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A noi non accadrà. Un marinaio nella Seconda Guerra Mondiale
A noi non accadrà. Un marinaio nella Seconda Guerra Mondiale
A noi non accadrà. Un marinaio nella Seconda Guerra Mondiale
E-book255 pagine3 ore

A noi non accadrà. Un marinaio nella Seconda Guerra Mondiale

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Info su questo ebook

Per ogni generazione, solo coloro che si presentano come inattuali possono forse far vivere una possibilità di creare il mutamento. Si tratta di uomini che sono "fuori dal mondo", incompresi ai più, che, invece, sono fin troppo dentro al mondo. Può accedere che gli inattuali rimangano ignoti persino a sè stessi, ma essi riescono a trasmettere ugualmente la forza del dissenso a coloro che debbono venire. È questa la chiave del racconto della vita di un marinaio, che si cambiò anche il nome, per indurre a capire ciò che viene celato. Un marinaio che affondò con lo "Zara" a Capo Matapan, finì prigioniero dei greci, liberato tornò in Italia e fece poi parte delle unità militari marittime della Regia Marina del Regno del Sud. Assistette al bombardamento tedesco di Bari e alla tragedia del trasporto statunitense della "John Harvey" carica di bombe all'iprite. Poi il trasferimento a Livorno, la liberazione della sua Barga e la fine della guerra.
LinguaItaliano
Data di uscita24 ott 2019
ISBN9788832281057
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    Anteprima del libro

    A noi non accadrà. Un marinaio nella Seconda Guerra Mondiale - Mario Zeppolini e Romano Zipolini

    057

    Cartiglio

    Quel giorno, erano in migliaia, con le loro grida nervose

    ed il battimani ritmato, a sovrastare Jimi Hendrix.

    Invocavano sul palco i Monkees.

    (8 luglio 1967, Jacksonville – Florida)

    Tutto è meglio della pura verità

    (Pierre Sebor 6.1.1986)

    Un autore a chi legge

    Ho l'età, oggi, che aveva mio padre

    quando lo giudicavo troppo vecchio,

    anche solo per capire.

    Ci stavo pensando, quando ho visto alla TV

    giovani che ballavano lo shake.

    Lontani, incomprensibili

    e un pò ridicoli.

    Come mi apparivano allora

    - quando sognavo di essere appena più grande

    per poter ballare anch'io in quel modo nuovo e scatenato -

    il foxtrot, che mio padre adorava,

    e le danze coreografiche di Tangolita.

    E’ a quel punto che ho provato l'insano impulso

    di confondere i fratelli minori del mio sessantotto

    con gli idoli di mio padre,

    che dettero vita e morte alla Reggenza del Carnaro.

    E così ho aperto il suo diario,

    che aveva raccomandato solo a me

    di leggere.

    I. La figlia del Podestà

    Ecco la littorina, la macchina futurista. Finalmente, via! Via da questa gente, che vuol decidere la mia vita e che, non si sa com'è, comanda. Proprio qui, nel più bel paese del mondo, nella mia Barga. Provo un certo fastidio a lasciarlo, in questo modo, il mio paese: "Addio monti … elevati al cielo, cime ineguali".

    Il fidato Ottone è con me. Dopo che siamo stati traditi, lo abbiamo giurato: insieme, fino in capo al mondo, fino alla morte. Quando abbiamo scalato il muro del Conservatorio delle suore e siamo saliti, aggrappandoci alla gronda, fin sul terrazzino della stanza della figlia del Podestà e delle sue compagne, non abbiamo certo pensato alle conseguenze. E loro, che ci avevano invitato, erano lì, con i volti pitturati da donne, le labbra rosse, gli occhi scuri come la notte. Ammiccanti. Per un momento, ho avuto anche la sgradevole impressione che replicassero cose già fatte altre volte e che ci volessero insegnare il da farsi. Poi, quelle calze di seta, quel concedersi facile, mi hanno fatto girare la testa. L'iniziazione è stata davvero allettante. Non proprio la prima, almeno per me, ma è stata la più importante.

    La domenica, alla fine della funzione, la figlia del Podestà - la più disinvolta, la più sofisticata e la più ricca - si era avvicinata e mi aveva sfidato a portare due amici: "Ti aspettiamo a mezzanotte, porta i tuoi amici" aveva sussurrato, ma perentoriamente, come le si addice. Mi sono sentito identico ad un moschettiere del re. E come i moschettieri dovevamo essere proprio in tre, perché anche loro erano in tre, ed io avrei potuto conquistare la più bella, la più sfrontata, la irraggiungibile, solo se le compagne di stanza fossero divenute sue complici.

    Chissà se mi sarei mai vergognato di quello che ormai avevo fatto. Certo, la stavo pagando cara. Per ora sapevo che, se avessi potuto scegliere, lo avrei rifatto mille e mille volte ancora, perché nessuno potrà mai permettersi di dire che un moschettiere non ha coraggio.

    Non so chi delle tre aveva parlato o si era fatta scoprire dalle suore. È ovvio che io e Ottone, interrogati dal Podestà in persona, non avevamo ceduto di un passo. Non così quello smidollato di Corrado, che ancora non so spiegarmi perché ce lo siamo portato dietro. Lui aveva frignato ed aveva parlato: traditore!

    Ed ora via dal paese, volontari in marina. Perché non c'è più presente, né futuro, per noi in paese; e perché, forse, non aspettavamo altro, da quando avevo letto delle scuole di Pola su quel giornale lasciato nel negozio di barbiere, dove ero apprendista. Poi ne avevo parlato ad Ottone. Oddio, parlato non è forse l'espressione giusta: Non mi soccannare più, mi aveva detto lui, prendiamo e andiamo, basta che tu la faccia finita. Io non ci ho nessuna Baby che si strappa i capelli se me ne vado. Poi aveva aggiunto: Chissà se in Istria c'è il vino buono.

    E questo era stato il sigillo finale di tutti i discorsi.

    Baby, il mio primo amore, che credevo unico. C'eravamo giurati eterna fedeltà. Una sera in cui la luna risplendeva sulla sua chioma bionda, mi aveva preso per mano e mi aveva condotto all'interno dei vialetti cupi del cimitero: davanti alla tomba della sua cara sorella aveva voluto formulare la sua promessa imperitura e solenne. Ero stato preso da una inaspettata agitazione per quella scenografia, che aveva scelto, tanto lontana dalla visione del sereno auspicio che mi ero immaginato. Forse, pensai, è così che si usa nei lontani lidi scozzesi, dai quali proviene Baby; ma io mi sentivo ispirato dall'oro solare degli astri notturni e dei suoi capelli, non certo dai loculi cupi, circondati dai cipressi. L'abbinamento amore e morte, che avevo letto nelle poesie, mi era estraneo, ma non era privo di attrazione. Per essere all'altezza della situazione e per amore sincero, la strinsi a me e le dissi: Mai ti lascerò e, se sarai tu a farlo, me ne andrò per mare, lontano da qui, senza mai più tornare. Mi sembrò sufficientemente romantico, ma giammai avrei pensato che si sarebbe trattato di un impegno premonitore, che avrei dovuto rispettare.

    Dopo un anno di incontri segreti, in un'altra sera, non meno stellata, Baby mi chiese di non incontrarci più, perché suo padre aveva per lei diversi programmi. C'era un altro, che l'avrebbe presto sposata. Volle precisare che, se ci fossimo incontrati per strada, non avrei dovuto neppure salutarla: l'altro era molto geloso. Ci saluteremo con gli occhi mi disse. Così ci lasciammo.

    Pochi giorni dopo le feci avere, ricopiata a mano, la più famosa poesia di Lorenzo Stecchetti, che speravo le avrebbe ricordato il lugubre effetto delle sue promesse, soppresse per sempre da quella sua pietra tombale. Ma questo non bastò certo, né a vendicarmi, né a dimenticarla.

    Devo però dirla tutta. Ci sono state anche altre ragioni, oltre all'impresa notturna, che non testimoniano a mio favore. Io sono figlio del fornaio, povero e socialista. Socialista, si intende, non come Mussolini: Socialista come Lenin dice mio padre quando ha bevuto.

    Il socialista Mussolini. Forse c'entra anche lui nella mia storia, se si risale a quella volta che avevo rifiutato di suonare la cornetta nella banda di fronte al Duce e, reagendo alle grida del capo della Consulta municipale, avevo riconsegnato le medaglie di atletica, che il gruppo da me guidato aveva vinto ai giochi di Firenze. Che ne sapevano loro. Mi sarebbe anche piaciuto suonare la tromba il giorno che dirottarono il Duce a Barga e lui la fece città. Ma non potevo suonare la tromba jazz assieme ai tamburi della banda. Non ce l'avevo con Mussolini, non sono antico come mio padre. Ce l'avevo con quei pancioni ossequiosi e viscidi della Consulta, che non capiscono niente della musica di oggi e che sono capaci di genuflettersi, allo stesso modo, davanti al Duce e davanti al Vescovo. Li ho anche visti, tutti assieme, in processione con i Carabinieri e il Monsignore, con i larghi mantelli delle grandi occasioni. Hanno salito le scale del Duomo, dietro a Mussolini, tra ali di folla accorsa da tutte le parti e con tutti i tipi di devoti. Nei loro occhi avevo già visto allora la promessa che me l'avrebbero fatta pagare.

    Oggi, quindi, non restava che andarsene. Ed allora, senza pensarci due volte, mi sono presentato dall'unica persona che poteva aiutarmi. Dovete trovarvi a La Spezia il giorno 16 aprile aveva detto, la seconda volta, la Contessa Del Russo, senza sapere che quello era il giorno del mio compleanno e che anche la data mi sembrò un chiaro segno vincente del destino. Tutti sapevano che la Contessa nutriva un amore speciale per i militari ed era intima - così si diceva - di più di un ufficiale, tra cui qualcuno molto, ma molto importante: Il Comandante M. mi ha assicurato che c'è sempre posto in Marina per giovani arditi come voi. Presentatevi a suo nome. Poi mi aveva guardato in viso, come se fossi suo figlio, anche se non proprio come un figlio: Quelle pagliuzze d'oro che hai negli occhi l'hanno combinata grossa, ma ora ti attende l'Italia e sarà questa, d'ora in avanti, la tua innamorata.

    Parole indimenticabili. La sera mi ero guardato allo specchio. Nessuno mi aveva mai detto prima una cosa così speciale, tanto meno una donna. Nel mio piccolo mondo, la Contessa era la donna più raffinata che si potesse immaginare e quelle sue parole mi erano apparse come il lasciapassare per il cuore di tutte le donne. Mi facevano credere che avevo davvero qualche cosa di particolare e che il futuro era ancora tutto mio.

    Quindi, è accaduto che io e Ottone siamo partiti, con la littorina e un giorno prima, non si sa mai. La Spezia è lontana, tanto lontana come io e Ottone non siamo mai stati. Tante ore di treno, ma anche questo viaggio è presto finito.

    All'Arsenale ci hanno deriso: Tornate domattina alle sette. Da domani siete arruolati. Godetevi l'ultimo giorno di libertà.

    Povero piantone, non sa che per noi la libertà comincia proprio domani ho detto rivolgendomi a Ottone.

    Speriamo di non dovercene pentire mi ha risposto con il suo solito buon senso.

    La sera ci siamo separati: lui in trattoria a far bisboccia con altre reclute; io no, no davvero. Io avevo visto un manifesto incredibile: "Ballo al Savoy", musiche del magiaro Paul Abraham. Una moderna operetta appena al debutto in Italia, ma, come avevo letto su di una rivista, già famosa all'estero. Avevo pochi soldi, ma chi se lo faceva scappare quell'ulteriore segno del destino. E destino è stato, perché nessun segno del destino è mai stato determinante e stupefacente come quello.

    Succede sempre che, quando la realtà mi sorprende, mi accoglie come in un sogno ed il sogno vissuto nella realtà diventa indelebile. Quella sera, a teatro, ho vissuto un sogno di una forza straordinaria, vivo come non mai, al di là di qualsiasi immaginazione. Musiche, colori, volteggi sgargianti. Un esordio musicale mai sentito prima e subito un intrecciare di balli e di storie travolgenti. Maddalena: la purezza di conquistare tutti con una vendetta indecente. Tangolita: la sensualità capace di dare la più estasiante gioia e la più festosa allegria. Con il cuore in gola e l'anima in tumulto, mi sono messo a cantare, che nella mia vita futura non avrei mai scelto tra l'una e l'altra, perché le avrei sempre ricercate entrambe: "La vita è bella come un fiore, oh mia Tangolita!"

    Le fanciulle sul palco volteggiavano e si aprivano all'unisono come quel fiore, che sbocciava anche dentro di me, con un entusiasmo incontenibile. Danzavano e cantavano solo per me. Io, in mezzo al pubblico del teatro, ero coinvolto in un vortice di ebrezza, che non mi avrebbe mai più lasciato e che avrei sempre cercato di trasmettere, come un dono divino, che mi era toccato quella prima sera fuori dal paese, e non solo lontano.

    Mi sono ritrovato, molto più tardi, nella pensioncina dove avevamo depositato i bagagli, senza sapere come, stordito dall'odore del mare e del fumo proveniente dai palchetti del teatro, perso, volontariamente, nelle note di quelle armonie e nei vicoletti di quella città di porto, fatti apposta per non ritrovare la via di casa. Con la mente offuscata dallo splendore dello spettacolo del futuro che, ancora una volta, si apriva come un fiore, davanti a me: oh mia Tangolita.

    Ottone già russava beato.

    II. Il praho volante

    Anche voi avete messo gli artigli come l'aquila, ma ve li taglio io!

    Stentoreo, il Comandante delle Scuole dei Corpi Reali Equipaggi Marittimi quella frase l'ha quasi urlata, guardando proprio me, dritto negli occhi, come non avevo mai visto fare con nessuno, poiché il Comandante parlava sempre a tutti con lo sguardo diretto verso un punto lontano, posto sopra le nostre teste. Ha poi fatto seguire un lungo silenzio, che ha mantenuto ammutoliti gli astanti.

    Il capo squadra istruttore, lucido di sudore, che non riesce a smaltire nonostante le ore ed ore di ginnastica, aveva appena ripetuto il suo rapporto. E noi stavamo lì, sugli attenti, pronti ad ogni terribile conseguenza. Il Comandante ha, infine, sentenziato: Agli arresti, per sette giorni, nelle vostre camerate, e ne sarà tenuto conto al momento degli esami finali.

    Sono in punizione. Ma sono orgoglioso di essermi esposto per tutti gli allievi, anche se provo una gran rabbia per doverla pagare per tutti. Ma come si può stare zitti di fronte a ordini stupidi? Perché dovrebbe fortificarci salire, ogni mattina, sul ponte di quel relitto metallico, semi abbandonato, freddo più di tutti i Balcani, e lavarci nell'acqua di botti all'aperto, spezzando, quando capita - e capita spesso -, la lastra di ghiaccio che si è formata nella notte? Rabbrividiamo e tossiamo, a dispetto di tutti i vaccini che ci hanno iniettato nel petto, che ci hanno procurato la febbre. Questi sono gli ordini? Questi non sono ordini. Un ordine è quello di gettarci contro il nemico, o di stare ai nostri posti durante una battaglia navale. Un ordine è quello di affrontare, con ardimento, la furia della tempesta. Un ordine non può essere mortificante, non può essere inutile, non può essere sciocco.

    Non l'ho detto, ma si deve essere visto benissimo quello che pensavo quando ho chiesto a tutti di rifiutarsi di immergere le mani in quelle botti di ghiaccio. Tutti si sono fermati. Solo in tre allievi, però, ci siamo rifiutati di continuare, dopo che ci è stato nuovamente ordinato di lavarci. Ed allora eccomi qua, in punizione. A nulla sono valsi gli ottimi voti, l'essere sempre tra i primi, salire e scendere dai pennoni, vincere le gare di tiro: gli ordini stupidi non si trasgrediscono e neppure gli ordini sbagliati. Deve essere accaduto così quando si è perso a Caporetto, hanno tutti obbedito ad ordini stupidi. Non è stato così, invece, per l'impresa di Fiume, non è stato così per la Beffa di Buccari. Là si è disobbedito agli ordini superiori e tutto il mondo ha ammirato il nostro valore.

    Come deve essere bello obbedire a comandanti di quel calibro. Ed invece, anche qui al CREM di Pola, esistono vecchi panciuti che trovano soddisfazione solo nell'ubbidienza degli altri. Chissà cosa ne pensa il Duce. Chissà se Mussolini è il capo dei valorosi o è il capo dei pancioni. Ma la gioventù italiana saprà farsi valere, perché i giovani amano la Patria e non accadrà più che la Patria vada in mano ai traditori, come è accaduto nella Grande Guerra.

    Nel mio cantuccio d'ombra romita, in questi giorni di triste prigione, Ottone mi porta sempre qualche cosa di nascosto. Fortuna che non era nella mia squadra quando ci siamo insubordinati, altrimenti mi avrebbe seguito e sarebbe stato punito pure lui.

    Ottone trova sempre il modo di farsi amici in fureria e di rifocillarmi. Lui non approva quello che ho fatto, ma non critica. Lui è sempre dalla mia parte, anche se non condivide, perché mi considera avventato. Ottone è un amico ed io farei qualsiasi cosa per lui, come lui per me, anche se mi è estraneo quel suo vivere indolente, che lo fa sembrare privo di amor proprio. Nella camerata non comprendono cosa trovi l'uno nell'altro e come si faccia ad andare sempre d'accordo, ma si guardano bene dall'avanzare giudizi. Sanno che finirebbe con una sonora cazzottata e le prenderebbero da entrambi. Siamo arrivati assieme e ne usciremo assieme. Non vi è dubbio che, volenti o nolenti, alla fine dell'anno due montanari toscani si imbarcheranno su un incrociatore della Reale Marina, come cannonieri, ordini o non ordini.

    Sono sdraiato in branda. Studio, perché non gliela darò mai vinta e supererò gli esami. Poi leggo e penso. Penso al cinegiornale di qualche giorno fa, nel quale ho visto la macchina più sorprendente del secolo, che, da bambino, non avrei mai neppure immaginato; la macchina di Giulio Verne, il praho volante di Sandokan: un dirigibile Zeppelin. E mi è sembrato un altro segno del destino l'avere un cognome, italiano, così simile a quello di quei capitani del coraggio e dell'ardimento.

    D'un tratto, come un fulmine a ciel sereno, mi ha colpito una orgogliosa intuizione: nel giorno della sua ingiusta punizione, il giovane montanaro, che si è fatto marinaio, si trasformerà in ciò che, in cuor suo, ha sempre desiderato di diventare con ostinazione, un patriota e un irriducibile combattente dei soprusi. E l'intuizione è stata quella di sentirmi un discendente di quella razza straordinaria di navigatori aerei. Ho deciso: Da ora in poi mi firmerò solamente con la versione italica di quel cognome evocativo, da oggi sarò: Mario ZEPPOLINI.

    La sera è arrivato Ottone, carico di viveri. Aveva trovato anche un fiasco del suo amato vino. Non vedevo l'ora di comunicargli la novità della mia decisione e gli ho raccontato tutto. Mi ha guardato, senza stupirsi, e mi ha detto: Credo che sia possibile firmarsi così. Tu fallo. Il cognome è bello e italiano.

    Ancora sdraiato in branda, sento fuori il turbinio del freddo vento di bora. La pioggia scroscia inclemente, ma non mi conforta lo stare al sicuro, perché la tempesta è tutta dentro di me ed ha un solo nome.

    Come era bello, questa estate, cercare di dimenticare Baby, disteso al sole, sugli scogli del promontorio che chiude l'altro versante del porto di Pola. Mi gettavo in quell'acqua ghiaccia e a chi non mi seguiva dicevo: Vi sembra fredda perché non avete mai fatto il bagno in Corsonna, che è il torrente dove, al mio paese, si fanno i pozzi d'estate, con le frasche degli ontani ed i sassi levigati dalla corrente. Quella sì che è acqua ghiaccia!

    Un giorno ho fatto a nuoto la traversata del porto. È stato da incoscienti, non si arriva mai dall'altra parte; ma volevo distinguermi e farmi considerare dagli amici. Giunto a metà, ho trovato una corrente fortissima che mi spingeva indietro e fuori dal porto. Niente a che vedere con la forza dell'acqua della gora del mulino, dove si andava da bambini per imparare a nuotare. Eppure credevo, a quel tempo, che nulla vi potesse essere di più pericoloso che farsi trascinare verso la caditoia ed aggrapparsi, all'ultimo momento, alla corda che avevamo messo di traverso al canale, prima di cadere nella ruota in movimento. Mi sono sentito perso, ma non ho chiesto aiuto a nessuno. Nessuno poteva aiutarmi, perché erano tutti a riva e troppo distanti, ma erano sufficientemente vicini per poter vedere la mia paura, se mai l'avessi esternata. Così ho raccolto le forze, per ragionare. Ho realizzato che l'unica cosa da fare era assecondare quella corrente e riprendere le energie. Il cuore ha un po' rallentato solo quando mi sono accorto che funzionava, così come ha rallentato la corrente, che si è arrotolata verso la riva opposta, che ho finalmente potuto raggiungere. Forse c'è sempre una via d'uscita, se non si perde la testa; forse c'è anche una via d'uscita per il mio amore per Baby, per la mia passione frustrata. Ma quella volta ho rischiato grosso ed è stata un'esperienza che non mi aspettavo di vivere, in quel giorno di sole, così lontano da casa. Nessuno si è accorto di nulla. Ottone non c'era.

    Se il giorno trovavo un pò di pace, era invece inutile la sera correre dietro alle ragazze istriane, disponibili al corteggiamento, pur senza amarne nessuna. Anche qui le ragazze escono solo in gruppo ed io sono tentato da tutte e con tutte sono gentile, ma loro, salvo qualche sorrisetto, fanno finta di niente. Poi, quando accade che una di loro rimane da sola perché le amiche si sono allontanate con qualche pretesto, quasi subito, quella stessa ragazza, come se avesse fretta e paura di perdere l'occasione, mi dice che le piaccio, che si è innamorata di me, che sono cattivo perché la faccio ingelosire guardando tutte le altre e facendo il gentile anche con loro. Io allora mi sento in dovere di tranquillizzarla e le rispondo che vedo solo lei, ma

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