ammettere alla scuola militare. Per anni mi aveva guardato brandire tutto ciò che mi capitava a tiro come una spada, un pugnale o uno scudo. Lei era sola. Mio padre era morto prima che io nascessi e la scuola militare rappresentava la migliore delle opzioni, per lei e per me. Intendiamoci: non mi avrebbe mai spinto contro la mia volontà; ma a suo dire: Nei tuoi occhi arde un fuoco indomito e il tuo sguardo mentre brandisci un ramoscello a guisa di spada è lo sguardo di un guerriero; altero, coraggioso, nato con uno e un solo destino già scritto.

    Sì, il mio destino. Bizzarro e canzonatorio. Se è vero che quella fosse la mia sorte, Balac me la voleva far sudare non poco; a cominciare dal mio aspetto, che fin da bambino sembrava più quello di un sacerdote.

    Gambe corte e fisico ossuto – già per questo Xapatli mi avrebbe scartato a priori.

    Ma si imbatté in mia madre, anch’ella una guerriera che non avrebbe mollato la presa finché non avesse raggiunto il suo scopo.  

    Infatti, una sera decise di invitare Xapatli a cena. Gli aveva parlato ormai una decina di volte senza ottenere una risposta definitiva, ma quella sera era decisa a strappargli un .

    Costasse quel che costasse.

    Si era truccata come quando andavamo alla cerimonia dell’equinozio. I suoi straordinari occhi neri spiccavano su quel viso schiarito dalla creta; lo sguardo e le movenze tradivano una velata tensione: la consapevolezza di avere ancora solo un’ultima possibilità. Xapatli era rimasto sulla soglia a guardarla prima di decidersi a entrare; si era trattato di qualche istante ma io l’avevo percepito, avevo capito che le avrebbe detto finalmente di sì. Lui la guardò con insistenza per tutta la sera, aveva un piglio che mai più ebbi modo di notare in lui: sembrava egualmente sfrontato e intimorito.

    Xapatli, tu sai perché ti ho invitato qui, stasera. Ti prego, per l’ultima volta, prendi Cha sotto la tua tutela e insegnagli tutto ciò che serve per diventare un guerriero.

    Coyol, ne abbiamo già parlato. Cha è piccolo per la sua età e molto magro. Non sopravvivrebbe al primo attacco. Non voglio sprecare il mio tempo. Non lo sprecherai. Cha è forte, si allena, sta costruendo un corpo asciutto ma muscoloso intorno a quelle ossicine. Se lo guardassi rubarmi gli attrezzi da cucina per farne spade e pugnali, non avresti dubbi.

    Xapatli inarcò le sopracciglia e la guardò con severità. Ma lo capisci che i miei allievi non prescindono da determinati requisiti che io stesso per la mia scuola ho stabilito, affinché i soldati che andrò ad addestrare siano in grado di fronteggiare le condizioni più ostili?

    Appunto. Tu hai stabilito i requisiti. E tra questi, non c’è forse la fierezza? L’animo del guerriero? La consapevolezza di chi conosce già il suo destino? Di chi attende solo che la sua tecnica venga affinata e la sua mente allenata al ragionamento della guerra? Xapatli, guardalo mentre gioca e capirai quello che ti sto dicendo. Cha ti renderà orgoglioso del lavoro che farai con lui; non te ne pentirai.

    Mentre mia madre parlava, Xapatli si alzò e andò a sedersi più vicino a lei. Senza mai toglierle gli occhi di dosso, sorrise insinuante.

    Non mi serve guardare Cha per capirne l’animo guerriero. Mi basta vedere con quale trasporto sua madre combatta per lui, per capire da chi abbia preso. Sei una donna molto forte… e molto bella.

    A quel punto mi addormentai. Spiavo da dietro la tenda, tutto storto sul mio giaciglio per vedere meglio. Fu l’ultima frase che sentii quella notte, e chiusi gli occhi con l’immagine del maestro che allungava la sua mano enorme verso il viso di mia madre, mentre lei tendeva le sue labbra carnose ad abbozzare un sorriso forzato.

    L’indomani mattina, mi svegliai con la percezione di rumori notturni, senza capire se avessi sognato o se qualcosa di insolito avesse disturbato il mio sonno. Coyol ancora dormiva. Andai ad accoccolarmi vicino a lei ma rimasi poco: emanava un odore, un misto di sudore e di non so cos’altro, che non avevo mai sentito prima. Istintivamente, mi innervosiva e mi repelleva, quindi me ne tornai da dove ero venuto. Lei se ne accorse, si alzò subito e uscì.

    Ritornò con quel suo solito, buon profumo di erbe selvatiche, ma per tutto il giorno non riuscii a togliermi da sotto il naso quello strano odore. Me lo portai dietro per tutta la vita e ogni tanto mi capita ancora di sentirlo, come un oscuro presagio.

    Quella mattina, mia madre sembrava un’altra. Si aggirava per la casa come intontita, con lo stesso straniamento delle ragazze che venivano condotte al cenote. Mi sorrideva, ma aveva gli occhi gonfi di chi ha pianto per ore.

    Rifuggiva il mio sguardo che la osservava insistente, finché disse: Il maestro Xapatli ha acconsentito ad accoglierti presso la sua scuola militare. Ne riparleremo meglio, c’è tempo. Intanto, volevo che tu lo sapessi. E per tutto il giorno, non mi rivolse più la parola.

    I miei compagni non mi sopportavano. Non so se fosse per il mio aspetto o per il mio atteggiamento. Fisicamente, mi ritenevano inadatto anche solo a pensare di fare il soldato. Mentalmente e spiritualmente, ero il più forte, determinato, e col tempo anche grazie a loro divenni sfrontato e arrogante. Sapevo quanto valessi, sapevo di essere il più bravo, sapevo che di me sarebbe rimasta traccia nella storia; ma la mia sicurezza li innervosiva. E, se inizialmente si prendevano solo gioco di me, col passare del tempo cominciarono proprio a odiarmi.

    Cha si merita una lezione. Ieri ha preso il secondo pugnale di Xapatli come fosse il suo. Lo pagherà, questo affronto. Calmati, Tezca. La voce profonda di Yacal si imponeva prepotente su tutte le altre. Non riuscirai a sopraffare Cha. Avrà la lezione che si merita, ma non è ancora ora.

    Stavano tutti in silenzio quando parlava Yacal. Benché il più grande non superasse i tredici anni, sembravamo uomini ormai avvezzi alla durezza della vita e al sacrificio dell’arma. Lui guidava questo manipolo di adepti che ammaliava con la voce e i ragionamenti, troppo elementari per un maestro ma altamente sopraffini per dei soldati poco più che bambini.

    La concorrenza era grande. Lo stesso Tezca avrebbe preso volentieri il suo posto, ma l’arguzia non era il suo forte e il tempo in effetti mostrò al mondo torto e ragione di ognuno di loro.

    Erano per la maggior parte potenti, slanciati, dotati di una bellezza statuaria, e venivano rispettati per questo. Avevano fatto fronte comune contro di me. Se Yacal era il più paziente e si sarebbe gustato la propria vendetta senza fretta, ricevevo minacce e affronti quotidiani da tutti gli altri.

    Mi circondavano. Mi sbeffeggiavano. Dài, Cha! Facci sentire l’urlo del guerriero! Io li guardavo. A uno a uno. Sentivo il mio sguardo penetrarli e qualcuno di loro si lasciava trafiggere. Tu morirai presto, il tuo animo non riuscirà a sopportare le barbarie della guerra. Lo pensai, non lo dissi, ma fu così che andò.

    Affrontavo le loro angherie con stoicismo. Non mi sarei lasciato deconcentrare o intimorire. Quando mi giravano intorno, studiavo le loro mosse con impercettibili movimenti degli occhi. Li conoscevo bene, sapevo i loro punti di forza e le loro debolezze, e quando il loro accerchiamento si stringeva sempre più intorno a me, avevo ben chiaro in mente chi colpire per primo. Era come un gioco: girando su me stesso con grande lentezza per guardarli tutti, osservavo minuziosamente le loro movenze. Mi bastava un passo avanti o un sopracciglio inarcato per trovare la breccia, e in quel momento era come se vedessi una porta aprirsi e la luce della vittoria filtrare prepotente attraverso di essa. Questa intuizione soprannaturale mi faceva trasalire, raggiungere un livello di concentrazione tale che sembravo estraniarmi; tutto diveniva buio intorno, esistevamo solo io e il mio avversario, trapassato da fasci luminosi che mi indicavano la via più breve per la vittoria.

    Era come uno stato di estasi in cui sentivo lo spirito di Balac entrare in me e impossessarsi della mia anima. A poco a poco, un potente flusso di energia saliva dalla punta dei piedi e attraversava tutto il mio corpo, una scarica di energia che mi accelerava il battito, mi spalancava gli occhi sulle paure del mio avversario e apriva una finestra della mente sulla divinità delle mie azioni. A questo punto, non ero più io e le mie mosse si facevano perfette, rapide, impietose; Balac non mi lasciava fino al compimento dell’estremo sacrificio, del quale aticavo ad avere coscienza.

    Durante uno di questi episodi, Xapatli era lì. Mi vide accerchiato, osservò il cambiamento che avveniva in me e trasalì nel constatare che un ragazzetto piccolo e ossuto potesse avere un tale fuoco che gli ardeva dentro, e una così spiccata, naturale capacità militare. Fu in quel momento che il maestro capì fino in fondo le parole di mia madre, ma gli ci vollero molti anni per capacitarsi di quello che aveva visto. Lo sgomento iniziale, per non essere lui l’oggetto di quel prezioso dono, lasciò presto il posto al pensiero razionale del maestro d’armi: doveva rendere grazie a Balac e avrebbe fatto di tutto perché quel dono non andasse sprecato. Misteriose e imperscrutabili sono le tue motivazioni e le tue scelte, Balac; io sono il tuo umile servitore e non mi sottrarrò al mio dovere. Colmerò le lacune di questo ragazzo e lo addestrerò a essere un valoroso soldato. Egli combatterà in nome tuo e del tuo popolo, e attraverso di lui la tua gloria non avrà fine.

    Aspetto la sera con una sensazione di benessere che cresce ora dopo ora. Sento la pace che si insinua nelle vene e mi riempie il cuore. L’unica cosa che mi interessa davvero oltre alla guerra è la preghiera. E la preghiera della sera con mia madre è il momento che attendo per tutto il giorno.

    Solo delle coperte grossolane dividono la zona della preghiera dal resto della casa, ma entrare in quell’angolo semibuio mi fa stare bene. Il forte odore di incenso, le piccole torce, le sculture dei nostri dèi e il religioso silenzio che vi impera lo rendono un luogo magico. Lì dentro il mondo non esiste; lo spirito si spoglia del corpo e l’energia della preghiera spinge le nostre anime a toccare livelli di consapevolezza inarrivabili. Un’esperienza metafisica che si ripete giorno dopo giorno a creare un legame indissolubile tra me e mia madre. È come se le nostre anime fossero state unite ma lontane per secoli e in quel luogo potessero finalmente ritrovarsi.

    Fu così che imparai a riconoscere la voce di Balac, e solo lì riuscivo a parlare con lui, a interrogarlo sul mio futuro e a vedere parte della gloria e degli inferi che avrebbe costellato la mia strana vita terrena.

    Era passato un anno dal mio arrivo a scuola, ma a me era sembrata una vita. Avevo combattuto sotto la pioggia battente, sorpreso i primi germogli primaverili, passato ore sotto il sole cocente ad allenarmi. Mi alzavo sempre prima dell’alba per guardare il sole sorgere. Mi mettevo lì, in mezzo al prato, con la rugiada che mi bagnava i piedi, a osservare la luce speciale che hanno le cose di prima mattina. Respiravo a pieni polmoni e cominciavo con gli esercizi, carico di energia.

    Sorgevano soli, pioveva il cielo, viaggiavano le stelle… e io ero lì, sempre lì, a prepararmi per la mia vita adulta.

    Una mattina come tutte le altre, il maestro Xapatli apparve dal nulla, e si mise a sedere vicino a me. Stavamo in silenzio mentre quell’enorme palla dorata colorava il mondo col suo bagliore accecante. Ricordo ogni centimetro di quel sole, perché quella fu l’alba che vide la nascita e la consacrazione di Cha il guerriero.  

    Più volte Xapatli aprì la bocca per pronunciare il suo discorso; di sicuro se lo era preparato, ma finimmo col guardarci e basta, in modo talmente intenso che il senso del suo discorso mi attraversò completamente, facendomi capire che fosse giunta l’ora per me di lasciare per sempre quel luogo e agire sul serio.

    La vita mi reclamava, la guerra chiamava a gran voce il mio nome. Raccolsi le ginocchia al petto e le chiusi con le braccia, infilandoci la testa dentro il più possibile. Nel mio profondo, sapevo che mi sarebbe mancato quel bambino e volevo tenerlo con me ancora per qualche istante. Xapatli si alzò e se ne andò, io rimasi lì a sentire ogni momento della mia fanciullezza per l’ultima volta.

    Penso di essermi assopito, perché uno schiaffone mi riportò alla realtà; era Yacal che mi dava il buongiorno. Alzai la testa, lo guardai… e gli sorrisi. Lui si ritrasse quasi spaventato dalla mia reazione, alquanto inusuale. E mentre mi alzavo lentamente e mi sgranchivo le gambe, non mosse un muscolo. Rimase pietrificato anche quando mi allontanai, piano, a marcia indietro, inchinandomi a lui beffardo e sorridente.

    Dovevo partire per il campo insieme a qualche compagno e ad altre centinaia di ragazzi e uomini del mio popolo. Dovevo preparare il mio cavallo, pulirlo, controllarlo.

    Dovevo salutare mia madre che mi sarebbe mancata come l’aria che respiro. Per questo non lo feci. Entrai in casa mentre la sapevo alla fonte. Raccolsi qualche straccio, un po’ di viveri per il viaggio, presi il cavallo e galoppai più veloce che potevo, col terrore di incontrarla, di incrociare i suoi occhi e di cedere all’emozione. La vidi nella mia mente con quei suoi occhi profondi, dolcissimi e sereni; sentii il calore del suo abbraccio, il suono della sua voce rassicurante, la sua mano ruvida di lavoratrice accarezzarmi il viso. E gustai ancora per un po’ quel momento come un frutto dolce che si scioglie sul palato. Mi rimase in bocca, però, il retrogusto amaro di un addio che le diedi solo nella mia mente. Le lacrime non facevano in tempo a raggiungere le guance che subito il vento se le portava via. Per un istante pensai addirittura di tornare indietro, ma la meravigliosa sensazione del destino che mi aspettava mi distrasse e proseguii.

    Il campo di battaglia era un’altra cosa rispetto alle simulazioni di scuola. Lì il sangue, le urla, lo strazio, la ferocia, esistevano davvero. Lì avveniva una reale selezione naturale non solo tra chi viveva e chi no, ma tra chi riusciva a sostenere moralmente quella mattanza. Appena arrivato, manco a dirlo, il capo guerriero mi chiese se non avessi sbagliato strada. Ero il più piccolo per età e per fisico, come biasimarlo? Senza fiatare, gli consegnai la lettera che Xapatli aveva scritto. Mi raccomando, Cha, appena arrivi devi dare questa al capo Tutcal e aver cura che la legga fino in fondo. E così fece, ogni tanto distogliendo lo sguardo da quelle pagine fitte di parole per scrutarmi con aria dubbiosa.

    Non avevo intenzione di farmi intimorire da alcuno, per cui rimasi sull’attenti, fiero nel portamento e con gli occhi prepotentemente fissi su di lui. Questo di sicuro lo infastidì ma lo rincuorò, perché dopo avere posato la lettera a terra mi fece cenno di seguirlo e mi portò verso un’altra tenda. Questa, d’ora in avanti sarà la tua casa, Cha. O almeno, è un riparo dalle intemperie. Qui non esistono orari, ma pretendo disciplina e obbedienza anche nelle situazioni più estreme. Se perderai la calma, se litigherai con gli altri o se metterai in pericolo qualcuno di noi, ti rispedirò a casa e avrai chiuso.

    Noi. Quindi ero un intruso. Almeno per il momento.

    Non passò molto tempo prima che avessi l’occasione per farmi notare. Si trattò di un attacco a sorpresa degli stranieri a un villaggio poco distante: non era ancora l’alba che scattò l’allarme, e noi con lui.

    Ci vestimmo in fretta e furia, e armati partimmo coi nostri cavalli alla volta della battaglia.

    Mentre cavalcavo vidi l’alba, ricordai la scuola, la mia casa, mia madre; sentii un’energia insolita farsi largo in me e pervadermi, fino ad annientare la mia volontà. Era Balac. Per un momento mi vidi cavalcare dall’alto; stranamente la cosa non mi spaventava. La forza che sentivo mi rendeva tranquillo e sicuro di me. Nonostante il forte rumore dei cavalli al galoppo, udii da lontano le urla strazianti della gente, i colpi di pugnali l’uno contro l’altro, il crepitio del fuoco che bruciava centinaia di vite.

    Come aveva ordinato Tutcal, fermarono tutti i cavalli in una radura poco

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