Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Storia di una non morte vissuta (zombie)
Storia di una non morte vissuta (zombie)
Storia di una non morte vissuta (zombie)
E-book325 pagine3 ore

Storia di una non morte vissuta (zombie)

Di Caos

Valutazione: 4 su 5 stelle

4/5

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

24 ore è il tempo di questa storia di una non morte vissuta dai vivi. Un racconto dal ritmo stressante, crescente e dilagante come l'epidemia che ha colpito il mondo intero. Un mondo che noi vivi non possiamo riconoscere, perché il riconoscere come umani i vivi che ancora lo popolano, ci costringerebbe a percorrere la selva dei cattivi sentimenti, della crudeltà a cui la sopravvivenza spinge, della legge del mors tua vita mea che l'essere umano cela dietro i comportamenti socialmente accettati. Una storia scorretta, violenta, che ti indurrebbe a chiudere gli occhi, se fosse un film. E con il respiro di un film, ogni scena si sussegue all'altra e ti sorprendi ad augurarti, lettore, di non dover vivere mai in questo mondo non morto; certo Firenze non ti sembrerà più un bel posto da visitare.

Prima che i protagonisti possano rendersene conto, gli zombie dilagano per le strade. Prima ancora di prenderne atto, il male dilaga nelle menti dei vivi.

E quando arriva l'outbreak è già troppo tardi per mettersi in salvo...
LinguaItaliano
EditoreCaos
Data di uscita1 mar 2016
ISBN9788892553859
Storia di una non morte vissuta (zombie)

Correlato a Storia di una non morte vissuta (zombie)

Ebook correlati

Articoli correlati

Recensioni su Storia di una non morte vissuta (zombie)

Valutazione: 4 su 5 stelle
4/5

1 valutazione0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Storia di una non morte vissuta (zombie) - Caos

    PROLOGO

    La coppia di AB412 vola nella notte fendendo con i rotori il caldo buio di metà giugno.

    All’interno dell’elicottero in testa, il capo formazione comunica via radio.

    Pochi secondi dopo riesce ad intravedere l’elicottero gregario e i due operatori seduti sulla fiancata superarlo alla destra, per poi sparire nell’oscurità.

    Il capo formazione si rivolge al proprio equipaggio facendo un cennocon la mano; indica che mancano cinque minuti prima di toccare terra.

    Quel gesto ha il potere di trasformare l’espressione sui volti degli operatori seduti sulla carlinga.

    50 SECONDI ALL’ATTERRAGGIO

    Gli operatori percepiscono che l’elicottero sta rallentando ulteriormente;

    30 SECONDI ALL’ATTERRAGGIO

    Si iniziano a vedere gli spalti illuminati del piccolo stadio su cui troneggia, sospeso nell’aria, l’elicottero gregario;

    20 SECONDI ALL’ATTERRAGGIO

    Da quell’angolazione si può osservare un gruppo di circa cento figure umane barcollare, camminare, cadere e rialzarsi, per poi riprendere nuovamente a camminare verso gli spalti;

    10 SECONDI ALL’ATTERRAGGIO

    Il capo formazione dalla cabina di pilotaggio osserva distintamente i due operatori a bordo del velivolo gregario che, seduti sulla fiancata, puntano le loro armi verso il basso. Guardando sotto di loro, è attirato da una delle tante persone che a terra si muovono convulsamente. Un uomo, barcollante, cerca di raggiungere gli spalti quando uno zampillo rosso nasce dalla sua testa prima di cadere e restare immobile sul terreno.

    5 SECONDI ALL’ATTERRAGGIO

    Sotto l’elicottero solo corpi immobili. Dalla parte opposta, un’intera centuria ridotta alla fame si arrampica sugli spalti cercando di raggiungere il velivolo gregario;

    4 SECONDI ALL’ATTERRAGGIO

    Mentre l’elicottero continua ad abbassarsi, la massa d’aria generata dai rotori è tale da spazzare via alcune delle tende piantate nel campo;

    3 SECONDI ALL’ATTERRAGGIO

    2 SECONDI ALL’ATTERRAGGIO

    1 SECONDO ALL’ ATTERRAGGIO

    I pattini toccano terra.

    Simultaneamente i quattro operatori saltano giù e disponendosi per coppie ai fianchi del velivolo, assumono la posizione di tiro in ginocchio, c osì da essere più accurati nel puntare le armi. Iniziano a sparare ritmicamente, senza fretta, imprimendo su ogni singolo colpo la concentrazione necessaria affinché ogni ogiva, nel giungere a bersaglio, abbatta con precisione la figura presa di mira. Alcuni dei colpi esplosi con chirurgica accuratezza, centrano la testa dell’obiettivo, fulminandolo al suolo. Quando invece, per errore del tiratore, è il petto della vittima ad essere colpito, questa sobbalza come percorsa da un tremito, ma non si arresta. Se altrimenti l’ogiva impatta con la gola, la attraversa come se fosse burro, senza rallentare il movimento del soggetto colpito.

    Nessuno alza le mani in segno di resa, nessuno fugge dalla parte opposta agli spari.

    La folla inebetita – ammassata sugli spalti che aveva faticosamente raggiunto – è adesso richiamata dal rumore generato dai rotori dell’elicottero appena atterrato.

    L’orda lentamente si muove verso il campo, andando incontro al piombo che vola nella sua direzione. Avvolti dal frastuono dei colpi e dal flappeggio delle pale, i quattro operatori sentono a malapena l’atterraggio alle loro spalle del velivolo gregario. Adesso anche gli altri due operatori, che fino a un attimo prima sparavano dall’alto, appiedano affiancando i loro compagni. Assumono anch’essi la stessa posizione di tiro e con attenzione, puntano le loro armi in direzione delle circa settanta persone rimaste in piedi davanti a loro.

    «Cambio caricatore!», urla uno degli operatori.

    «Occhio a quelli che sbucano fuori dagli spogliatoi!», tuona un secondo operatore.

    Un terzo uomo, posizionato alla destra del dispositivo [1] , risponde con il  fuoco della propria arma, abbattendo quelle persone.

    Cessano la mattanza, facendo tacere le armi.

    L’area è sgomberata, possono attestarsi all’interno dello stadio: il  team leader fa un cenno al pilota il quale inizia la procedura di spegnimento del velivolo; le pale cominciano a rallentare cessando così di scuotere i loro vestiti.

    Nessuno è in piedi a parte i sei operatori.

    A terra sul prato verde – che in precedenza era stato calpestato so lamente da scarpe da calcio – restano illuminati dalle luci alogene dei riflettori, un centinaio di corpi con le teste straziate dalla furia dei proiettili. Il team leader si guarda intorno e rivolgendosi al resto del gruppo con voce molto alta, cercando di sovrastare il rumore delle turbine in decelerazione, richiede un controllo munizioni.

    Le risposte arrivano a breve: circa duecento colpi esplosi fra tutti.

    «Tiriamo fuori bisturi e anime lisce. Iniziamo il rastrellamento,

    troviamo Lanfretti e vediamo di levarci da questo posto di merda il più in fretta possibile.»

    CAPITOLO 1

    MANCATO RICONOSCIMENTO

    "La speranza, per ingannevole che sia,

    serve almeno a condurci alla morte

    per una strada piacevole"

    François de La Rochefoucauld

    Firenze

    15 GIUGNO

    ORE 18:00

    Andrea correva a perdifiato tra i parcheggi in cui aveva lasciato la sua vecchia utilitaria per raggiungere l’hangar dove era atteso.

    Per fare prima e non accumulare ritardo, aveva indossato lo zaino su una sola spalla e un borsone Kalgav nero sull’altra. I larghi tasconi laterali dei suoi pantaloni BDU[2]erano colmi di oggetti che avrebbero dovuto essere posti altrove.

    Così, carico come una bestia da soma, giunse davanti all’hangar.

    «Oh eccoti finalmente! E stai pure tranquillo che tanto siamo tutti in ritardo! C’era movimento in giro?», furono le prime parole che gli vennero rivolte, subito dopo aver aperto la piccola porta che conduceva all’interno della struttura.

    Luca, 34 anni, secco come la morte, se ne stava con il suo Ipad in mano seduto su degli scatoloni, senza curarsi se il contenuto fosse fragile o meno.

    «Abbastanza. C’era un blocco stradale nelle vicinanze della pista di atletica di Sorgane. Hanno smantellato l’ospedale da campo che avevano allestito al suo interno e hanno chiuso i cancelli. A quanto pare chi gestisce l’emergenza ha deciso che non era più un punto strategico per piazzarci un ospedale.»

    «In effetti perché dargli torto? Non ci sono stati casi di contagio in città.»

    «Nonostante questo però, a giudicare dai bagagli nelle auto, qualcuno ha deciso comunque di andarsene. Ho trovato più di un incidente sugli incroci: la gente che ha fretta di andare sembra non prestare attenzione al codice della strada», Luca continuava ad ascoltarlo incuriosito e lasciò che proseguisse nel racconto, «e se tutto questo non ti dovesse bastare ho la ciliegina sulla torta: un check point su una delle strade che porta in città. Ho dovuto fare un altro percorso aggirando quei cazzoni dei militari. Sono ridicoli, li mettono a presidiare un’arteria principale quando poi invece basta imboccare qualche stradina secondaria per entrare ed uscire tranquillamente!»

    «Io credo invece che cerchino di ridurre tutti i movimenti per impedire che la gente possa spostarsi in massa, ed in parte devi ammettere che ci sono riusciti. Hanno bombardato tutti tramite giornali, televisione e Internet dicendo di non allontanarsi, di continuare la propria vita come se niente fosse, di avere solo l’accortezza di segnalare eventuali casi di contagio. In molti ci hanno creduto e così facendo hanno evitato disordini sociali.»

    Luca rispose continuando a spostare il suo Ipad in cerca della rete, schiacciando ancora con noncuranza gli scatoloni sotto di sé.

    «È vero, ma a che pro? Ancora non è chiaro come avvengano i contagi.»

    Niente era chiaro: nessuno aveva idea del perché le persone morte riprendessero a camminare e ad attaccare i vivi; nessuno aveva idea del quando avvenissero le trasformazioni. Non esistevano spiegaziosensate al fatto che intere aree venissero infettate di colpo. L’unico dato certo riguardava una piccolissima percentuale dei contagi avvenuta tramite morso. Si iniziava con piccoli focolai che nel giro di qualche ora si allargavano a macchia d’olio, contagiando intere cittadine. Non c’era nessun apparente nesso di causalità fra il piccolo focolaio e il contagio di un’area molto più vasta.

    Tutto succedeva maledettamente in fretta, era però evidente uno schema di espansione preciso: prendiamo ad esempio delle piccole cittadine che chiameremo A, B, C, e D. Infettata la quasi totalità degli abitanti della cittadina A, sarebbe venuto spontaneo pensare che anche gli abitanti della vicina cittadina B sarebbero stati infettati a breve.

    Questo però non avveniva.

    Certo qualcuno veniva morso, trasferendo a sua volta il contagio nelle zone limitrofe, ma ciò non spiegava una così rapida espansione del morbo. Era più probabile che il nuovo focolaio e il conseguente contagio di massa venisse rilevato nella cittadina D, distante anche centinaia di chilometri. A quel punto, le aree nel mezzo – B e C – si rivelavano popolate da infetti. Continuava a non avere senso. O almeno in apparenza. Qualche cronobiologo infatti aveva trovato un'analogia con una ricerca sui cicli mestruali sincronizzati eseguita molti anni prima. Negli anni Settanta una ricercatrice americana effettuò uno studio su un campione di un centinaio di donne che vivevano insieme in un college. Ne risultò che le donne che trascorrevano molto tempo insieme, tendevano a sincronizzare il loro ciclo mestruale, probabilmente perché gli ormoni emessi da alcune di queste venivano fiutati dall’altro gruppo di donne, mettendo in moto lo stesso processo. Nonostante recenti studi abbiano poi attribuito a tale fenomeno una spiegazione meramente statistica, rimane comunque il dubbio sulla validità della ricerca effettuata.

    Alcuni entomologi invece prendevano come riferimento una specie di cicale presente nella costa orientale degli Stati Uniti. Le cicale vivono sottoterra per tredici o diciassette anni, escono fuori per circa un mese e mezzo, si riproducono e poi muoiono. Il risultato questo di un’evoluzione perfezionatasi in migliaia di anni per permettere alle prede di sfuggire ai predatori, che invece hanno un ciclo di vita molto più breve. In ragione di ciò, le due specie – prede e predatori – non si incrociano mai.

    Nulla di quanto descritto dava una spiegazione a quanto stava accadendo in quelle ultime due settimane, ma dove bisognava cercare una risposta allora?

    Se il virus lo avessimo sempre avuto in corpo e solo ora, dopo millenni di latenza, fosse sbucato fuori?

    Come il virus dell’herpes ad esempio che rimane dormiente e nascosto, in uno stato di inattività, nelle cellule nervose per poi sbucare fuori al momento meno opportuno.

    Sulla base di queste riflessioni altri scienziati, alla ricerca di una risposta, pensarono di averla trovata nei mitocondri. Questi piccoli organuli – che sono delle vere e proprie centrali di energia per la cellula – hanno un loro DNA, differente dalla cellula che li ospita. Gli scienziati in questione pensavano che i mitocondri – così come

    ssono generare energia per le cellule – potessero, allo stesso tempo, alimentare il cervello e dare energia ai muscoli fino al punto di muovere un corpo inanimato il quale, anche se fosse stato colpito in pieno petto da una scarica di pallettoni, avrebbe continuato il suo movimento senza una meta precisa, mosso solo dall’istinto di attaccare un altro essere vivente non infetto e divorarlo.

    Un’ulteriore corrente di pensiero, che sembrava essere quella più accreditata, era nata da un gruppo di scienziati guidati dal Dottor Giorgio Re Moro[3], secondo i quali la causa sarebbe da attribuire a spore provenienti dallo spazio, veicolate sulla terra per il tramite di un meteorite o un satellite sperimentale precipitato.

    Certo non sarebbe sbagliato affermare che la verità su cosa stesse accadendo in quei giorni potesse trovare del vero in ciascuna delle teorie descritte. Chiaramente, ogni studioso cercava di trovare una spiegazione che afferisse al proprio campo di ricerca.

    C’era di tutto: dall’acqua contaminata alle droghe, passando per la rabbia animale.

    Così come la vita si è formata seguendo il caso e la necessità, adesso una mescolanza di eventi coincisi insieme stava per estinguere, o evolvere dipende dai punti di vista, la vita come noi la intendiamo. «Aggiornamenti sulle zone in quarantena?», chiese Andrea sbirciando sull’Ipad dell’amico.

    «La rete non va per un cazzo! A volte non riesco a collegarmi per diversi minuti. È da qualche ora che non arrivano notizie dal continente americano. Forse anche oltreoceano hanno problemi con Internet.»

    Luca mostrò ad Andrea gli ultimi dati che era riuscito a scaricare prima di perdere la connessione.

    «Intorno a noi invece le cose stanno così.»

    «Beh, tutto sommato le cose non vanno così male, no? Penso spesso a quando tutto tornerà alla normalità.»

    Molti in cerca di una sicurezza effimera avevano abbandonato i grandi centri urbani lasciando le loro case, il loro lavoro e tutto quanto non fossero in grado di trasportare in auto o sulle loro spalle. «Non credo che faranno ritorno in tanti. Per lo meno nel breve termine. Ma ci pensi? Una volta trovata la cura le cose si calmeranno, ma noi intanto ci saremo presi tutto quello che ci pare. Pensi che quelli scappati via riavranno il loro lavoro? O la loro vita normale?Io dico di no. E poi sai quanti morti ambulanti troveremo sulla strada con addosso ancora i loro oggetti di valore? Chi mi impedirà di prendere le loro cose? Magari anche una bella villa: da oggi è mia!Chi mi può dire di no?»

    «Forse il legittimo proprietario?», rispose Luca con tono sarcastico. «Semmai sarà sopravvissuto, vorrà dire allora che al suo rientro leverò le tende. Naturalmente in precedenza avrò usato l’accortezza di far sparire ogni oggetto di valore nascondendolo da qualche altra parte.»

    Aree in quarantena

    Risero entrambi come delle iene.

    «Certo che siamo degli sciacalli...», continuò Luca.

    «Possono chiamarci come gli pare, io non ho nessuna intenzione di passare il resto della mia vita a rischiare di morire scortando uomini ’affari che non conoscono nemmeno il mio nome. Sta accadendo qualcosa di folle, di inaspettato, e sono sicuro che arriveranno tempi migliori, nel frattempo però cercherò di accumulare quante più ricchezze possibile. Non mi importa se il modo in cui lo faccio è quantomeno discutibile. Io quella vita merdosa non la voglio più fare. Quello di oggi sarà per me l’ultimo lavoro.»

    Andrea parlava della sua vita attuale come se appartenesse già al passato.

    «Rintronati! Ve la date una mossa invece di fare i filosofi? Prima iniziamo questo briefing e prima facciamo. Dai teste di cazzo fate in fretta che mancate solo voi!»

    Daniele dal fondo dell’hangar interruppe la conversazione come una secchiata d’acqua fredda.

    In mezzo ad un gruppo di otto persone svettava quest’uomo di trentacinque anni molto alto e dal fisico massiccio che li invitava con poca cortesia ad accomodarsi vicino a loro, proprio dietro un proiettore che illuminava una parete sulla quale erano impresse le immagini di un briefing in Power Point.

    Accomodarsi ovviamente si faceva per dire: non c’erano abbastanza sedie. Tutti, erano poggiati alla bell’e meglio su sedie di circostanza.

    Daniele divideva una cassa Peli[4]con Alessandro, Ale per gli amici, anch'egli di corporatura massiccia, coetaneo al primo.

    Mauro – il Nano come lo avevano sgarbatamente ribattezzato gli amici per via della sua bassa statura – se ne stava appollaiato su un enorme fusto d’olio che lo faceva sembrare ancora più piccolo; Fabrizio di media statura e tarchiato, che non dimostrava più di venticinque anni ma che in realtà ne aveva trentuno, aveva trovato lussuosa sistemazione su una sedia da regista, identica a quelle su cui pochi metri più in là sedevano due uomini sui quarantacinque anni, che a giudicare dalle tute di volo indossate, si poteva facilmente intuire fossero piloti di elicottero.

    Infine altre due persone – un uomo e una donna – stavano in piedi di fronte al gruppo. Elena, la direttrice dell’Agenzia per cui lavoravano i ragazzi, e l’altro – un pinguino incravattato mai visto prima – che prese subito la parola quando tutti si accomodarono.

    «Salve signori, mi chiamo Enrico Mabi, responsabile del settore Sviluppo e Ricerca della Biosabre. Salto i convenevoli e cerco di riassumervi la situazione. La Biosabre, come altre aziende farmaceutiche, è all’opera per trovare una cura che possa combattere la piaga che dilaga da giorni e che probabilmente ci ha portato via qualche parente o qualche amico. Nonostante stia accadendo tutto così in fretta, noi della Biosabre crediamo fermamente nella ricerca come unica soluzione al problema virus. Perché secondo noi di questo si tratta. Altro che genetica e mitocondri!»

    Il mondo stava per andare in pezzi e lui, al pari di un venditore d’auto usate dal contachilometri taroccato, si preoccupava di osannare la sua merce. Blaterava di parenti ed amici morti, ma si capiva chiaramente che ancora, per sua fortuna, non aveva perso nessuno. Gli importava solo dei profitti dell’azienda e dei guadagni che sarebbero seguiti se fossero riusciti a mettere a punto un vaccino prima della Sanità Nazionale.

    Nessuno lo contraddisse e quindi riprese la parola.

    «La Biosabre sta effettuando ricerche sia in laboratorio che sul campo. Per questo motivo abbiamo inviato sei dei nostri ricercatori in zone dove erano presenti principi di focolai di infezione. Purtroppo, poche ore dopo oltre il 95% della popolazione risultava infetto e quindi le intere aree sono state dichiarate in quarantena. Solo un ricercatore è tornato indietro con dati e campioni importanti.»

    Il Pinguino sorvolò su cosa avesse dovuto passare quel ricercatore per riuscire a tornare indietro dalla zona di quarantena.

    Sorvolò sul fatto che, in mancanza di protocolli di sicurezza per gestire quanto stava accadendo, i governi avessero inventato la quarantena per inibire ingressi ed uscite dalle zone dichiarate infette. Non potendo però sigillare cinquecento, o anche mille chilometri quadrati, il Governo faceva intervenire l’Esercito. Venivano bloccate le principali vie d’accesso istituendo degli strong point[5], laddove invece non erano presenti strade, come ad esempio valichi di montagna e principali sentieri nei boschi, venivano dislocate pattuglie di ronda nei punti dove era più probabile una potenziale fuga, così da assicurarsi che nessuno, morto o vivo, uscisse dall’area. Ma a dispetto delle misure di sicurezza messe in atto, qualcuno dei sopravvissuti alla piaga riusciva a fuggire dalle zone a rischio attraversando le aree urbanizzate o tagliando per i campi il più in fretta e silenziosamente possibile, lasciandosi alle spalle orde di famelici divoratori. Raggiunto il perimetro però, il risultato per questi fuggitivi, era quello di essere sistematicamente colpiti a vista dai militari, i quali dal canto loro non si curavano troppo di essere precisi cercando di abbattere sul colpo il malcapitato. Vuoi per coscienza – non è facile uccidere un uomo disarmato in fuga per la sua vita – vuoi per vigliaccheria, vuoi per divertimento, vuoi perché non tutti sono bravi a sparare, spesso i fuggitivi non venivano fulminati all’istante da una scarica di colpi. Il risultato era quindi che questi disperati morivano dopo ore di agonia a causa delle ferite. Morivano per poi rialzarsi e camminare nuovamente ed essere abbattuti per la seconda volta dagli stessi soldati che non erano stati capaci di ucciderli al primo colpo.

    La risposta del Governo era questa: impedire la diffusione con ogni mezzo.

    Non importava se ancora non fosse chiaro come si diffondeva il virus, o se non fossi infetto.

    Eri stato nella zona di quarantena?

    Allora dovevi necessariamente essere infetto. Dovevi restare lì e non dare fastidio. Dovevi restare lì e morire senza disturbare chi stava lavorando per risolvere il tuo problema. I risultati di questo sistema però erano scarsi e il problema non lo risolvevano affatto. Anzi, lo peggioravano. Spesso questi strumenti di repressione e prevenzione avevano luogo a ridosso della zona infetta, con il risultato che i divoratori nelle vicinanze venivano attirati dal rumore dei colpi esplosi per uccidere i disperati in fuga.

    A quel punto i bravi soldatini per abbattere i pochi infetti arrivati alla festa sparavano ancora, incuranti di offrire così una direzione sonora per altri non morti.

    Era quando gli infetti cominciavano a essere tanti che – anche se lenti – diventavano una minaccia concreta persino per i bravi soldati che però armati pesantemente e pieni di munizioni, rimanevano comunque ligi al proprio dovere fino

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1