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Opera 99 -L'autobus dei sogni
Opera 99 -L'autobus dei sogni
Opera 99 -L'autobus dei sogni
E-book158 pagine2 ore

Opera 99 -L'autobus dei sogni

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Info su questo ebook

Perché scegliere una figura così passiva e antagonista per questo romanzo in un tempo dove tutti cercano idoli e eroi invincibili? Antonio Madera, muratore e rapinatore in regime di semilibertà, quasi senza che ne faccesse alcuna resistenza, si lascia andare alla deriva, accettando di riprendere daccapo il ruolo del soggiogato a scapito di una sopravvivenza e di un amore travolgente che man mano lo trascineranno verso cedimenti da cui non avrà più modo di districarsi. Solo un protagonista di questo spessore è capace di innescare una forte reazione immediata che ciascuno di noi vorrebbe mettere in atto almeno una volta nella vita. Yousef Wakkas – Migrant Writer
LinguaItaliano
Data di uscita12 apr 2016
ISBN9788892602991
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    Anteprima del libro

    Opera 99 -L'autobus dei sogni - Yousef Wakkas

    casuali.

    - 1 -

    Era l’otto di aprile, due giorni dopo il mio ventisettesimo compleanno, ed ero lì da venti minuti, in attesa dell’autobus per andare in città. Prima di uscire, avevo fatto la barba e firmato il registro, mettendomi in fila davanti al Blocco Agenti. Particolari che potrebbero mostrarsi volubili, ma li riporto perché tali prassi io li facevo da cinque mesi circa, da quando il Tribunale di Sorveglianza di Milano, con un provvedimento firmato da un magistrato e due esperti, mi aveva ammesso al Regime di Semilibertà. Un termine composto, ibrido, quello della semilibertà, che ti fa sentire mezzo libero e mezzo recluso. Io lo ero, ed assieme a me, ce n’era una schiera di donne e uomini, quelli che stavano aspettando con me l’autobus. Alcuni di essi, erano seduti sulla panchina, sotto la tettoia della fermata velata di sambuche e robinie ed assediata di fitti arborei, mentre altri, noncuranti della pioggia primaverile, erano sparsi qua e là, salutavano i compagni che viaggiavano con auto e moto. Ci tenevano molto, tra una battuta e l’altra, a magnificare la propria squadra di calcio, cercare il sopravvento sugli altri. Le donne, gli scrutavano con incredulità, come se stessero domandando: ma questi uomini hanno qualcosa diverso del pallone in testa? Difatti, chi salutava una di loro con un pizzico di calore, veniva accolto con larghi sorrisi e qualche accenno di apprezzamento. Poi, scomparsa la sospensione, gli occhi colmi di supposizioni intime, si spostavano inesorabilmente sul campo di granoturco che s’estendeva dietro la tettoia dell’autobus, fino allo statale sud, dove ergevano accozzaglia di palazzi bianchi e gigantesse insegne pubblicitarie. I fari delle auto, visti da lontano, sembravano delle perline che si rotolavano speditamente sul nastro capillare dell’asfalto, riflettendo i raggi del sole con lampeggi fugaci.

    Come potete notare, io osservavo tutto con l’intensità e la curiosità di un bambino, e quando una cosa suscitava qualche interesse dentro di me, me ne indagavo in proprio quasi fino in fondo. E non di rado, mi rassegnavo, allora, mi rivolgevo ad un compagno, chiedendogli, come un turista smarrito, il perché di questa o l’altra cosa. A volte, impazientito, qualcuno mi rispondeva seccato: Ma che c... ne so io?!. Però, quando trovavo uno sguardo senza lampi di condanna, andavo oltre, ponendomi altre domande, serie o sciocche.

    Eri tu con la bicicletta a Vimercate?

    Cosa?!, esclamò lei, roteando gli occhi. Non era una risposta qualunque, ma piuttosto una reazione incantevole. Io dico con certezza che poche donne al mondo possono esclamare in quel modo, il che ti porta lontano, più lontano di ogni sentimento conosciuto. Elvira, quella che si diceva che avesse bruciato il marito, senza che m’accorgessi, accostò la sua faccia da strega al mio orecchio e bisbigliò:

    Lasciala perdere, non è fatta per te; quella ha litigato con Silvia per un rotolo di carta igienica!

    Se per questo, la compererò un furgone di carta igienica, colorate pure.

    Allora, tu non hai capito niente!, commentò, salendo con fatica il gradino dell’autobus. Era gelosa, me la confermò più tardi Rosalba, aggiungendo con tono sarcastico che lei era mangiatrice di uomini. Anzi, una che gli condannava al rogo.

    Quando salii sull’autobus, e qui devo precisare che non sapevo ancora il suo nome, lei era già seduta in fondo e, tenendo in una mano uno specchietto rotondo, stava passando con l’altra una spugnetta impregnata di cipria color carne sulle gote. Vedendomi fermo ad osservarla con aria esterrefatta, abbozzò un lieve sorriso, e con un gesto appena percepibile, m’invitò a sedermi accanto a lei. Io m’esitai. Poi, lei sollevò la testa un’altra volta, e fingendo di ravviarsi i capelli castani che li scendevano sulle spalle, mi ripeté lo stesso cenno, muovendosi appena le labbra carnose. Sbigottito, e con le gambe che mi tremavano, m’avviai verso di lei. L’autobus stava per girare la curva del semaforo per imboccare la statale.

    Siediti , disse, spostando la sua borsa aperta sul sedile opposto, dove giaceva una giacca di pelle. Aveva smesso di truccarsi, e mi stava fissando con i suoi occhi chiari. Lo sguardo era innocente, e tutti i lineamenti del viso ovale sembravano fatti apposta per incarnare la gioia. Ma guardandola attentamente, ci si accorgeva, non subito, un filo sottile di tristezza che scendeva dall’angolo sinistro dell’occhio fino al collo dolcemente increspato. La prospettiva di attaccare un discorso, era assai più facile di quanto speravo, sebbene di rado si lasciava sfiorare da un detenuto. Guardando intorno con intensità persistente, che pareva maggiore al suo reale proponimento, dava la sensazione di annotare, indagare, riassumere, ricapitolare, poi, con un’alzata rapida delle sopracciglia, fare il punto della situazione. Evidentemente, era provata da un’esperienza tormentosa che temeva di essersi ripetuta. Era colta, e non esitava a mostrarlo con sguardi altezzosi e gesti boriosi, non di meno, il suo accento, chiaro e nitido. A dire il vero, io me ne fregavo di tutto ciò che lei ostinava discretamente; sapevo che ero attratto solo dalla sua bellezza femminile, non intesa come lineamenti estetici, seppure ne avesse tutti gli occorrenti o quasi, ma da un incanto misterioso che mi aveva colpito fin dal primo momento. D’altronde, avevo intuito che era assai infelice, e probabilmente, era incasinata di brutto, ma non doveva la sua malinconia a nessuna di queste cose. Naturalmente, le mie erano soltanto supposizioni, e l’istante che posai su di lei lo sguardo, miravo appunto a soddisfare la mia curiosità, che spesso diventava assillante, insopportabile. Seppure mi sforzassi di tenere la calma, tuttavia qualcosa dentro di me, oltre alla curiosità, mi spingeva a conoscerla e parlare con lei a fondo. Ma di che cosa? Meglio che vada, sapevo parlare di calcio e del mio mestiere, due argomenti ben lontani dall’interesse di una donna.

    Era il limite che volevo oltrepassare, imposto e praticato come un rito sacro, un cerchio che la sera, si finiva con il punto di partenza: la cella, o meglio la branda, dal momento che eravamo in dieci, e non c’era proprio spazio per muoversi. L’unico spazio dove si poteva girare, riflettere, sonnecchiare e sognare, era appunto la branda. Lei, naturalmente, faceva lo stesso percorso, più ristretto del mio, come venni a sapere in seguito, giacché le era concesso di recente di svolgere attività lavorativa extramurali ai sensi dell’Articolo 21 dell’Ordinamento Penitenziario.

    Sei timido?, chiese ad un tratto, mentre cercava nella borsa la matita d’ombra.

    , risposi io, osservandola con lo stesso fascino di prima. Poi, aggiunsi con voce rotta dall’emozione:

    E’ molto bello

    Che cosa?

    Vedere una donna truccarsi

    Lei fece una risata sonora che la soffocò subito coprendosi la bocca con la mano e guardando intorno con circospezione. Alcuni detenuti avevano girato la testa, sgranando gli occhi addosso.

    Perché lo trovi bello?, chiese, inumidendo le labbra dipinti col rossetto.

    Non lo so. Da piccolo, quando mia madre si metteva a truccarsi, io mi sedevo sul letto e la guardavo attentamente come sto facendo adesso .

    Io mi chiamo Rosalba, e tu?.

    Rosalba! E’ un nome bellissimo. Io mi chiamo Antonio, dissi, fissando da vicino gli occhi chiari che brillavano come le stelle.

    E che lavoro fai, Antonio?

    Faccio il muratore. Ieri mi hanno rubato la moto.

    Dicendo così, mi stavo riempiendo i polmoni con l’effluvio della crema che applicava sulle mani affusolate. Una fragranza tenera di rosa che, a tratti, s’alternava con il suo profumo di moscato e sandalo.

    Peccato!, si lamentò con aria compassionale, difatti, io non ti avevo visto prima di adesso viaggiare con l’autobus

    Sì, è la mia prima volta.

    E adesso, cosa farai?.

    Niente. Ho denunciato il furto ai carabinieri. Poi, sono andato dal concessionario e ne ho ordinato una nuova, una Yamaha bellissima, come quella di Valentino Rossi. Ti piacciono le gare di moto?

    No, rispose Rosalba, quasi inorridita, io li trovo matti quelli che guidano con tale velocità. A me piace il tennis e la danza classica .

    La danza classica?

    Sì, tennis e danza classica. Entrambi li pratico da quando avevo sei anni. Sapessi che tortura stare fermi sulla punta dei piedi?

    E perché la praticavi, se non ti piaceva?, chiesi io, immaginandola mentre piangeva dal dolore.

    Adesso, mi piace. Ma all’epoca, era come andare nello scantinato, tra i topi.

    Smise di parlare per qualche istante. Poi, assumendo l’espressione di una bambina che atteggiava a piangere, soggiunse: un giorno, sedetti sul pavimento e incominciai a strillare: papà … mamma … venite a prendermi; non ce la faccio più :

    Quella era la prima volta in cui rivelava certa somiglianza con me, e ridendo insieme di quel gesto di ribellione infantile, sembravamo due bambini che andavano a scuola, e non un rapinatore ed una spacciatrice di droga. Anche questo lo seppi più tardi, sebbene, quando me lo rivelò, con una punta di fastidio, disse che lei era innocente. Non andò oltre, neanche quando fece un accenno sui suoi genitori. Non vedeva suo padre da quando aveva otto anni, disse di sfuggito. Poi, riprese a confermare la sua estraneità, in parte, di quel fatto che l’aveva portato in carcere, soffermandosi sempre sul punto di partenza che, manco a dirlo, l’aveva intrapreso col piede sbagliato. A dire il vero, non sapeva distinguere la farina dalla droga. Io la credetti: una creatura così graziosa, non poteva assolutamente appartenere all’ambiente malavitoso. Difatti, solo pochi minuti dopo, si mise a lamentarsi di una delle sue compagne di cella. Una certa Victoria che le faceva dei dispetti.

    Cambi cella, suggerì io.

    E come si fa?.

    La sua domanda mi sorprese: uno che ha fatto anche un mese di carcere, sa come si procede per cambiare cella.

    Fai una domandina , dissi io con tono scontato.

    E cosa dovrei scriverci?.

    Trovati una scusa .

    Tipo?.

    Che non stai bene … o qualcosa del genere … .

    E se vorrebbero sapere perché non sto bene?.

    Allora, spieghi all’ispettore il vero motivo della tua richiesta.

    No, obbiettò lei, fissandomi negli occhi, temo che mi creeranno dei problemi. Poi, potrebbero pensare che sia associale e quindi non meriterei l’Art.21. Sapessi quanta fatica ho fatto per ottenerlo. Ho pianto davanti al direttore, ed ero al punto di fare lo sciopero della fame ad oltranza! .

    E a questo punto, cosa vuoi fare?, io non me ne accorsi, ma si vede che lei aveva un occhio acuto.

    Sei preoccupato?, domandò esaminandomi attentamente. Io incominciai a balbettare.

    , dissi alla fine. Poi, feci un sospiro di sollievo, lieve, ma chiunque l’avrebbe sentito. Lei fece finta di niente.

    Farò una semplice domandina. Li dirò che avrò bisogno di cambiare cella, punto e basta, disse dopo un attimo di silenzio, contemplando i campi che susseguivano davanti a noi. Rimase in quella posizione per un minuto circa. Io mi sentivo come uno estraneo, un passeggero qualsiasi che gli era capitato di sedersi accanto ad una donna sconosciuta. E che donna poi! Una che ti lasciava senza fiato, o almeno era così per me.

    Prima di salire sull’autobus, avevo raccolto dalla panchina un dépliant pubblicitario. L’avevo aperto cercando di decifrare il suo contenuto. Il dépliant promoveva alcuni film recenti, ma due frasi scritti con caratteri dorati, erano proprio incomprensibili. Glielo mostrai.

    Qual è il significato di queste parole?. Chiesi io con la palese intenzione di dare un seguito alla nostra conversazione.

    Lei si voltò lentamente. Prima ne dette uno sguardo. Poi, prese il dépliant tra le mani.

    Quali parole?, chiese distratta.

    Questa e questa, risposi, indicandole con l’indice.

    Cine web … Cinepos …, le lesse ad alta voce, il significato è scritto qui sotto.

    Dove?, m’allungai il collo, toccandola con

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