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Oltre l'orizzonte
Oltre l'orizzonte
Oltre l'orizzonte
E-book262 pagine3 ore

Oltre l'orizzonte

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Info su questo ebook

E’ l’estate del 1993. Superato l’esame di maturità, Vito decide di non voler proseguire gli studi per intraprendere la carriera militare.

Parte per Benevento, per frequentare la Scuola Allievi Carabinieri Ausiliari e, a fine corso, la sede di destinazione sconvolge la sua esistenza: Stazione Carabinieri di Satriano di Lucania.

Sconfortato e deluso, affronta quel trasferimento in un silenzio che ha mille parole. Un lungo viaggio verso quel suo destino, così tanto infame, che lo porta lontano da casa, tra impervie montagne, in un paese povero e malmesso.

Attraverso esperienze uniche ed emozioni incancellabili, il rapporto col nuovo comandante diventa giorno dopo giorno più intenso, più vivo e più profondo. Sembra quasi che quello strano maresciallo, con le sue povere origini e la tanta umiltà, riesca a leggere nei suoi pensieri. Tant’è che, con una brillante lezione sul coraggio, tocca il suo animo sino a far riemergere quello che in fondo era il suo sogno più vero e più grande.

Con l’esempio, quell’uomo gli aveva insegnato che “…Le promesse si fanno per essere mantenute!...”. E, nel giorno della sua laurea, Vito si ritrova, d’un tratto, faccia a faccia con quell’impegno preso e non ancora onorato.

Oltre l’orizzonte, qualcosa gli cambierà la vita per sempre.
LinguaItaliano
Data di uscita30 dic 2015
ISBN9788891122575
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    Anteprima del libro

    Oltre l'orizzonte - Vito Favia

    Lucania

    1

    L’estate del 1993

    Camminavo sulla sabbia. D’inverno. E quel profumo di sale m’illudeva d’estate. Il rumore della risacca dolcemente accarezzava le mie orme. E mentre lanciavo qualche sasso tra le onde, i miei pensieri si perdevano tra i ricordi. Liberi. Nel vento. Fino a quell’orizzonte oltre il quale non riuscivo a vedere.

    Quella domanda me l’aspettavo.

    Immagino che adesso si iscriverà alla facoltà di economia e commercio, vero?, mi chiese il presidente della commissione d’esame con l’aria sicura di chi conosceva già la risposta.

    No!, risposi. Credo proprio di no!.

    Giurisprudenza allora! replicò, con un lieve sorriso.

    Nemmeno!

    Mi sta prendendo in giro, vero?

    Per niente signor presidente… Dopo il diploma voglio espletare il mio servizio militare nell’Arma dei Carabinieri. Ho già presentato domanda. E se ci riuscirò, spero di intraprendere la carriera militare!

    Avevo appena concluso il mio esame orale di maturità tecnica. Brillantemente. Ma quella mia risposta finale li aveva spiazzati. E nei loro visi, dapprima sorridenti e soddisfatti, leggevo uno strano stupore ed una agghiacciante incredulità. Quasi una delusione. Una delusione che, in quel momento, davvero facevo fatica a comprendere.

    Farò quello che deciderà la mia testa! Inseguirò il mio sogno di sempre!, dissi con una determinazione che sconcertò tutti i presenti.

    Il presidente mi congedò con una fredda stretta di mano. Auguri per il suo futuro allora!

    Grazie!, risposi. Salutai tutti i membri della commissione ed uscii dall’aula d’esame.

    Quella che ne seguì fu un’estate di relax assoluto.

    Passai tanti giorni a godermi il mare e tanti altri a percorrer chilometri in bicicletta, quella passione che da anni colorava la mia vita.

    Quella risposta però non arrivava. Ci pensavo ogni giorno. Forse più di quanto, mesi prima, avessi pensato al mio ormai prossimo esame di maturità.

    Quella divisa mi aveva affascinato da sempre. Volevo diventare uno di loro. Se proprio dovevo espletare il servizio militare, volevo farlo con quella uniforme addosso. Partecipai a quel concorso da carabiniere ausiliario, consapevole del rischio che correvo. Se non ci fossi riuscito, l’anno successivo sarei dovuto partire per la leva nell’esercito. Sì, perché la domanda conteneva un’implicita dichiarazione di disponibilità al servizio militare, senza alcuna possibilità di rinvio alcuno.

    Le prove di selezione non mi erano sembrate impossibili. Ma l’esito non poteva essere scontato. Eravamo davvero troppi per i pur tanti posti messi a concorso!

    I mesi estivi volarono via, spazzati da una brezza che non riuscì a portar via il mio sogno. Vivevo le mie giornate aspettando una telefonata. Aspettando che un giorno il postino citofonasse per consegnarmi l’unica raccomandata che aspettavo.

    A volte pensavo di aver sognato troppo. Così tanto da essermi risvegliato con un’illusione! Con una maledettissima illusione che si era impadronita della mia testa e dei miei pensieri.

    Arrivò l’autunno. E con quelle secche foglie quasi cadevano anche le mie stanche speranze.

    Mi iscrissi alla facoltà di giurisprudenza.

    Frequentai circa un mese. Forse il mese peggiore della mia vita. Mi svegliavo all’alba, e salivo sull’autobus di linea quando fuori ancora era buio. In quelle aule, già di prima mattina, il caos regnava sovrano, tra litigi per accaparrarsi i posti migliori e mormorii di studenti fuori sede a raccontar le bravate della sera prima. Il tempo era rubato alla nostra vita con una semplicità che mi faceva male. Professori sempre in ritardo, se non assenti. Lezioni troppo filosofiche e così inutili, che poco aggiungevano al nostro sapere. Decisi che avrei studiato senza frequentare, dedicando il massimo del mio tempo a quell’obiettivo. Stilai un programmino ed iniziai con Diritto Costituzionale e Filosofia del Diritto. Fino a febbraio successivo. Argomenti davvero interessanti che tuttavia, tra i miei pensieri, combattevano con quelle speranze che il mio cuore non aveva ancora riposto.

    Possibile che l’Arma non fornisca una risposta?, mi chiedevo.

    Sentivo che qualcosa mi stava sfuggendo. Forse un dettaglio. Forse il più importante. Forse stavo aspettando qualcosa che non sarebbe mai arrivato. O che almeno non sarebbe mai arrivato nel modo in cui io credevo. Seppi per caso, da un amico di mio padre, che i militari in partenza per il servizio di leva, anche nell’Arma, venivano nominativamente elencati su un quotidiano nazionale. Erano i primi di marzo del 1994.

    Mio padre giunse a casa stranito quel giorno, ma sembrava quasi sorridesse. Dal suo viso scaturiva una specie di soddisfazione, ma sembrava al tempo stesso agitato. Si avvicinò e mi poggiò sulla scrivania quello stralcio di giornale.

    Forse c’è qualcosa che stavi aspettando! mi disse.

    Che diavolo è!, esclamai.

    Leggi!

    Non era un articolo. Non era una di quelle classiche pagine di giornale che ogni giorno sì è abituati a leggere. Era solo un elenco di nomi e cognomi.

    Nooo… non può essere…! dissi. E rileggevo incredulo ciò che avevo appena letto. Non ci posso credere!.

    Il mio nome era tra quelli del contingente in partenza per il servizio di leva. Sarei dovuto partire il sedici marzo seguente. Solo pochi giorni dopo. Accanto al mio nome, la scritta Arma dei Carabinieri. Avrei pianto di gioia, ma non lo feci. Quelle lacrime non trovarono mai il coraggio di tuffarsi sul mio viso ma, lo ricordo ancora bene, lucidarono per bene i miei occhi.

    Lo stesso giorno, per una strana coincidenza, ricevetti una telefonata del comandante della Stazione Carabinieri del mio paese.

    Rispose mia madre Carabinieri… E’ il maresciallo dei ti vuole parlare!

    E corsi subito al telefono. Pronto, Maresciallo!

    E lui: Vito, prepara le valigie. Il sedici devi trovarti a Benevento. Buona fortuna!

    Non capivo il mio stato d’animo. Ero felice. Avevo afferrato il mio sogno. Ma ero agitato, stravolto. Quel sogno sembrava essere volato via. Ed invece mi piombava addosso come un’aquila sulla sua preda. Dovevo organizzare tutto. Comprare perfino dei bagagli nuovi. Non ero mai stato via di casa tanto tempo prima di allora. Dovevo organizzare il viaggio in treno. Decidere i vestiti da portarmi al seguito. Quel tempo mi sembrava davvero poco.

    Fu una settimana intensa. Mi dedicai solo a me stesso. Preparai tutto con la precisione che sempre mi aveva caratterizzato. Ma, senza l’aiuto della mia mamma, forse non sarei riuscito in tutto. Troppo preziosa fu la sua collaborazione per poterne fare a meno.

    Ricordo i suoi occhi. Di gioia. Di soddisfazione. Di orgoglio. Di tristezza. Un cocktail di sentimenti dal sapore indimenticabile.

    Salutai tutti. Un bacio. Due baci. Un abbraccio.

    Vi chiamo quando arrivo!

    Mi raccomando… In bocca al lupo!

    Crepi davvero!

    2

    La Scuola Allievi Carabinieri

    Viaggiava silenzioso quel treno nella notte. Era un vecchio Intercity, ma sembrava correre sull’ovatta. Non chiusi occhio. Ero troppo concentrato su come sarebbe stata la mia vita dall’indomani. Il mio sguardo si perdeva fuori dal finestrino. Ed in quel buio, assoluto, ripercorrevo il mio passato. Quello recente e quello remoto. Fino a ricordare di quando ero bambino.

    Cosa farai da grande? mi chiedevano.

    Il carabiniere o il poliziotto, perché devo acchiappare i ladri!, con quell’ingenuità di chi nei sogni vive tutti, proprio tutti, i suoi giorni.

    E forse quel bambino aveva già capito tutto, più di quanto io ancora cercassi di capire nell’insonnia di quella notte. Su di un treno carico di pensieri, che mi pareva volare nell’aria anziché rumoreggiare su antichi binari.

    Si chiacchierò tutta la notte. Eravamo in tanti a viaggiare per lo stesso motivo. Si vedeva dall’età. Da quelle facce sbarbate. Da quei capelli, che in tanti si erano fatti già accorciare sapendo cosa li aspettava.

    Ed anche io avevo fatto lo stesso. Chiesi al mio barbiere di tagliarli più che poteva, ma non di rasarli a zero.

    Parto per il militare, ma cerca di non tagliare troppo! gli chiesi.

    E mi assecondò. Anche se, rispetto ai tempi così recenti dell’Università, il mio viso cambiò fisionomia. Allo specchio sembravo un altro, e forse lo ero. Avevo dentro emozioni mai provate prima, sensazioni così strane che non riuscivo proprio a controllare.

    Non credo che gli altri passeggeri riuscirono a chiudere occhio quella notte. Eravamo come delle pentole scoppiettanti vicino al fuoco. Qualcuno più educato parlava a bassa voce. Altri strillavano come fosse mezzogiorno. Si parlava delle nostre pregresse esperienze. Ma si finiva sempre a parlare del domani.

    Chissà come sarà il primo giorno? diceva uno.

    Vedrete ci raseranno a zero e ci faranno scoppiare! aggiungeva un altro.

    I pensieri cercavano di immaginare ciò che nel destino era già scritto, come in un disegno che dal giorno dopo avremmo iniziato a colorare. Non credo di aver dormito più di cinque minuti quella notte.

    Mi appisolai all’alba e mi svegliai quasi subito.

    Ci siamo. Stiamo arrivando a Benevento! strillavano tutti sul treno.

    Tirai giù i bagagli. E fuori dai finestrini, il mio sguardo cercava di vedere la città dove ancora non c’era. Il mio cuore batteva a mille. Come per urlare quelle emozioni mai provate prima.

    Ci siamo ragazzi, si scende! gridava il più intraprendente del gruppo. Giù dal treno, ci dirigemmo verso l’uscita della stazione. Chiedemmo informazioni su come arrivare alla Scuola Allievi Carabinieri. Un autobus cittadino e via.

    Cinque minuti ed arrivammo là dove già ci aspettavano. Uno per uno ci avvicinammo all’ingresso del complesso militare. Ci chiesero un documento per l’identificazione ed entrammo.

    Ci dissero di non sperderci. Di stare insieme. Di seguire il personale di volta in volta incaricato per tutti gli adempimenti preliminari. Era bella la struttura. Vecchia, ma per me davvero bella. Il mio sguardo si perdeva ovunque. A fotografare con gli occhi ogni angolo di quella nuova casa.

    Ci radunarono in un piccolo piazzale.

    Ok… incominciamo a darci un pò di regole! disse un maresciallo che ci faceva da guida.

    Se nei vostri bagagli avete forbicine, tagliaunghie ed oggetti appuntiti vari, tirateli fuori e consegnateli al sottoscritto! Non è consentito tenerli. Tutto quello che vi servirà in questa struttura vi sarà consegnato dall’Arma dei Carabinieri!

    Ci guardavamo straniti. Mamma mia quante regole!

    E ricordate…, aggiunse, Siete in una scuola per carabinieri. Ancora non conoscete le regole della disciplina militare, ma siate retti ed educati. Salutate con un buongiorno chiunque incrociate, perché potrebbe essere anche un vostro futuro superiore!

    Il concetto sembrava chiaro. Ma bastò qualche minuto per incappare nell’ errore. Si camminava in gruppo. Incrociammo un uomo distinto. Dallo stile impeccabile. Uno sguardo freddo e deciso. Nemmeno un buongiorno da parte nostra. E lui si fermò. Incominciamo male! ci disse. Un Ufficiale si saluta sempre, almeno con un buongiorno!

    Eravamo rintronati quella mattina. Non avevamo chiuso occhio tutta la notte. E ci trovavamo in una dimensione di cui ancora nessuno di noi aveva ben compreso le coordinate. Certo, è vero, non lo conoscevamo. Nessuno di noi sapeva fosse un Ufficiale. Ma la prima regola la avevamo infranta. Detta poco prima. Infranta un attimo dopo.

    Ma soprattutto capimmo sin da subito che quella scuola e quegli Ufficiali ci avrebbero messo in riga.

    Il primo giorno fu davvero intenso.

    Ci suddivisero per compagnie. E ci assegnarono, quasi subito, le camerate. Eravamo in sei nella mia, di cui due laureati. E sistemando i bagagli vicino a dei malmessi armadietti di metallo, facemmo subito conoscenza.

    In fila per uno, ci ordinarono di recarci alla distribuzione degli effetti letterecci. Lenzuola, coperte, cuscino e federa.

    Poi vi faremo vedere come sistemare il vostro posto letto! ci dissero.

    Perché?…E’ così difficile prepararsi il letto? pensammo.

    La prima mattinata corse via veloce.

    Giunse l’ora di pranzo e ci implotonarono davanti l’ingresso della mensa. Ancorchè in abiti civili, si doveva entrare ordinatamente. Ci servimmo al bancone self-service. Ci accomodammo. Eravamo stanchi, la fame era poca. Le troppe emozioni chiudevano lo stomaco.

    E quelle pietanze non sembravano il massimo. Abituati come eravamo ad esser coccolati da mamme , mogli e fidanzate.

    E’ la vita militare! disse uno. Vedrete da domani che ci combinano!

    Ma la divisa quando ce la danno? ci chiedevamo.

    Quel pomeriggio stesso, presso il magazzino, ci distribuirono il vestiario. Ognuno di noi ottenne in dotazione un cassone verdastro, da riempire con tutto ciò che ci assegnavano. Divisa, mimetica, anfibi, calze, calzini, scarpe, pomate ed accessori vari. Di tutto di più.

    Ci ordinarono di indossare subito la mimetica verde con anfibi, basco e cinturone. Senza attagliamento alcuno. Nella mia, così grande di taglia, ci potevamo entrare in due. Ci spiegarono che l’attagliamento spettava solo per la divisa da Carabiniere e che nei giorni seguenti il sarto della scuola avrebbe provveduto. In quella mimetica sembravamo quasi soldati dell’Esercito. Ma quella piccola argentea fiamma, sul basco, ci rincuorava.

    Giungemmo stanchi a quella prima sera. Esausti. Poteva davvero bastare. Ma non era finita affatto.

    Ci insegnarono a cubare le lenzuola. Eh sì, era quella la difficoltà. Al risveglio, ogni mattina, lenzuola, coperte e cuscino andavano piegate e sistemate con geometria certosina. In modo da sistemare il tutto, a forma di parallelipedo, all’interno del copertino.

    Il contrappello chiuse la giornata.

    Qualche chiacchiera ancora tra di noi. Il letto da sistemare. Poi sotto le coperte. A cercare di dormire. Tra le note di un "silenzio" che ancora non conoscevo, ma già mi piaceva da morire. Ero militare.

    La mattina seguente, quella sveglia fu come una pugnalata nella schiena. Quanto strillava quell’Ufficiale.

    Sembrava invasato. Correreee! Svegliaaa!

    Avevamo pochi minuti per sbarbarci e sistemarci. E soprattutto per realizzare quella impossibile cubatura delle lenzuola. Ci si aiutava tra di noi. Ognuno s’inventava il proprio metodo. O il proprio trucco. Bisognava davvero essere veloci.

    Si faceva sul serio da quella mattina.

    E dopo la colazione, la prima cerimonia dell’alzabandiera. Con quell’inno che ci regalava brividi da capo a piedi e segnava l’inizio della nostra giornata.

    Divisero le compagnie in plotoni. Ci spiegarono la realtà militare. Gradi. Gerarchie. Regole scritte e non scritte della scuola. Ci insegnarono il saluto militare e le principali regole della disciplina. Le nostre giornate erano scandite da lezioni in aula, addestramento formale, preparazione atletica, studio, servizi militari. Sempre vigilati e controllati.

    Dovevamo apparire impeccabili. Meglio ancora se riuscivamo anche ad esserlo.

    I primi giorni, con le divise non ancora pronte, ci consentirono la libera uscita in abiti civili. Ci controllavano come se dovessimo andare ad una sfilata. Capelli in ordine e barba rasata. Vestiti puliti, ben indossati, meglio se eleganti.

    Per questi primi giorni va bene così! ci dicevano. Controlli più severi saranno fatti quando uscirete in divisa!

    Quel giorno arrivò presto. Il sarto fu più veloce del previsto. Che emozione quando la indossai la prima volta! Impossibile da descrivere. La toccavo. La guardavo. Non ci credevo. La prima libera uscita in divisa la ricorderò per sempre. Implotonati nel piazzale della Bandiera. Gli Ufficiali ci passarono in rassegna. Per poter uscire bisognava essere impeccabili. Capelli cortissimi sotto il berretto. Barba appena rasata. Colletto della camicia di un bianco candido. Pantalone con una ben evidente riga di stiratura. Scarpe lucide da potercisi specchiare. Divisa, nel complesso, in ordine.

    Ma non bastava. Per passare il varco occorreva altro. Bottone di ricambio, ago e filo al seguito. Carta telefonica. E bisognava ricordare a memoria gradi, nomi e numeri telefonici della scala gerarchica. Eppoi mille raccomandazioni su cosa fare e non fare per la città. Quali posti erano consentiti. Quali da evitare. Con l’avvertimento che Ufficiali in abiti civili ci avrebbero tenuto sotto controllo.

    Ricordate! Sarete Carabinieri solo quando superete l’esame finale del corso! ci dissero.

    Basta una stronzata… e finite dritti dritti in qualche caserma dell’Esercito!.

    Il messaggio era chiaro. E fu ben recepito dalla maggioranza. Però eravamo quasi mille allievi. E qualche testa calda di sicuro non mancava. Per chi fosse stato abituato ad una vita del tipo tutto è permesso, quella vita, di limiti e costrizioni, poteva sembrare un soggiorno carcerario.

    Ma per chi, come me, aveva ricevuto una educazione restrittiva, quella vita non pesava più di tanto. Bisognava solo stare alle regole. Tante, ma note. Rigide, ma chiare. Era divertente vivere di quelle restrizioni stando insieme. Eravamo tutti diversi. Nella provenienza e nel carattere. Nei modi di fare e nei dialetti. Nella mia camerata c’erano tre toscani. Quanto mi piaceva il loro modo di parlare. E quanto mi divertivo ad ascoltare le loro imprecazioni sulla Maremma. Bastava una goliardata. Un ordine poco condiviso. Qualunque stupidata. E partiva una maremma maiala o una maremma impestata! Erano troppo divertenti. Con il loro caratterino, per carità. Ma senza di loro, quella camerata sarebbe stata poco più di una biblioteca universitaria. Quei due laureati leggevano sempre. Leggevano e studiavano. Troppo avanti con l’età per sopportare la vita goliardica di un ambiente militare. Tutti quei diciottenni imberbi li mandavano spesso in bestia. Per un niente. Era difficile trovare punti d’incontro. Per noi altri quella esperienza non doveva solo essere il servizio militare. Doveva essere qualcosa di indimenticabile. Sotto tutti i punti di vista. E lo fu. Dalla mattina alla sera. Durante la notte. Sempre.

    La mattina, dopo la sveglia, era un divertimento assoluto. Sembrava di partecipare a Giochi senza Frontiere. In un tempo limitatissimo bisognava lavarsi, rasarsi, vestirsi, sistemare il cubo, correre ad implotonarsi per la colazione. Un dramma per chi era abituato a dormire comodo e magari anche ad essere dolcemente svegliato col tocchettio di un ditino sulla spalla. Si inventavano di tutto pur di essere puntuali.

    Chi si svegliava alle prime luci dell’alba per rasarsi e tornare a letto. Chi dormiva già in mimetica, sperando di non essere scoperto. Chi lasciava perennemente preparato il cubo e preferiva dormire su lenzuola e coperte portate da casa. Ogni trucco andava bene pur di non essere ritardatario al mattino. Sì, perché i nostri Ufficiali ci aspettavano con l’occhio all’orologio. Solo un secondo oltre l’orario stabilito e si finiva dritti dritti a rapporto. Ogni sera c’era la fila dall’Ufficiale Comandante. Sull’attenti, uno ad uno, ci ascoltava, sentiva le nostre inutili ragioni, ci ammoniva e ci puniva. Ognuno per la sua mancanza. Barba rasata male. Capelli lunghi un millimetro più del previsto. Cubo inguardabile. Ritardo al mattino. Divisa o armadietto in disordine. Sì, anche l’armadietto. Perché di tanto in tanto, a sorpresa ovviamente, gli armadietti venivano ispezionati. Dovevamo conservare tutto in ordine maniacale. Il berretto in un posto. Le divise in un altro. Magliette e camicie in un altro ancora. E visti i risultati delle prime ispezioni, una catastrofe, ci ordinarono di cubare anche magliette e camicie. Con le imprecazioni dei toscani e con il divertimento di chi, come il sottoscritto, aveva preso quell’anno come un sabbatico rigenerante.

    In effetti in quegli armadietti c’era proprio di tutto. E quanto si rideva quando venivano pubblicamente aperti. Si trovava di tutto. Dal classico calendario della modella di turno, esibito da chi così colmava la mancanza della fidanzata. A salami e formaggi di chi così ovviava a quella fame che una mensa, considerata molto frugale, proprio non riusciva a soddisfare. Eppure quella mensa poi non era così male. Non era come a casa, è ovvio. Ma il cibo non era da disprezzare. La colazione era abbondantissima. Ricordo ancora bene. Marmellatine in confezioni monouso, cornetti, thè, caffè, latte, succhi di frutta, yogurt. Molti di noi infilavano nelle tasche ciò che potevano. E quando il pranzo non era di gradimento, si ripiegava su uno yogurt o un panino alla marmellata o alla nutella. Avevamo imparato a fare di necessità virtù. E forse non ci accorgevamo che erano i primi effetti degli insegnamenti di quella vita.

    Dopo colazione e dopo l’alzabandiera, si correva in aula per le lezioni. Si spaziava su tante materie. Dal diritto penale alle leggi di pubblica sicurezza. Dal diritto costituzionale

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