Cercasi amore a tempo pieno
Di Zara Raheem
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Info su questo ebook
A base di amore, zucchero e cannella
I genitori di Leila Abid sono molto legati alla tradizione. Per loro è inaccettabile che la loro figlia, a quasi trent’anni, non sia ancora sposata con un bravo ragazzo. Ma Leila ha passato la vita a sognare un grande amore come quello dei suoi adorati film di Bollywood. Secondo lei la scintilla dovrebbe scattare prima del matrimonio, e non dopo! Il problema è che del colpo di fulmine ancora non si vede neanche l’ombra e l’insistenza dei suoi genitori comincia a renderla piuttosto nervosa. Possibile che il problema siano le sue aspettative troppo alte sull’amore? Forse è davvero arrivato il momento di guardarsi intorno. E così, stringe un patto con i suoi genitori: avrà tempo fino alla festa del loro anniversario di nozze, alla quale mancano tre mesi esatti, per innamorarsi. In caso contrario, accetterà un matrimonio combinato. In una corsa contro il tempo tra appuntamenti al buio, siti di incontri e speed date, Leila dovrà fare del suo meglio per trovare a tutti i costi “l’uomo giusto”.
Una commedia irresistibile in cui il lieto fine ha una data di scadenza
«Fate un favore a voi stessi: cancellate tutti i piani e cominciate la lettura. Una volta sfogliate le prime pagine è impossibile staccarsi.»
Cosmopolitan
«Una commedia romantica e intelligente che ironizza sui metodi vecchi e nuovi di cercare l’amore.»
Booklist
«Leila deve affrontare una serie di difficoltà e pressioni per trovare “l’uomo giusto”, ma soprattutto per scoprire cosa vuole davvero.»
The Washington Post
«Un delizioso punto di vista sulla vita di una giovane ragazza schiacciata dalle pressioni della famiglia. Non riuscirete a staccarvi!»
Susan Elizabeth Phillips
Zara Raheem
Ha un master in Drammaturgia e ha insegnato per otto anni inglese e scrittura creativa. Vive nel sud della California. Cercasi amore a tempo pieno è il suo primo libro.
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Anteprima del libro
Cercasi amore a tempo pieno - Zara Raheem
Spirito bollywoodiano
Da ragazzina, fantasticando sulla mia vita da ventenne, immaginavo di fare una professione entusiasmante come quella della prima ballerina di una prestigiosa compagnia di ballo newyorkese, di vivere in un favoloso attico con vista sulla città e di essere sposata con un misterioso musicista alto e moro, le cui bellissime canzoni d’amore fossero la colonna sonora interiore del mio cuore pulsante. Se mi avessero detto che, in realtà, i miei vent’anni sarebbero stati caratterizzati da una poco desiderabile carriera da insegnante d’inglese sottopagata, da una camera di modeste dimensioni nella casa di periferia dei miei genitori e da un senso di totale smarrimento in merito all’amore, probabilmente avrei firmato per la vita di qualcun altro.
Essendo cresciuta in una famiglia musulmana semitradizionalista, credevo ciecamente nell’amore. L’amore, dopotutto, aveva spinto Shah Jahan a costruire il Taj Mahal. L’amore era il filo conduttore di ogni ghazal o shayari in urdu che fosse mai stato scritto. L’amore era la ragione per cui mia madre si era lasciata alle spalle tutta la sua vita in India per ricominciare da zero con mio padre – un uomo che conosceva a malapena – in America. L’amore era l’unica forza che faceva girare il mondo; il motivo per cui le sialie cantavano e i fuochi d’artificio scoppiavano nel cielo caldo dell’estate. Non era semplicemente un’idea, era qualcosa di tangibile – che sentivo alla mia portata. Un concetto bizzarro che aleggiava nel lontano futuro, in ansiosa attesa di essere scoperto, come un regalo ancora incartato.
Gli anni passati ad analizzare minuziosamente le storie d’amore dei film bollywoodiani mi avevano fatto sviluppare sufficiente intuito per capire esattamente cosa cercare quando fosse finalmente arrivato il momento. Aspettavo impaziente di imbattermi per caso in un perfetto sconosciuto dai capelli incredibilmente belli, con il quale avrei potuto correre al rallentatore su un prato, mentre con grande pathos ci dichiaravamo tutto il nostro amore con metafore poetiche prive di senso e coreografie perfettamente sincronizzate – e numerosi e variopinti cambi d’abito. Nella mia testa, questo era quello che doveva succedere. Incontri un tipo, te ne innamori (nel modo appena descritto), ti sposi, e vivi felice e contento per sempre. Sfortunatamente, il copione scritto per la mia vita non era così prevedibile come speravo. Non c’erano prati nei dintorni di Los Angeles, e la mancanza di coordinazione limitava le mie capacità di ballo alle mosse del robot e della ragazza sbronza. Gli unici incontri casuali erano quelli con le zie ficcanaso sudasiatiche che mi interrogavano sulla mia situazione sentimentale. Alla fine, dopo ventidue anni deliranti e una breve ma illuminante conversazione con la mia compagna di stanza al college, ero stata temporaneamente strappata alle mie fantasie bollywoodiane e riportata alla dura realtà.
«E se tu fossi una di quelle persone incapaci di innamorarsi?», disse Annie, accomodandosi sulla sedia e sorseggiando il caffè.
«No di certo». Mi schermii, inorridita all’idea. «Come cavolo ti viene in mente che io possa essere una di quelle persone, Annie?».
«Perché hai sempre respinto qualsiasi tipo interessante ti sia capitato di conoscere e ti rifiuti di frequentare qualcuno per più di due settimane. Sul serio, Leila, nel nostro frigo ci sono viveri con una data di scadenza più lunga della maggior parte delle tue relazioni».
«Questo… non è vero». Rimasi completamente spiazzata dalla lampante verità di quelle parole; una consapevolezza che in quel particolare momento non ero ancora pronta ad accettare. E se fossi stata una frequentatrice seriale
di ragazzi e non una da storie a lungo termine
? Prima di partire per il college, ero una da non ti è concesso frequentare ragazzi
. Ero musulmana. I miei genitori tradizionalisti avevano fatto in modo che tutto il tempo libero che avevo fosse dedicato ai compiti dei corsi pre-universitari, alle attività per la comunità e al tennis. Annie era stata un pochino ingiusta, considerato che il concetto di frequentazione maschile per me era ancora piuttosto nuovo in confronto ai miei coetanei non musulmani.
«Bene». Annie sollevò un sopracciglio con fare accusatorio. «Allora ricordami l’ultima volta che hai avuto una relazione lunga».
Tentennai, fermandomi a pensare per un momento. «Questo non c’entra niente», dissi sprezzante, non essendomi venuto in mente nient’altro da dire. «Per di più, non cerco semplicemente un tipo carino», affermai risoluta. «Cerco quello giusto».
«Quello giusto?»
«Sì, quello giusto. E non ho bisogno di sprecare il mio tempo con una storia lunga quando è abbastanza chiaro che non ho ancora trovato ciò che sto cercando».
«Va bene, Leila», disse Annie, alzando le spalle. «Allora dimmi, cos’è che ti farebbe dire di aver trovato il ragazzo giusto? Facciamo una lista».
«Una lista?». Feci una mezza risata. «Non devo mica fare la spesa, Annie», dissi, tirandomi indietro con le braccia incrociate. Il suo interrogatorio sulla mia vita sentimentale mi stava irritando.
La mia decisione di frequentare il college fuori Los Angeles – lontana dai miei genitori – mi aveva concesso quattro anni di libertà illimitata nel frequentare i ragazzi, senza dover sopportare direttamente gli effetti collaterali della paura, della colpa, o del rischio di ricoprire di vergogna la mia famiglia. Tuttavia, le mie speranze di vivere un’autentica storia d’amore in stile Bollywood si erano infrante quando, ancora matricola, mi ero resa conto che, a parte me, non c’erano molti altri musulmani desi – cioè provenienti dal subcontinente indiano – nella mia piccola facoltà di Scienze umanistiche. Persino il gruppo dell’Associazione Studenti Musulmani del campus era più che altro un circolo formato da cinque zelanti ragazzi barbuti che sembravano più interessati a organizzare proteste e collette alimentari che a parlare con il sesso opposto. Così, nonostante avessi avuto un sacco di opportunità di incontrare tipi interessanti
nei pochi anni successivi, le mie frequentazioni si erano principalmente limitate a ragazzi non desi, che – con mio sommo dispiacere – erano molto meno allettanti dei torridi film che mi ero fatta in testa.
Persino il ricordo del mio primo vero appuntamento mi riempiva d’imbarazzo. Ero al secondo anno e Chad Edelstein, del corso di Teoria letteraria, mi aveva chiesto di uscire. Il nostro primo – e unico – appuntamento romantico era finito con lui sulla soglia della mia stanza in procinto di baciarmi e io che timida ma seducente giravo lo sguardo per fissare una telecamera inesistente, facendolo limonare con il mio lobo destro per dieci secondi buoni. Con il tempo ero migliorata in questo tipo di interazioni, anche se ogni volta che mi veniva presentato un ragazzo biondo con gli occhi azzurri e la voce flebile, stranamente simile a quella di mia madre, mi scattava in testa il suono di un allarme antincendio rotto – a ricordarmi costantemente che stavo venendo meno alla mia cultura, e, in qualche modo, fondamentalmente, anche a me stessa.
Mi ero sforzata al massimo per ignorare quella vocina, ma alla fine, nonostante i miei sforzi, non riuscivo a immaginare di correre su un prato con nessuno dei ragazzi non desi che mi circondavano – non aveva importanza quanto fossero belli i loro capelli. Per quanto odiassi ammetterlo, anche io, nel mio subconscio, avevo immaginato il mio futuro assieme a qualcuno di più simile a me – un americano di origine sudasiatica, che condividesse la mia passione per le storie d’amore bollywoodiane. E che, inoltre, fosse musulmano – o almeno disposto a convertirsi all’Islam come dimostrazione del suo eterno amore per me. Stare con qualcuno che non solo capisse la mia cultura, ma che l’avesse vissuta al mio stesso modo, avrebbe senz’altro avuto i suoi vantaggi. Non sarebbe stato necessario spiegare il perché mia madre mi chiamasse cinque volte al giorno solo per ricordarmi di mangiare, o il perché, due volte a settimana, non potessi uscire per via degli impacchi di olio di Amla ai capelli. In più, non valeva la pena litigare con i miei genitori per quei ragazzi.
Per questi motivi chiudevo le relazioni ancora prima che iniziassero. Fingevo che l’amore fosse solo un costrutto sociale che non esisteva al di fuori della finzione cinematografica. Mi ero convinta che i miei sentimenti fossero un inevitabile effetto collaterale di tutti i film di Bollywood che avevo visto quando ero una ragazzina suggestionabile, ma la verità era che volevo sperimentare l’amore. Semplicemente non avevo ancora trovato qualcuno che rispecchiasse l’immagine del galante eroe bollywoodiano, capace di rapire il mio cuore fin dal primo movimento pelvico.
«Senti, Annie». Sospirai. «Quando incontrerò quello giusto, lo capirò e basta. Non c’è bisogno di una lista per sapere cosa voglio».
«Sono certa che tu sappia cosa vuoi, Leila», rispose Annie con un accenno di frustrazione nella voce. «La lista serve solo per farti concentrare sulle qualità che sono importanti, e su quelle poche per le quali dovrai… trovare un compromesso», continuò con un’espressione così seria che non riuscii a trattenere un sorriso.
«Va bene», dissi con voce lamentosa. «Facciamo questa lista. Ma giusto perché tu lo sappia, tutte le qualità che cerco sono importanti, pertanto non c’è bisogno di alcun compromesso». Afferrai un tovagliolo dal tavolo.
Per l’ora seguente, o poco più, snocciolai ogni caratteristica impersonata dagli attori di Bollywood per cui mi ero presa una cotta, mentre Annie cercava freneticamente di annotarle tutte. Volevo qualcuno che avesse: 4) l’umorismo di Govinda, 17) i modi affascinanti di Shah Rukh Khan, 23) i muscoli di Salman Khan, 38) la sensibilità di Akshaye Khanna. Quando Annie scrisse l’ultima qualità – 46) sexy – sul settimo tovagliolo, iniziai a rendermi conto del perché pensava che avessi bisogno di ridimensionare la mia visione dell’amore… giusto un pochino. A ogni modo, l’idea di rinunciare a una delle qualità elencate mi faceva sentire come se stessi ingannando me stessa nella ricerca di quello giusto
. Così scacciai velocemente il pensiero. Del resto, stavamo parlando della persona con cui avrei dovuto passare il resto della mia vita. Perciò cosa c’era di strano in una lista di quarantasei punti? Perché mi dovevo accontentare di qualcosa di meno della mia idea di perfezione?
Uscendo dalla caffetteria quel pomeriggio, Annie mi porse l’identikit di Quello Giusto in sette tovaglioli e mi lasciò con il suo ultimo consiglio: «Leila, avere delle aspettative è positivo. Non c’è nulla di sbagliato. Voglio solo dire che la vita non è un film e non tutti vivono quel momento che tu aspetti tanto disperatamente. Più ti aggrappi a questo concetto di perfezione, più ti sentirai delusa quando non la troverai».
Mentre all’epoca avevo ignorato le probabilità che la sua previsione fosse corretta, guardandomi indietro a distanza di quattro anni, mi resi conto che Annie – la mia compagna di stanza fastidiosamente saggia e astuta – dopotutto poteva avere ragione.
Stabiliamo questo
Dopo il college, ero tornata a vivere dai miei, avevo trovato un lavoretto part-time come insegnante, e ripreso la vecchia abitudine degli appuntamenti al buio – ma con molta più discrezione, dal momento che mamma e papà non erano ancora troppo entusiasti all’idea delle uscite senza impegno tanto per conoscersi a vicenda
. La scusa di uscire con le amiche
incontrava sempre la loro silenziosa disapprovazione. Semplicemente, i miei genitori non riuscivano a comprendere quale altro scopo ci potesse essere nell’uscire con qualcuno se non quello di sposarsi. Non riuscivano neanche a concepire come un amico
considerato decente potesse scegliere di passare a prendere la loro figlia con una macchina diversa da una Toyota Camry.
«Quelle sono davvero le auto più affidabili», avrebbe casualmente commentato mia madre a colazione, la mattina successiva al mio appuntamento serale. «Dovresti informare il tuo amico».
Nonostante i miei genitori fingessero, e anche male, di non sapere, apprezzavo lo sforzo che facevano per tenersi fuori dalla mia vita sentimentale. Io, in cambio, ne facevo uno maggiore per uscire con più ragazzi sudasiatici, non soltanto per rimediare a una passata caccia esclusivamente non desi, ma anche perché nutrivo ancora la speranza di trovare il mio perfetto eroe bollywoodiano. Pensavo che, non avendolo trovato al college, adesso fosse arrivata la mia occasione. Anche se la mia situazione familiare aggiungeva un’ulteriore difficoltà alla ricerca.
Sebbene la mia ricerca dell’amore fosse costante, purtroppo non andava liscia come mi ero aspettata all’inizio. Avevo la sensazione che più inseguivo l’amore, più ne avevo un’immagine confusa. Così, dopo un paio d’anni di innumerevoli fallimenti e fazzoletti sprecati, alla fine avevo accettato il mio destino di persona incapace di innamorarsi
e deciso di arrendermi, consapevolmente, a una vita da single. I miei piani, tuttavia, erano mutati in fretta la sera del mio ventiseiesimo compleanno, quando i miei genitori mi avevano informata tutti entusiasti del loro piano di combinarmi un matrimonio durante la cena di festeggiamento a casa. Non era esattamente ciò che avevo sperato quando avevo soffiato sulle candeline della torta.
Nonostante l’idea che i miei volessero combinarmi un matrimonio possa sembrare assurda, avevo origliato tante di quelle conversazioni in moschea e alle riunioni della comunità da sapere che si trattava di un argomento di discussione piuttosto comune nelle famiglie americane di religione musulmana come la mia. Nella cultura sudasiatica tradizionale il matrimonio era considerato il momento culminante nella vita di una persona. La maggior parte dei genitori indiani lo equiparava alla felicità. Il matrimonio era il fine ultimo. Una volta raggiunto tale fine, non solo avresti conseguito la felicità, ma anche completato la prima parte dei tuoi doveri filiali in quanto progenie indiana. (La seconda parte veniva completata con esito positivo una volta messo al mondo un nipote).
Inconsciamente, ero sempre stata consapevole dell’importanza del matrimonio nella mia cultura, anche se nessuno dei miei genitori lo aveva mai espressamente specificato. Persino da bambina, avevo il vago sentore che tutte quelle ore passate in cucina con mia madre avessero uno scopo più grande rispetto al semplice imparare l’arte di cucinare. Guardandomi indietro adesso, era ovvio che mia madre mi stava insegnando a diventare una brava
moglie, cosicché un giorno potessi onorare la mia famiglia preparando un perfetto biryani ben condito e delle chapati rotondissime per il mio futuro marito. Allo stesso modo, se fossi stata un maschio, mi avrebbero insegnato presto a essere bravo a scuola e a prepararmi per l’iscrizione in un college di tutto rispetto (niente arti liberali) cosicché potessi studiare Medicina o Ingegneria e diventare un partito più appetibile.
I segnali c’erano tutti, perciò forse i progetti dei miei per il mio futuro non avrebbero dovuto sorprendermi. L’unico problema era che non avevo mai considerato la possibilità – almeno, non prima di quel preciso momento – che i miei genitori fossero dei tradizionalisti così devoti. Erano cresciuti in India ed erano entrambi musulmani praticanti, ma nonostante il loro essere religiosamente conservatori, avevano fatto grandi sforzi per assimilare la cultura americana, quando erano emigrati, quasi trent’anni prima.
Da che avevo ricordo, avevo sempre visto mia madre indossare tacchi alti, guardare La ruota della fortuna e vantarsi della sua cucina internazionale
. Mio padre era un fan dei Dodger. Per quel che ne sapevo, io ero americana. O meglio, americana come il latte chai tea di Starbucks. Avevano persino acconsentito a lasciarmi andare via per frequentare il college e negli anni avevano fatto un lavoro encomiabile nel fingere di non sapere di tutti i Chad Edelstein e degli appuntamenti senza la Toyota Camry. All’inizio avevo pensato che la loro proposta fosse uno scherzo. Ma quando, durante il dessert, vidi mia madre tirare fuori una organizzatissima cartella di schede anagrafiche
– una raccolta di curricula contenenti nomi, date di nascita, informazioni sulla famiglia, e professioni di tutti i potenziali mariti musulmani sudasiatici residenti nell’intera area metropolitana di Los Angeles – all’improvviso mi resi conto che non era uno scherzo.
«Come le hai ottenute, tutte queste informazioni?», le chiesi incredula mentre la guardavo sfilare dalla cartella nera una pila di fogli di candidature
alta due centimetri.
«Oh, che importanza ha?», disse con la massima naturalezza, senza dare peso alla mia domanda. «Adesso che hai ventisei anni, beti, è tempo di pensare al nostro futuro». Mi si sedette accanto. «Ricorda, Leila, con il matrimonio sei a metà del tuo deen».
Mi ritrassi. Non era la prima volta che lo sentivo dire. Qualunque musulmano è cresciuto sentendo una versione di quel detto: Il matrimonio è l’altra metà della tua religione
, oppure Il matrimonio ti completa
, o ancora La vita non inizia davvero finché non ti sposi
. A ogni anno che passava, certe frasi ti venivano rifilate con più frequenza; spesso venivano usate come tattica per farti sentire in colpa dai genitori musulmani che volevano ricordare ai propri figli le loro priorità.
«Qua ci sono solo alcuni rishta che pensiamo possano fare al caso tuo». Mia madre puntò il dito su una lista di nomi evidenziati con tre diversi colori – probabilmente organizzati in ordine di compatibilità. La palese eccitazione nella sua voce era pari all’estremo terrore che pian piano mi assaliva.
«Leila, ricordi i Dhakkar, giusto? Bene», proseguì prima che io potessi risponderle, «dei loro cari amici, i Rehman, hanno un figlio che ha all’incirca la tua età. Non è fantastico?», squittì, come se fosse la notizia più esplosiva da quando esisteva Jadootv. «Sta terminando l’ultimo anno di internato al County General, e tuo padre e io pensavamo di invitarli a cena». All’improvviso mi resi conto di dove voleva andare a parare, e la cosa non mi piaceva neanche un po’. «Che ne dici, Leila?».
Mentre mi scrutava la faccia in cerca di una risposta, mi voltai verso mio padre nella speranza che la sua innata sensibilità si manifestasse in quel preciso istante e giocasse a mio vantaggio. «Abba», dissi. «Ti prego, dimmi che non state cercando di combinarmi un appuntamento al buio?»
«Certo che no, beti», disse tranquillo, e tirai un sospiro di sollievo. «Non ti costringeremmo mai a un appuntamento al buio. Guarda, non vedi che qua c’è una sua foto?». Voltò pagina e indicò una foto 5x8 della sua faccia, attaccata in fondo al foglio con la pinzatrice.
Sapevo che era il momento di dileguarmi. Mi scusai mentre mia madre continuava a tirare fuori dalla cartellina alternative tra le quali avrei potuto scegliere «se il figlio dei Rehman non fosse il tuo tipo». Mentre mi avviavo in camera – nella più totale confusione e incredulità per ciò che era appena successo – non riuscivo a fare a meno di pensare che i miei genitori fossero usciti di testa. Sì, negli anni li avevo sentiti conversare con altri zii della comunità, i quali avevano combinato il matrimonio dei propri figli, ma mai prima di allora avevano tirato fuori l’argomento con me. Avevo semplicemente dedotto che la considerassero una pratica ormai obsoleta.
E se era vero che la mia fiducia nell’amore, negli anni, in qualche modo aveva subito degli alti e bassi, non era ancora arrivato il momento di rinunciare alle fantasie a lungo coltivate di una storia bollywoodiana e acconsentire a un matrimonio combinato. Inoltre, ero davvero contenta di essere single.
C’era forse una parte di me che nutriva, come loro, la speranza di sposarsi, un giorno o l’altro? Di sicuro, ma dovevo arrivarci in un modo che non implicasse i miei genitori o la loro ridicola cartellina di pretendenti classificati per colore. Chi poteva dirlo, se nella vita avrei conosciuto o meno l’amore? Ma la mera possibilità che questo potesse accadere era sufficiente a convincermi di rifiutare l’offerta dei miei. E una volta giunta a tale conclusione, sapevo che non ci sarebbe stato niente che potessero dire o fare per farmi cambiare idea.
Mai dire mai
Le settimane successive alla decisione che avevo preso furono a dir poco pesanti. I miei genitori – in particolare mia madre – non l’avevano presa bene, e lei aveva fatto in modo di farmi sentire tutta la gravità del suo disappunto.
«Ammi, mi passeresti lo zucchero?», le chiesi una mattina a colazione, versandomi una tazza di chai.
Mia madre spinse il vasetto di zucchero verso di me, rifiutandosi di guardarmi negli occhi.
«Oggi le uova sono così cremose», dissi entusiasta, mangiandone un bel boccone. Era un tentativo inutile, ma sapevo quanto le facessero piacere i complimenti.
Silenzio.
Mio padre si schiarì la voce, guardando sconcertato me e a mia madre. «Vero, jaan, le uova sono gustosissime».
«Grazie». Mia madre si voltò verso di lui, sorridendogli dolcemente. «È bello sapere che qualcuno apprezza quello che faccio».
«Veramente sono stata io a dire che le uova erano cremose», replicai, alzando la mano.
Mia madre alzò gli occhi al cielo e scodellò altre uova nel piatto di mio padre.
«Pensavo di uscire con un amico stasera. Va bene?».
Di nuovo silenzio.
Guardai mio padre. Lui alzò le spalle, impotente.
«Quindi hai intenzione di non parlarmi mai più?», sbottai alla fine. Mia madre mi guardò, la bocca leggermente aperta.
«Jaan», disse alla fine, la voce bassa ma decisa. «Puoi dire per favore a tua figlia che, dal momento che non vuole rivalutare la nostra offerta, io non ho niente da dirle?».
Stavolta alzai io gli occhi al cielo. Mia madre poteva cercare di farmi sentire in colpa quanto voleva; io avevo preso la mia decisione. Non avevo intenzione di rivalutarla. Anzi, ero assolutamente convinta della mia scelta… o almeno così pensavo.
Cercai di ignorare il mutismo di mia madre, ma, nel giro di un mese, iniziai improvvisamente a scorgere ovunque segnali d’amore e matrimonio. Che si trattasse di un adesivo sul paraurti di una macchina con su scritto la felicità è nel matrimonio, o dello sconto coppiette alla trattoria locale, o della riprovevole e incessante sfida Ama il tuo partner
sulla home di un social network, era come se mia madre avesse convinto l’universo intero a cospirare contro di me. Era come se avessero unito i propri poteri e si fossero alleati per mettere un nazr alla mia nuova me indipendente. Come potevo combattere contro due forze così potenti? E come se non bastasse, quando alla mensa della scuola un sedicenne infestato dall’acne si rivolse accidentalmente a me con l’appellativo signora
, alla fine decisi