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Anomalia
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E-book776 pagine11 ore

Anomalia

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Info su questo ebook

Nell’Ammasso Stellare Zero, la civiltà prospera grazie ai sorprendenti progressi raggiunti dalla ricerca scientifica. Il sistema predittivo di Bionneq è il suo più riuscito traguardo ma qualcosa sta per cambiare...

... un’Anomalia, un elemento che sfugge agli algoritmi predittivi e che rischia di condurre la civiltà sull’orlo dell’ennesimo e stavolta definitivo Annientamento. Questo almeno è quello che sostengono le alte cariche governative. Ma chi si cela davvero dietro l’enigmatico Edward, potente consigliere che sembra orchestrare l’intero corso degli eventi? Qual è il reale scopo della task force antiterroristica da lui instituita?

Un portentoso scenario futuristico in cui il peso del passato determina il presente, costringendo tutti i personaggi coinvolti a trovare il coraggio di rompere lo specchio delle apparenze per la ricerca della verità.

LinguaItaliano
Data di uscita26 dic 2018
ISBN9780463846643
Anomalia
Autore

Nicola Marco Camedda

Nicola ama scrivere romanzi e racconti ambientati in sistemi stellari situati in luoghi ed epoche a noi ancora sconosciuti. Storie popolate da donne e uomini impegnati a sopravvivere in mondi dove umanità, tecnologia e progresso si intrecciano fra loro in spirali dai confini sempre più labili.È ideatore e autore della saga “Star Cluster Zero” – una space opera ricca di azione e avventura, con salde radici nella Fantascienza classica, capace di esplorare tematiche e suggestioni assolutamente attuali.Nicola loves writing novels and short stories set in star systems located in places and times still unknown to us. Stories populated by women and men committed to surviving in worlds where humanity, technology and progress intertwine with each other in spirals with increasingly blurred borders.He is the creator and author of the "Star Cluster Zero" saga - a space opera full of action and adventure, with firm roots in classic science fiction, capable of exploring absolutely current themes and suggestions.

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    Anteprima del libro

    Anomalia - Nicola Marco Camedda

    CAPITOLO 1 - IN FUGA

    «Sai sparare?»

    Gambe in spalla senza voltarsi indietro.

    Il cuore pompava forte, l’aria raschiava la sua gola. Sapore di sangue. Sentiva male dappertutto, ma l’adrenalina faceva il suo dovere. La paura di finire nelle loro mani era il miglior incentivo per stringere i denti e continuare a correre. Chiunque essi fossero. Meglio scoprirlo un altro giorno.

    Gambe in spalla senza voltarsi indietro.

    Perché a me? Cosa volete? Perché non mi lasciate in pace? E soprattutto, chi siete? Smise di chiederselo.

    Ciò che contava in quel momento era uscire dal settore e mettersi in salvo. In qualunque modo. Prendere una decisione in frazioni di secondo. Non cedere al dolore, alla stanchezza, non farsi prendere da quella gente. Tutti quei pugni misero in silenzio ogni interrogativo. Quel tunnel abbandonato della metro era più lungo del previsto. Non era certo se tutte le porte laterali fossero sigillate. Non aveva tempo per fermarsi a scoprirlo. L’eco dei loro passi si faceva più forte, le loro voci più vicine. Impartivano ordini, gergo in codice: professionisti.

    Il tunnel era poco illuminato. Molte luci spente, alcune a intermittenza. I box laterali dei negozi ed esercizi erano chiusi. Le mura dipinte di scritte colorate, opera di vandali. Slogan contro qualsiasi cosa ricoprivano i messaggi istituzionali. Ancora distinguibile una vecchia insegna della Thebes Aerospace Line, con tanto di hostess sorridenti e famiglie festanti. Molto vintage.

    Al termine si intravedeva un bagliore. Alla fine di quel lungo corridoio in disuso, forse un settore connesso alla rete funzionante. Laggiù, vagoni della Thebes Metro in cui potersi infilare e tanta gente tra cui nascondersi. L’Olimpo dei fuggitivi. Ma sapeva che sarebbe stato quasi impossibile arrivarci. Trascorreva gran parte del suo tempo all’Università calcolando cose, numeri, equazioni, probabilità. Era poco incline alle facili illusioni. E se anche ci fosse riuscito, i suoi "simpatici" inseguitori gli avrebbero di sicuro fatto trovare un bel comitato di accoglienza. Non erano dilettanti. Chiunque essi fossero. Impartivano comandi, direttive, abbaiavano con ordine e ritmo. Erano connessi con qualche centro di comando remoto, forse in superficie o chissà dove. Appena giunti, i loro microdroni ripristinarono la connessione nel settore. Il segnale avrebbe tenuto, almeno fino alla prossima bravata degli hackerpunk. Il tempo scorreva sempre più veloce e quelli avanzavano. Mise una mano in tasca. Estrasse i suoi cyber glasses hackerati. Si rammentò di averli conservati all’interno della sua giacca sportiva, prima della colluttazione. Alcuni modelli Sanchez Blastaand erano un po’ delicati, ma quelli fornitigli dal dottor Arkenhost erano dotati di una speciale montatura rinforzata.

    Se c’è connessione per voi, deve esserci anche per me. Pensò. E così fu. Lanciò un comando vocale: «Scansione: tunnel. Ricerca passaggi laterali aperti percorribili e visualizza».

    La app di scansione ambientale a corto raggio gli fornì un risultato. C’era un vecchio boccaporto di servizio ancora aperto, sulla destra. Lo avrebbe condotto direttamente verso il secondo livello sub-superficie, nel settore commerciale ovest. La cattiva notizia, era situato alle sue spalle. Il rischio era quello di andare incontro proprio ai suoi inseguitori. Chiunque essi fossero.

    «Questi sono i momenti in cui vorrei un paio di arti modificati». Pensò, sputando sangue nel pavimento ormai opaco, stringendo le mascelle e recuperando tutto il fiato possibile.

    I giovani a Sparta iniziavano fin da bambini a praticare discipline atletiche, nuoto, arti marziali, sopravvivenza. Certo non era vantaggioso come possedere degli arti bioelettromecha potenziati. Tuttavia questo era ciò che passava il convento. Così, senza pensarci troppo, si voltò e si lanciò in corsa verso il boccaporto. E verso i suoi inseguitori, con la speranza di arrivare al passaggio prima che questi iniziassero a svuotare i loro caricatori su di lui.

    «Altolà! Fermati! Non abbiamo intenzione di spararti!» Intimò freddamente una voce femminile fra la squadra di inseguitori.

    «Buono a sapersi». Pensò lo studente.

    «... venti metri...»

    «... quindici metri...»

    Mancavano ancora dieci metri dal portellone di quella vecchia uscita laterale.

    «Posso farcela».

    Invece no. La porta si aprì fulminea e ad accoglierlo si presentò un fucile d’assalto Kelter a guida infrarossi, maneggiato da un tale in passamontagna e abbigliamento tattico. Nessuna insegna federale planetaria, né interplanetaria.

    «Ok, avete vinto».

    «In ginocchio, mani sopra la testa e dita incrociate». Ordinò la stessa voce femminile di prima, ormai giunta insieme a tutta la squadra.

    «Non mi leggete i miei diritti?»

    «Non ci interessano i suoi diritti».

    «Chi cazzo siete?!»

    «Signor Johnson, c’è stato un malinteso. Sono spiacente per quanto è accaduto poco fa con l’agente... insomma con uno dei nostri».

    «Siete della Polizia? Non vedo distintivi».

    «Ma deve comprendere, Johnson, lei non è stato molto collaborativo. Tutt’altro. Così il comando ha deciso di rivedere i programmi su di lei».

    «Ma di che cosa parli?»

    «Oltretutto, lo ha conciato veramente male». Disse ridendo rivolgendosi ai suoi uomini, tutti in tenuta tattica e con il viso coperto.

    «Non siamo neanche certi che riesca a farcela. Ma questo al momento è l’ultimo dei suoi problemi».

    «È stata legittima difesa, volete sbattermi dentro?»

    «Signor Johnson, per quel che ci riguarda i test sul campo sono terminati. Continueremo ad analizzare la conformità con i pattern comportamentali previsti, all’interno di una nostra struttura remota».

    «Ma di cosa stai farneticando?»

    «Verrà internato in una nostra struttura per tutti i test futuri e oltre. Può dire addio ai mondi che ha finora conosciuto. Almeno per il momento».

    Non aveva certo idea di chi fossero quei pazzi. L’unica cosa sicura era il risuonare nella sua mente di parole tipo detenzione. Internamento. Test futuri. Di qualsiasi cosa si fosse trattato, lui sarebbe stato l’obbiettivo. Pensò che fosse meglio farsi sparare sul posto. Meglio giocarsi tutto.

    KLAAANG! KLAAANG! RA-TAA-KLAAANG!

    Diversi boccaporti e vecchie botole collegate ai cunicoli laterali vennero aperti dall’esterno, in modalità analogica. Un rumore di ferraglia metallica annunciò l’irrompere sulla scena di una silente orda di giovani e meno giovani. Vestiti di scuro, in pelle, mimetiche, giacche di team sportivi o band musicali, con cappucci calati sopra il volto, maschere anti-bioarmi, visori tattici (contraffatti), protezioni da combattimento e fucili d’assalto Kalarsh puntati a tutto spiano.

    «Gettate le armi e lasciate il ragazzo. Subito!» Intimò una voce metallica, dal tono vagamente femminile. Un velo tradizionale proveniente dal pianeta Aksum le ricopriva il capo, una vecchia felpa nera raffigurante lo stemma del Dharma faceva il resto. Visori tattici e mascherina anti contaminazioni spezzavano quell’immagine dal tocco esotico, conferendole un carattere deciso.

    «Credi che usando un filtro di disturbo vocale non saremo in grado di identificarti e fartela pagare? I nostri droni sono già al lavoro». Rispose sorridendo l’inseguitrice donna, dal profondo dei suoi occhiali scuri, sistemandosi i capelli biondi, legati.

    BLAAAAM!

    Un colpo singolo di Kalarsh fece saltare in aria la rotula di un inseguitore in mimetica nera. Le sue urla squarciarono il silenzio. I droni nel frattempo avevano ripreso a roteare in formazione, alla ricerca di un nuovo segnale di connessione da ripristinare.

    «I tuoi droni non possono fare un bel niente. Quindi non lo ripeterò: giù le armi e in ginocchio, e nessuno di voi bastardi si farà più male». Gracchiò la voce metallica, forte di una buona superiorità numerica. E di fuoco.

    «Jamming... dovevo immaginarlo, dannati punk terroristi. Ok ragazzi, fate come dice. Ma stai tranquilla che non finisce qui». Rispose a denti stretti la bionda.

    Rapidamente gli hackerpunk raccolsero tutte le armi e gli apparecchi elettronici.

    «Veloci, non abbiamo tutta la giornata. Prendete tutto ciò che ci interessa e fategli fare un sonnellino. Non terminate nessuno, solo un po’ di sano stand-by».

    Fecero perdere i sensi a tutti gli otto membri della squadra. Usarono dei taser.

    «Avrei dovuto richiedere supporto tattico a Taallher». Disse la bionda rivolgendosi a un suo sottoposto, steso a fianco a lei. Era l’unica in abiti civili, sportivi. Lanciò un ghigno prima di finire stordita e svenire.

    «Dobbiamo muoverci, stanno arrivando!» Esclamò un ragazzo dal volto coperto con bandana pirata e cyber glasses con grossa montatura mimetica.

    Loro erano quelli del mordi e fuggi istantaneo. Non potevano sprecare altro tempo per levare i passamontagna a quella squadra operativa. Presto i droni avrebbero ripreso a funzionare correttamente. Una nuova precaria connessione avrebbe lanciato video, immagini e dati nel gorgo della rete di sicurezza planetaria e per loro non ci sarebbe stato più scampo. Come da prassi, il gruppo di tecno pirati lanciò i suoi biglietti da visita sul luogo del reato. Un’usanza retro vintage risalente a diversi secoli prima, negli ambienti commerciali e d’affari, ma probabilmente ancora in voga da qualche parte nell’Ammasso Stellare Zero. I bigliettini da visita recavano la scritta, in Neolingua variante ufficiale: «Hard Coder Army – Silence is the key».

    KLAAANG! KLAAANG! RA-TAA-KLAAANG!

    Porte e botole dei passaggi laterali si chiusero in modo analogico. L’orda vestita di scuro sgattaiolò nei meandri di cunicoli e sotto passaggi che conducevano a uno dei tanti loro covi. Come animali selvatici in un bosco di metallo, cemento, granito, alluminio, motori e circuiti. Con loro, sano e salvo anche Johnson, lo studente.

    «Grazie ragazzi per avermi salvato, vi s...». Johnson non riuscì a finire la frase. Gli infilarono in testa un copricapo nero, e lo strinsero per bene. Non era più in grado di vedere nulla e tantomeno di parlare.

    «Non preoccuparti, si va casa. Una delle nostre tante case». Disse la ragazza dal velo di Aksum, muovendosi con l’agilità e la circospezione di un gatto. Si incamminarono. Difficile per lui intuire la direzione del tragitto. Diversi chilometri a piedi, ma impossibile memorizzare tutte le svolte a sinistra e a destra, oppure tutti quei gradini in salita e in discesa. Si spostarono anche attraverso dei mezzi veloci. Capì che non erano vagoni della metro, bensì qualche mezzo usato dagli operai e robot per i lavori nei settori sub-superficie. Veicoli di manutenzione, ascensori bi-assiali, capsule da trasporto o quant’altro.

    «Se avessi un bulbo oculare modificato, potrei attivare un’interfaccia con mappa e tracciamento in tempo reale. Ma queste sono cose per privilegiati». Disse tra sé lo studente. Poi continuò a pensarci sopra. Trovava curioso che quelle tecnologie da lui padroneggiate con grande abilità fossero accessibili a pochi. Categorie esclusive, oppure veterani delle forze armate. A differenza di tanti suoi co-planetari, non nutriva grossi pregiudizi verso l’utilizzo degli impianti bioelettromecha. Il suo era un approccio più pragmatico. Favorevole a disciplinarne l’utilizzo e la diffusione, ma aperto ai potenziali benefici a favore della collettività. Del resto, quello era il suo ramo di specializzazione, presso la Facoltà di Biomechatronica di Thebes, nel pianeta Athenis.

    Gran parte dei suoi amici e parenti non smisero mai di biasimarlo per quella scelta. A dir loro, avrebbe potuto effettuare gli stessi studi iscrivendosi in una qualsiasi Università Spartan. Ma lui no, smaniava dalla voglia di mettere il naso fuori, vedere la famosa Thebes, capitale dell’Alleanza Interplanetaria e centro della vita culturale ed extra mondana di tutto l’ecumene spaziale. La Big Cold War ormai era solo un ricordo nella mente dei più vecchi. Per lui non esistevano nemici ad Athenis o in qualsiasi altro pianeta del Sys.star_2 o altrove. Quindi perché non tentare la fortuna a Thebes?

    Fece il possibile per concentrarsi sul tragitto. Non aveva idea di quanto ancora sarebbe durato. Era stanco e non vedeva l’ora di arrivare. Non poteva comunicare con nessuno, doveva solo camminare. Decise di prestare attenzione ai suoni circostanti, il rumore dei passi sul terreno, il ronzio di generatori e motori, segnali di notifica. Ma niente da fare. La sua mente girava sempre attorno a un pensiero. L’immagine di quella ragazza dal velo di Aksum. Il suo viso coperto, misterioso. I suoi comodi pantaloni da palestra coperti da ginocchiere e para tibie in polimeri resistenti. I visori, il respiratore, il Kalarsh.

    «Chissà se anche il suo volto è aggressivo quanto il suo abbigliamento».

    Via il cappuccio nero. Finalmente. Qualche istante per rimettere a fuoco la vista, poi si guardò intorno. Realizzò di trovarsi in quello che ipotizzò essere il covo di quei ragazzi. Era la parte agibile di un vecchio hangar dismesso, pieno di computer e attrezzature elettroniche. Doveva trattarsi di un vecchio stabilimento industriale, oppure di mezzi di trasporto, considerando l’altezza del soffitto, almeno più di venti metri. Da un rapido sguardo pensò fosse tutto connesso in rete. A giudicare dalle forme e dalla disposizione, tutte le apparecchiature dovevano essere dotate di sistemi di autodistruzione anti sabotaggio e sistemi di rimozione rapida. Era un’enorme workstation mobile.

    «Non male» disse tra sé, «mai visto niente del genere».

    Nelle pareti campeggiavano slogan più o meno rivoluzionari. Contro il sistema, contro Athenis, contro Sparta, contro Okean, Aria e via dicendo. Contro tutto e tutti.

    «Dei bolliti totali». Questo è ciò che pensò di loro guardandosi intorno. Tuttavia si convinse che non era il caso di collezionare ulteriori nemici, vista la giornata. Stabilì che quegli hackerpunk, come li chiamavano i media, sarebbero potuti essere anche pirati, terroristi, o qualsiasi altra cosa. Ma, in quel momento non era affar suo. Lo avevano sottratto dagli artigli di quelle bestie feroci e questo era ciò che più contava. E chissà, forse avrebbero potuto aiutarlo a uscire dal letamaio in cui era inesorabilmente sprofondato. Anche se non aveva la più pallida idea del perché lo avessero fatto.

    «Ragazzi, come dicevo... vi sono grato per avermi salvato la pellaccia. Se non vi dispiace, ora vorrei una birra».

    I ragazzi della squadra di soccorso erano intenti a levarsi i copricapi da battaglia. Nessuno gli rispose. Ma c’erano altre persone, non presenti durante il salvataggio, gente intenta a lavorare su computer, decodificatori, jammer, interfacce, ologrammi, ecc. Uno di essi si voltò e dopo essersi avvicinato disse fissandolo negli occhi, ma rivolto alla ragazza dal velo di Aksum.

    «Shanya, quindi è per questo qui che hai deciso di farci rischiare il culo?»

    «Lok, mi sembrava che fosse tutto chiaro. Ci siamo riuniti, abbiamo discusso e abbiamo votato. Come al solito».

    Il velo di Aksum ora era sistemato a mo’ di sciarpa attorno al collo, lasciando il volto e il capo completamente scoperti. Un viso dalla pelle color ebano chiaro su cui spiccavano due occhi di giada. Un nasino all’insù le conferiva un’aria furba e seducente, forse anche un po’ capricciosa.

    «Non preoccuparti. È tutto a posto». Disse Lok, uno degli hackerpunk. Non propriamente un nerd di quelli che venivano rappresentati al cinema, fisicamente più simile a un bisonte. Nel frattempo si accinse a passare uno scanner intorno al loro ospite, per assicurarsi che il corpo fosse privo di modifiche ostili.

    «Pulito». Disse svogliato Lok.

    «Potrei riavere i miei cyber glasses, cyber ears, microdroni eccetera eccetera?»

    «Al termine, quando andrai via di qui». Rispose Lok.

    «Dunque, signor Tesla Johnson, è ora di parlare. Ma prima facciamo conoscenza, io mi chiamo Shanya, Shanya Elistarth».

    «Io, io mi chiamo... Tesla, piacere, Tesla J...»

    Balbettò Tesla. Non aveva mai visto una ragazza così bella. Mai.

    «Lo so come ti chiami» disse ridendo, «te l’ho appena detto. I nostri software fanno così, ti identificano non appena metti piede in un nostro settore».

    Scoppiarono quasi tutti a ridere.

    «Grazie, comunque. Senza, senza di voi non...»

    Shanya lo interruppe con sguardo accigliato: «Amico, inizio col dirti che non è tutto oro quello che luccica. Cioè sì, noi ti abbiamo salvato, ma sarebbe meglio dire: io ti ho salvato. Abbiamo discusso duramente per prendere o meno questa decisione. Ci siamo scontrati. C’era poco tempo e sicuramente non abbiamo valutato in modo approfondito tutte le implicazioni del caso. Fortunatamente per te, io ho vinto la votazione. Vieni... venite tutti, continuiamo la discussione al tavolo centrale, Baldasar, per favore puoi portarci birre e panini? Grazie. Dicevo? Ah sì, perché ho deciso di intervenire? Nonostante io sia il capo qua dentro, le decisioni vengono prese in modo democratico. Questo è ciò in cui crediamo qui. Amico, devi sapere che i tizi che ti hanno dato la caccia li vediamo spesso anche da queste parti. Troppo spesso. E questo non ci piace. Cioè vengono qui, ficcano il naso nei nostri depositi abbandonati, nei nostri spazi. Sai, noi cambiamo molto spesso i nostri luoghi. Come facciamo nello spaceweb, noi rimbalziamo di qua e di là nella rete di sub-superficie metropolitana. Questi non sono polizia, non sono esercito, tanto meno intelligence e se sono privati non riusciamo a risalire a nessuna organizzazione. Perfino le persone in borghese sembrano non appartenere a nessun database. Sì, questo per noi è frustrante... ci manda in crash. Non sappiamo cosa li spinga da queste parti. Altre gang tipo la nostra, cioè gente che a voi piace chiamare "hackerpunk", ci hanno riferito di persone scomparse nelle diverse community. Non abbiamo preso molto sul serio queste teorie, finché non abbiamo visto il tuo inseguimento. Ci è sembrato un tentativo di rapimento».

    «Quindi mi stai dicendo che avete votato la decisione di salvarmi proprio mentre quei tizi mi inseguivano?» Chiese Tesla, sbalordito.

    «Già. Rapidi vero? Se fossimo noi al potere le cose andrebbero certamente meglio nello Star.cluster_0». Disse sorridendo Shanya.

    «Che gli Dei vi benedicano». Disse calmo Tesla, sorseggiando la sua birra.

    «Non farti illusioni. Sei una fonte di informazioni per noi. Cioè a me fa piacere averti salvato la vita. Purtroppo, non tutti sono d’accordo con me. Lok, ad esempio, teme che tu possa essere un doppiogiochista. E in tanti ancora sono convinti che ho fatto correre un rischio inutile a tutto il collettivo. Quindi, e stampatelo bene nella mente, tu sei un mio investimento in termini di credibilità e potere qua dentro. Non deludermi, non fare passi falsi, non farmi pentire di aver fatto quello che ho fatto, altrimenti dovrò terminarti con le mie mani».

    Shanya chiuse il suo discorso mimando una tecnica di demolizione articolare col gomito. Sbattendo il boccale di birra sul tavolo Lok intervenne, visibilmente irritato: «Senti Spartan. Niente di personale. Qui nessuno ce l’ha con nessuno. Ma si tratta di sicurezza. Io non avrei mai sprecato neanche una goccia di sudore per andare a salvare il tuo culo. Ma per tua fortuna, Shanya ha un cuore d’oro. A me, invece, interessano solo le informazioni che puoi fornirci. Perché qui c’è qualcosa di grosso in ballo e non possiamo farci trovare impreparati».

    Tesla, perplesso e lievemente infastidito: «Ma non potevate prendere uno di quei miliziani? Avreste potuto interrogarlo in tutta comodità. Anche tu Lok... che mi sembri il duro della situazione, quello dalle maniere forti».

    Shanya, dopo aver scambiato un paio di sguardi con i suoi compagni, lo interruppe dicendo: «In realtà, pochi giorni fa abbiamo fatto un altro tentativo. Abbiamo preso un tizio che continuava a ficcare il naso da queste parti. Rientrati al rifugio ci ha fatto un bello scherzo. Il bastardo aveva un paio di bulbi modificati, ha iniziato a registrare ogni persona, ogni cosa e a inviare i dati al suo comando. I nostri sistemi di sicurezza hanno impiegato quasi 4 minuti prima di individuare la sua attività. Ha eluso i nostri scanner; ora grazie agli Dei li abbiamo riconfigurati. Abbiamo dovuto terminarlo, distruggere tutti i supporti di memoria, scappare e trasferirci in un’altra tana, tutto in tempo record. Ma il gran casino è stato quello di riuscire a riparare i danni e coprire le nostre tracce nella cybersfera. Ci stiamo ancora leccando le ferite».

    «Ok, ragazzi. Si può fare. Vi racconto la mia storia. Ve lo siete meritato. È da un paio di mesi che ho iniziato a...»

    Tesla venne interrotto bruscamente da Shanya: «Hei amico circoscrivi il campo. Della tua infanzia ne parleremo un altro momento, ok? Vogliamo sapere perché sei venuto in un nostro settore e cosa volevano quelle persone da te. Non riusciamo a raccogliere informazioni sufficienti su questa gente. Non è mai accaduto prima. Perciò sono convinta, siamo convinti, che tu possa aiutarci a saperne di più».

    «Quindi è solo per questo che mi avete salvato? Saperne di più. E della mia vita? Quelli mi avrebbero ammazzato, o portato chissà dove...» Disse Tesla con tono indignato.

    «Senti Spartan, ritengo sacra ogni vita umana. Salvo un sempre più vasto range di eccezioni. Ci trovavamo con la nostra squadra in missione da quelle parti, fortunatamente per te. Ho capito che eri in pericolo. Questo ha fatto di te un loro nemico. E sai, il nemico del nostro nemico è un nostro amico. Non ti basta? Ora tocca a te».

    Dopo un altro sorso di birra, Tesla ci pensò su, poi disse: «Basta eccome. Anzi, sono in debito con voi».

    Questa frase destò interesse anche presso i più scettici nei suoi confronti. Tutti si voltarono per ascoltarlo.

    «Bene, ieri notte il mio appartamento è stato messo a soqquadro da sconosciuti. Hanno distrutto diversi oggetti a me cari. Ma non hanno portato via niente. Ho avvertito la Polizia, ma non sono passati. C’erano emergenze più importanti, tanto per cambiare. Si sono limitati a dirmi come poter sporgere denuncia e altre stronzate burocratiche. Ma non è la prima volta che accade. È parecchio tempo che trovo cose fuori posto nella mia abitazione. Ho notato persone che mi seguono. Molto abili, sempre visti di spalle e sempre scomparsi dietro l’angolo. Credo che il farsi notare faccia parte del loro gioco. Sapete, ho anche pensato che qualcuno si stesse divertendo a farmi diventare pazzo. Ma il colmo è stato raggiunto quando hanno...»

    BOOOOM! BOOOOM! BOOOOM!

    Le esplosioni in più punti del covo annunciarono l’irruzione di un commando avvolto da una nube di detriti e gas asfissiante non letale. Volevano prigionieri. Penetrarono sfondando il soffitto in alto, utilizzando un condotto dell’aria. Un altro gruppo irruppe buttando giù il muro dei bagni o della cucina, nell’ala nord di quel vecchio hangar. La loro vendetta non aveva tardato a manifestarsi. Chiunque essi fossero. Qualcuno fra i giovani ribelli tecnologici tentò di impugnare le armi ma venne terminato senza pietà. Tesla fu rapido durante la deflagrazione a lanciarsi verso Shanya, facendole da scudo contro i detriti che volavano da ogni parte. Strisciarono fino a nascondersi sotto un tavolo coperto da computer e apparecchiature elettroniche.

    «Sai sparare?» Chiese Shanya porgendogli la pistola che teneva nella fondina sopra la caviglia. Nell’altra mano ne impugnava un’altra.

    «Dai qua». Disse a denti stretti Tesla. Lui odiava quelle cose.

    Addestrarsi, studiare, correre, combattere, sparare, sopravvivere e poi di nuovo da capo, ripetere, ripetere, fino alla nausea. Il sistema educativo di Sparta. Lui aveva sempre preferito fare altre cose. Visitare luoghi mai visti prima, apprendere nuove tecnologie da porre al servizio di tutti. Migliorare la vita di ogni essere vivente, in tutti i pianeti. Amava raccontare a se stesso di essere cambiato, di essere diverso dagli altri. Aveva abbracciato un nuovo stile di vita, preso in prestito da una società in cui le discipline belliche erano relegate al solo mondo militare. Ma il precipitare degli eventi, il pericolo e l’adrenalina lo resero identico a qualsiasi altro Spartan che si fosse trovato nella medesima situazione. Senza accorgersene, si ritrovò immerso nell’azione. Lucido, freddo, sprezzante del pericolo fin quasi alla follia. Votato al sacrificio per qualcosa di più grande del proprio ego.

    Era questo che non sopportava, di se stesso, di Sparta, di quell’onnipresente retorica e oppressivo sistema educativo: in quelle situazioni di emergenza era fottutamente utile.

    «Dobbiamo uscire di qui. Hai qualche idea?» Chiese stringendo la spalla della ragazza dal velo di Aksum.

    «Laggiù, oltre il bancone del bar, c’è una botola. Dobbiamo arrivarci. Ho questa» Shanya mostrò una micro-granata ad alto potenziale, «non possiamo lanciarla ora, rischierei di far fuori i nostri. Ma possiamo usarla per far saltare la botola, li terrà impegnati per un po’. Il punto è come cazzo ci arriviamo».

    «Tu coprimi, al mio via fuoco di copertura. Io salto il bancone e sarà il mio turno per coprirti, a quel punto toccherà a te correre e saltare il bancone. Te la senti?»

    «Sì Spartan, sono pronta. Così mi piaci».

    «Al mio tre, due, uno, viaaaa!»

    Shanya iniziò a sparare. Sapeva farlo. Colpi veloci e mirati con pallottole modificate per penetrare i punti deboli nelle protezioni standard dei miliziani. Anche quello era hacking per lei. Ostacoli e avversità della vita erano ai suoi occhi nient’altro che perfidi firewall da violare, scassinare, aggirare, ingannare e se necessario abbattere. Ma non era sempre stato così.

    Mirò alle gambe di un assalitore che cadde facendo inciampare un paio dei suoi sodali. Questo le diede il tempo di piazzare un’altra manciata di colpi perfetti. Stavolta letali. Ma ne stavano arrivando altri. E altri ancora. Pochi istanti e non avrebbero avuto più scampo.

    Come diamine ha fatto ad essere già lì?

    Pensò Shanya, vedendo Tesla già al riparo, pronto a fornire il suo fuoco di copertura. Così fu il suo turno. Scattò veloce come un felino in fuga, pronta a tuffarsi oltre il bancone. Finì sopra qualche bottiglia, ma fortunatamente le sue protezioni resero il tutto meno doloroso. Non sopportava tutta quella polvere e detriti sopra di lei, sopra quelle ciocche lisce color castagna che a mala pena le sfioravano le spalle. Strisciò sugli avambracci fino alla botola, e dopo averla aperta fece cenno a Tesla di seguirla. Avrebbe voluto restare lì a combattere insieme alla sua gang di ribelli, ma sapeva che non c’era più niente da fare. La sua era un’indole altruista. Ma solo verso chi, ai suoi occhi, rappresentava qualcosa di simile a una famiglia. La sua famiglia. I suoi compagni dicevano avesse un gran cuore, e a modo suo era generosa. Ma sapeva quando era il momento di escludere quelle funzionalità sentimentali e cedere il comando alla sua mente. Analitica e propensa al rapido calcolo, Shanya era consapevole che in quel momento non sarebbe mai riuscita a salvare i suoi amici. Tutte le variabili erano a sfavore. L’eroismo non sarebbe servito, non stavolta.

    Sotto la botola, la ragazza dal velo di Aksum applicò nel punto giusto la micro-granata. Dieci secondi, poi frastuono, detriti e un po’ di tempo prima che quegli sgherri potessero riuscire a liberare il varco. Ancora correre, veloce, sempre più veloce.

    «Sai, io non sono di queste parti...» Le disse con un po’ di affanno Tesla.

    «Non preoccuparti» fece Shanya pulendosi la bocca da polvere e calcinacci, «conosco un posto carino, ti va di seguirmi?»

    Nonostante quella situazione pazzesca, Tesla riuscì a strapparle un sorriso: «Non vedo l’ora di vederlo, questo posto così carino».

    «Allora amico, risparmia il fiato».

    Corsero verso un paio di tunnel, svoltarono un paio di volte a destra e una a sinistra. Dopo aver strisciato su un condotto di areazione, sgusciarono fuori, sotto una piccola piattaforma di smistamento. Era un’area circolare di non più di dieci metri di diametro, con sei boccaporti che conducevano chissà dove.

    «E ora?»

    «E ora, non ricordo. Maledizione. Quale di queste sei discese?»

    «Forse questi possono esserti utili». Fece Tesla, estraendo i suoi cyber glasses da una tasca interna della giacca. Li indossò e rapidamente sblocco le protezioni retinali. Creò al volo un utente ospite con i privilegi necessari, lo fece fissando le iridi color giada di Shanya.

    «Tieni, sono più utili a te ora. Ho trasferito il grosso delle interfacce a sinistra, perché a destra sono danneggiati».

    «Amico, sei un grande».

    Shanya indossò quel paio di cyber glasses e subito inviò una sequenza di comandi diretta all’applicazione di ricerca. Preferiva di gran lunga utilizzare le interfacce vocali. Ma era anche abile nel lanciare sequenze di comandi misti, vocali e visuali di tipo UNI (User Neural Interface). Si mise in azione, con impressionante velocità. «... ala nord-est, comparto 1562 A2, Area 44B, piattaforma smistamento materiale militare... correzione: piattaforma smistamento materiale civile, visualizza: discesa hangar lancio modulo di trasporto disponibile... sblocca e apri».

    Niente.

    «Fanculo! La porta è questa ma non si apre!» Esclamò Shanya indicando il boccaporto giusto.

    «Non abbiamo molto tempo...»

    «Non mettermi fretta, amico. Ok, stai calma Shanya, lo sai che sei più dritta di questo figlio di puttana».

    «Deve esserci qualcosa, qualcosa che impedisce...»

    «Aspetta. Hai ragione. Deve esserci una protezione. Sei un fottuto genio Tesla, lo sai?»

    «Veramente io non ho detto nulla».

    «Lo so, amico. Era giusto per darti un po’ di soddisfazione».

    Voltandosi verso il boccaporto, Shanya lanciò un’altra serie di comandi: «Apri interfaccia connessione, connetti su bsp://spacecloud-proxy-stealth-brutus-ceres-dakota-yashin-kiss-0110101, correzione: connetti su bsp://spacecloud-proxy-stealth-brutus-ceres-dakota-yashin-kiss-0110100, verifica retina, apri app brute force...»Si inginocchiò di fronte al boccaporto della salvezza. Il sudore ghiacciato sulla sua fronte e lungo la schiena, i battiti cardiaci ormai più simili a una percussione tribale. Pose il palmo delle mani sulla lastra di freddo metallo e terminò la sequenza di istruzioni: «... comparto 1562 A2, Area 44B, piattaforma smistamento materiale civile, applica brute force a piena potenza, escludi tutte le altre funzionalità in background, esegui cazzo esegui, ho detto esegui!»

    KLAAANG!!!

    Aperto! Abbracciò Tesla stringendolo più forte che poteva.

    «Sììì!»

    «Sei stata straordinaria!»

    «Dai, muoviamoci».

    Dal boccaporto fuoriusciva una certa corrente d’aria fresca. Giù in fondo era buio, quello scivolo doveva scendere in profondità.

    «Inizia a muoverti, io devo chiudere e mascherare quest’intrusione, farò credere a quei bastardi che siamo usciti da quell’altro boccaporto, così ce li leviamo dalle scatole per un bel pezzo».

    «Agli ordini, ma non metterci troppo».

    «Non mandarmi in overflow, vai!»

    Era un comune scivolo per lo scarico manuale di pacchi, probabilmente risalente ai tempi della Guerra Interplanetaria. A Tesla parve divertente, almeno i primi trenta secondi. Poi divenne via via più ripido. Molto più ripido. Un po’ troppo veloce, finché iniziò a preoccuparsi sul serio. Sbucò fuori a gran velocità, strisciando a pancia in giù per una decina di metri, lungo quello che pareva essere un hangar sotterraneo da trasporto per usi civili. Il terreno era cosparso di polvere, sabbia, grano e quant’altro vi era stato riversato nel corso degli anni.

    «Buongiorno, signore, è lei il sostituto inviato dalla Cosmas Trasporti?» Disse un vecchio robot, con una divisa da fattorino e una gracchiante voce metallica.

    «Salve, omino di latta, non... sì, forse sono io».

    «L’ho attesa per ben 74 anni. Noi della Cosmas Trasporti siamo efficienti. Lei è efficiente? Spero che troverà di suo gradimento questo nuovo entusiasmante incarico».

    Sia il vecchio robot che Tesla si voltarono udendo un grido divenire sempre più forte.

    «UuuuuuuuuuuuUUUUUUUAAAAAAAAHH!!!»

    Proveniva dallo scivolo collegato col settore superiore. Era un urlo chiaramente femminile. Di gioia.

    «Che figata pazzesca!» Esclamò Shanya dopo aver spolverato il lurido pavimento per una decina di metri.

    «Ragazzi, era da tempo che non mi divertivo così».

    «Sei completamente fuori» disse ridendo Tesla, «comunque Shanya, ti presento... già, come ti chiami?»

    «Ah sì, lo conosco! Lui è Jim il fattorino. È qui da chissà quanto tempo. Ma sai, non può vedermi». Disse Shanya danzandogli di fronte, proprio davanti agli occhi vitrei color arancione.

    «Lo hai riprogrammato?»

    «Ovvio. Utilizziamo sempre questo hangar. Il modulo di trasporto, beh quello è da tanto che non viene usato. Io personalmente non l’ho mai preso, ma so come funziona. L’ho riconfigurato io per le emergenze e questa è un’emergenza, vero Tesla?»

    «Parole sante, Shanya».

    «Autorizzazione non concessa. Non sono certo che lei sia il sostituto inviato dalla Cosmas Trasporti. La prego gentilmente di tornare da dove è venuto e sgomberare quest’area. Autorizzazione non concessa. Non sono certo che lei...»

    SBAAANG!

    Shanya gli troncò via la testa con un calcio. Lo colpì con grande agilità, usando la propria tibia. Era una tecnica tipica del Dharma, un’arte marziale poco diffusa nello Star.cluster_0, ma molto popolare nel pianeta Aksum.

    «Dai, poveretto...» Fece sorridendo Tesla.

    «Tanto non sente niente, questo tostapane è ben lontano dal possedere una minima IA» disse ridendo la ragazza dal velo di Aksum, «non credo abbia una connessione attiva, altrimenti non sarebbe rimasto chiuso qui per chissà quanto tempo. A me non può vedermi, ma a te potrebbe averti già registrato». Aggiunse Shanya dopo aver strappato il supporto di memoria dalla schiena del robot. Si incamminarono verso il modulo.

    «Beh, non è come un vostro Drakard, però è comodo». Disse Shanya aprendo il portello di entrata.

    «Già, immagino».

    Era un vecchio modulo aggiustato e ristrutturato chissà quante volte, fornito di tutto il necessario per viaggiare in modo dignitoso. Pensato per gli spostamenti all’interno del pianeta, veniva adoperato dai fattorini per effettuare le consegne lungo tutto il globo, ma non oltre. Ma la cosa più importante: c’erano vestiti, una doccia rapida e un sistema di lavaggio istantaneo degli indumenti, vecchio ma ancora funzionante. E, soprattutto, cibo a lunga conservazione.

    «Non male questi della Cosmas Trasporti, guarda qui: abbiamo scatolette per sfamare un reggimento». Disse Tesla, soddisfatto.

    «Controlla la data di scadenza. Non vorrei esser sopravvissuta miracolosamente per poi finire ammazzata da questo cibo».

    Risero.

    «Ci sono anche dei vestiti, vediamo un po’, questo dovrebbe andarti bene». Disse Tesla lanciando una divisa verde da fattorino a Shanya, che rispose ridendo: «Ma sei matto? Mica sono così grassa!»

    «Uhmm le donne... tieni questi, allora».

    «Questi sono troppo aderenti! Tesla Johnson, sei uno sporcaccione!»

    Scoppiarono a ridere come ragazzini. Nel frattempo, Tesla preferì dare una ripulita ai suoi indumenti impolverati, dato che non trovò una divisa della sua taglia.

    Aveva spalle larghe, alto circa un metro e novanta, pesava intorno agli ottanta chili, con un fisico atletico ma naturale. Capelli e occhi corvini, un naso modellato da qualche pugno, tutto sommato ancora abbastanza dritto. Non aveva un carattere facile. La sua infanzia era volata via tranquilla, in una famiglia tradizionale, a Spartan City. Aveva vissuto gli anni dell’adolescenza in modo abbastanza isolato e schivo. Pochissimi amici. Crescendo, il suo carattere introverso era stato mitigato da una maggiore spigliatezza. Il suo era un cuore curioso che amava scoprire, conoscere e sapere sempre di più. Anche questo era stato fonte di attrito con suo padre. Il vecchio non smise mai di immaginarlo fieramente avvolto in una bella e ordinata divisa. Esercito o Flotta non faceva differenza, bastava che fosse una gloriosa divisa Spartan. Simbolo di sacrificio e dedizione di chi nei millenni aveva gettato sudore e sangue colonizzando mezzo Ammasso Stellare Zero.

    Ma Tesla era uno che non amava prendere ordini, e l’idea di vivere secondo schemi troppo rigidi non gli era andata mai troppo a genio. Fin da piccolo amava leggere, studiare, scoprire il funzionamento di ogni cosa. Voleva risposte e non si accontentava di quelle che otteneva dai grandi. Preferiva sperimentare di suo. Imparare, ricercare e fare di tutto per porre la scienza al servizio del prossimo. Questa era la sua passione. Il fatto che, nonostante tutto, eccellesse nelle attività fisiche e marziali rendeva il padre ancor più furioso. Talento sprecato, pensava.

    Quando Tesla decise di andare a studiare a Thebes, suo papà non la prese molto bene. Stettero più di un anno senza rivolgersi parola. Poi, col passare del tempo, ristabilirono un minimo di rapporto cordiale. Tesla, a suo modo generoso, era capace spendersi senza ritegno per ciò che riteneva giusto. A volte fino all’eccesso.

    Tuttavia nel profondo del suo animo albergava un senso di vuoto difficile da colmare. Pur non avendolo mai ammesso a nessuno, in cuor suo desiderava rendere suo padre fiero di lui. In segreto, sperava un giorno di poter essere finalmente accettato e amato per ciò che era. Senza bisogno di ricoprire alcun ruolo precostituito, o di dover indossare qualche divisa.

    «Spartan City abbiamo un problema».

    Disse ad alta voce Shanya, armeggiando con il terminale e il pannello dei comandi. Si era appena lavata e rivestita. Indossava i pantaloni della divisa da fattorino e una microscopica maglietta color mimetico rimediata negli armadietti del personale. Sembrava fatta apposta per lei.

    «Che succede?» Chiese Tesla, anch’egli ripulito e con una razione di cibo in mano.

    «Amico, non è ora di pensare al pranzetto. Abbiamo problemi nel tracciare una rotta».

    «Dicevi di aver configurato tu questo modulo?»

    «Già, ma qualcuno deve averci messo mano... troppi, troppi override del codice. Ci sono librerie integrate con i piedi. Amico, niente di irrisolvibile ma ci vorrà troppo tempo. Se ora provassi a modificare la rotta correrei il rischio di far saltare i codici di identificazione che avevo falsificato. Ci fermerebbero o abbatterebbero all’istante. Tutto questo mi manda in overflow!»

    «Hai pensato di resettare ripristinando la rotta di default?»

    Shanya, voltandosi lentamente, con lo sguardo di una bambina che è stata scoperta a rubare:

    «Assolutamente impossibile!» Poi scoppiando a ridere: «Fottutamente sì! Tesla Johnson... ci sarei arrivata anche senza di te, dannato secchione!»

    Ridendo, si misero al lavoro. Al termine, Shanya esclamò:

    «Ok, la rotta di default è stata ripristinata con successo, i codici di identificazione falsificati sono tutti ancora online, l’unico problema...»

    «È scoprire dove ci spedirà questo vecchio catorcio. Spero non in un centro abitato, altrimenti siamo fritti». Ribatté Tesla.

    «Vediamo un po’, dopo tanta sfiga un po’ di fortuna non guasterebbe. Miei Dei». Disse Shanya con le mani in segno di preghiera, in attesa che il terminale caricasse il percorso.

    «Beh dai, poteva andare peggio». Aggiunse la ragazza dal velo di Aksum, con un sospiro di sollievo. Tesla, anch’egli sollevato: «Sai che ti dico? Va benissimo. È un ottimo punto di atterraggio, anche se dalla parte opposta del pianeta. Ora controlliamo, il tempo di arrivo stimato è...»

    «Coooosa? Com’è possibile? Dodici ore?» Intervenne Shanya sbalordita.

    «Questa stima tiene conto del consumo energetico, condizioni generali del velivolo, stato delle paratie... aumentare la velocità sarebbe fortemente rischioso, potremmo saltare in aria».

    «Lo so, amico. Dai, vada per dodici ore. Nella vita bisogna accontentarsi».

    «Prendila così» disse, posandole le mani sulle spalle, «abbiamo tutto il tempo per mangiare, riposarci e riordinare le idee sul da farsi. Ci serve una strategia».

    «Ben detto. Ne usciremo. Vero che ne usciremo?»

    «Te lo giuro, Shanya, ne usciremo. Hai fame?»

    Dopo aver mangiato, Tesla si sdraiò nella cuccetta per riposarsi un po’. Shanya, silenziosa come un gatto, si infilò a fianco a lui. Senza dire nulla prese un suo braccio e lo pose attorno a sé, stringendosi a lui.

    «Raccontami come è andata. Cioè come è iniziata questa storia. Stavi dicendo che ieri notte degli sconosciuti hanno messo a soqquadro il tuo appartamento, e poi?»

    Tesla, tenendola stretta a sé, iniziò a raccontare la sua storia.

    CAPITOLO 2 - PROVOCAZIONI

    «Quando il vento tira forte è il momento di mantenere saldo il timone»

    Gli strani avvenimenti nella vita di Tesla erano cominciati ben prima dell’intrusione nel suo appartamento. Di tanto in tanto, durante qualche acquisto, i suoi conti risultavano azzerati, talvolta con grosse cifre in rosso. Altre volte, invece, apparivano somme incredibili. Poi come per magia il credito faceva ritorno ai valori reali. Pensò a qualche anomalia nei software bancari e non vi diede molto peso.

    Venne contattato un paio di volte dalla segreteria del suo corso di studi e gli fu richiesto di provvedere alla procedura di iscrizione, come condizione necessaria per sostenere un esame. Tutto ciò era fonte di imbarazzo e noia, dato che era costretto ogni volta a inviare i dati e le credenziali di registrazione. Per fortuna, la situazione tornava sempre alla normalità, essendo uno studente regolarmente iscritto.

    Di certo fu più imbarazzante quando la sua attività social iniziò letteralmente a impazzire. Messaggi minatori ad amici, insulti inviati a ex fidanzate. Mai scritti da lui, eppure partiti dai suoi profili. E quelle foto che lo ritraevano in una public house abbracciato a perfette sconosciute, inviate al profilo della sua fidanzata. Ex fidanzata. Pensò che qualcuno si stesse prendendo gioco di lui, con lo scopo di provocarlo, farlo andare di matto, forse intimidirlo o ricattarlo. Crebbe in lui la convinzione di essere seguito, pedinato, spiato. Di tanto in tanto notava delle persone dietro di lui, intorno a lui, per strada, in biblioteca, in aula, alla public house, fuori dalla palestra. Ma non riusciva mai a inquadrarne il volto. Persone viste sempre di spalle, una volta svoltato l’angolo parevano svanire nel nulla. Un lungo e sfibrante logorio psicologico.

    Nemmeno a casa era immune da questi bizzarri eventi. Oggetti posizionati in luoghi ogni volta diversi, senza che lui vi avesse messo mano. Cose mancanti, che miracolosamente riapparivano. E, infine, strane interferenze quando ascoltava musica o guardava un film. Era certo che niente di tutto ciò fosse frutto della sua immaginazione. Doveva esserci qualcuno dietro, e chiunque fosse doveva essere molto abile e furbo. Non uno scemo qualsiasi. Ma finora nessuno si era palesato, nessuno era uscito allo scoperto.

    Così il mattino dopo l’intrusione, uscì di casa. Portò con sé alcuni apparecchi che gli erano stati regalati dal Dottor Arkenhost. Microdroni, un paio di cyber glasses hackerati, micro cariche a impulsi NNEMP e diversi altri dispositivi. Tutte apparecchiature dotate di sistema operativo e software che il dottore si era divertito a ritoccare e modificare a suo piacimento. Applicazioni anti tracciamento, anti intrusione, rilevamento tentativi di monitoraggio, oltre a software di analisi e ricerche potenziate. Roba utile per poter svolgere le proprie attività in santa pace, in modalità stealth.

    Uscì di casa e si incamminò, comportandosi come al solito. Un bel Sun.star_2 splendeva sopra il cielo di Thebes, così regolò le lenti dei cyber glasses su una tonalità lievemente scura. Con circospezione decise di allungare il tragitto verso la facoltà, facendola apparire come una cosa normale. Guardò qualche vetrina. Mangiò un panino, salutò qualche amico incontrato qua e là.

    Nel frattempo deviò verso una zona d’ombra, che sapeva essere perennemente in assenza di segnale locale planetario. Il luogo ideale dove lanciare un paio di microdroni senza farsi notare troppo. Così fece, poi proseguì. I droni passarono immediatamente al setaccio un vasto perimetro intorno a lui. I suoi sospetti erano più che fondati. I cyber glasses della Sanchez Blastaand, modificati, iniziarono a ricevere meta dati, codici, indirizzi di connessione, coordinate, screenshot e filmati di una o più squadre attive sul campo.

    Contento, perché aveva finalmente la certezza di non essere pazzo. Spaventato, perché qualcuno stava giocando al gatto col topo e lui non era certo il gatto.

    Ricevette un’immagine con annessa posizione del tizio che lo stava seguendo, in tempo reale. Avevano un centro comando mobile, forse un velivolo remoto, dei droni e diversi operatori sul campo. I dati più precisi disponibili erano quelli relativi al più vicino. Si fece qualche domanda: Niente segni di identificazione. Strano. A chi appartiene? Terroristi? Crimine organizzato? Spie? Fanatici?

    I suoi microdroni dovevano mantenersi a una certa distanza e altitudine dal soggetto per non essere individuati. Arrivarono altre foto del pedinatore. Ma non era ancora possibile effettuare un riconoscimento facciale. Guardava sempre in basso.

    Professionisti. Pensò.

    Mantenne la calma. Come ripeteva sempre suo nonno, un vecchio militare: «Quando il vento tira forte è il momento di mantenere saldo il timone».

    Gli apparecchi del dottor Arkenhost funzionavano alla grande. Il centro comando e gli operatori ancora non sospettavano di esser stati intercettati. Merito di quei software installati dal dottore, capaci di mascherare le proprie operazioni fingendo normali attività, come connessione con i social, cattura di paesaggi, invio messaggi a contatti, chat, ricerca di locali di ristorazione, cinema, download multimediali, acquisti, checkup medici, analisi meteo, ecc. Ma non poteva durare in eterno.

    Quella mascheratura non sarebbe durata più di circa 3 minuti, al termine dei quali sarebbe stata facilmente individuata dai più avanzati sistemi di sicurezza. Era indeciso sul da farsi. Valutò se fosse il caso di andare fino in fondo, e se fosse disposto a pagarne il prezzo. Oppure, se l’alternativa migliore fosse quella di rientrare in casa e far finta che non fosse accaduto niente. Magari sperando che le cose potessero sistemarsi da sole, per miracolo.

    Richiamò i suoi droni prima dello scadere del tempo stimato per l’identificazione. Puntò i cyber glasses sui sensori dei droni inviando un comando manuale diretto. Così rimosse i dati, dopo averli salvati in forma criptata in un server remoto protetto. Terminata l’operazione, tirò qualche colpetto con la mano a uno degli apparecchi, fingendo che avesse qualche guasto. Lo fece per non destare sospetti. La città era piena di gente che girava con i propri microdroni svolgendo normali attività online e lui voleva apparire come uno dei tanti. Poi fece la sua scelta.

    Aveva bisogno di una zona d’ombra maggiore, un’area più vasta. E l’unico posto dove poterla raggiungere era in un quartiere hackerpunk occupato, all’altezza del terzo livello sub-superficie. Non aveva intenzione di arrivarci direttamente, ma scelse un percorso complesso, nel quale continuare a svolgere usuali attività diversive. Piccoli escamotage di sopravvivenza imparati nei camp ai tempi della scuola. A Sparta.

    Un ascensore biassiale lo condusse in profondità, nel cuore dei livelli sub-superficie. Era diretto al terzo livello, verso quello che sapeva essere un quartiere controllato dagli hackerpunk. Sapeva che in quell’area i ribelli bloccavano i segnali degli apparati di comunicazione planetaria. Le reti ufficiali erano per lo più oscurate, oppure funzionavano a intermittenza. Pensò che ciò avrebbe potuto assicurargli un qualche vantaggio sui suoi inseguitori.

    In quel luogo i candidi e rassicuranti colori delle culture Athenis arretravano, lasciando spazio alla realtà di quei sotterranei che ancora stentavano a integrarsi con l’esterno. Zone abbandonate, scritte sui muri, box e negozi chiusi, ricordi di antica miseria ormai passata, aree post belliche, vecchie tecnologie riciclate e riadattate. Sopravvivenza tecnologica, ribellione, provocazione.

    Scese dall’ascensore insieme a un altro paio di passanti che si persero ciascuno per la propria strada. Disattivò i cyber glasses e li infilò in una tasca della sua giacca sportiva. Scese delle scale, poi proseguì. Dopo un centinaio di metri, svoltò l’angolo. Di fronte a se un lungo tunnel sotterraneo. Negozi ed esercizi chiusi, sistema di illuminazione pubblico in avaria, porte chiuse o semi chiuse, buio, sporcizia. Era un tunnel di accesso alla metro ormai fuori uso e abbandonato. Ne attraversò la prima parte, fino alla biforcazione in fondo, poi svoltò a destra.

    Davanti a lui, sotto una guasta luce intermittente, una figura immobile lo scrutava. Tesla si fermò a osservarla, distante una quarantina di metri. Poi decise di andargli incontro. Di metro in metro, quella figura si faceva sempre più nitida. Una sagoma vestita in modo elegante e scuro. Ben piazzato, spalle larghe, fisico imponente, non un tipo qualsiasi. Tesla procedeva con passo lento e ordinato. E mentre lo faceva, gli tornò quello strano sapore in bocca. Sapore di pugni e lacerazioni, sangue e adrenalina.

    «Possibile che si tratti di quel tizio? Che cosa ci fa laggiù proprio adesso?» Si domandò. Gli venne in mente un episodio accadutogli qualche giorno prima. Seppur strano, non lo aveva associato a quella carrellata di bizzarri accadimenti che ormai accompagnavano la sua vita.

    Quella sera, Tesla aveva deciso di trattenersi più del solito in palestra. Il maestro gli concesse di restare ad allenarsi oltre l’orario di chiusura. Gli chiese solo di provvedere a chiudere la struttura, una volta terminato il lavoro al sacco. Poco prima di andarsene arrivò uno strano tizio. Infilandosi i guantoni si diresse verso il cerchio di combattimento. Senza proferire parola fece cenno a Tesla di salire. Quest’ultimo gli disse:

    «Amico è tardi, devo chiudere. Ripassa la prossima volta, in orario».

    Il tale poggiò i gomiti sulle corde e iniziò a fissarlo dritto negli occhi. Dopo alcuni istanti di silenzio che parvero un’eternità, proferì le parole magiche:

    «Hai forse paura, Tesla?»

    A quel punto rispose sicuro: «Bene, se è questo che vuoi».

    Tesla indossò di nuovo i guanti e salì sul cerchio.

    «Sai, da dove provengo io abbiamo le ossa forti e i nostri pugni pesano molto, non vorrei farti male». Disse Tesla prima di partire all’attacco. Inutile, perché lo sconosciuto schivò con impressionante abilità qualsiasi allungo. E immediatamente rispose.

    SBAAAM! SBA-BAAAM!

    Diretto destro, gancio sinistro e montante destro come macigni. Non aveva mai sentito un peso del genere. Tentò una blanda risposta, ma lo sconosciuto schivò con precisione qualsiasi contrattacco. Precisione al millimetro e poi ancora: jab, jab e diretto destro. Jab jab, diretto destro e gancio sinistro e... Tesla era steso. Il tizio sospese le operazioni di demolizione.

    Un paio d’ore dopo, Tesla si svegliò dolorante. In mente aveva impresso il sorriso di quello sconosciuto, l’ultima cosa vista prima di perdere i sensi. Si fece una doccia fredda, prese un paio di pastiglie anti Knock Out, chiuse tutto e si diresse verso casa. Pensò di non aver mai incrociato dei pugni così forti prima d’allora. Doveva essere qualche campione, concluse. Ora invece era proprio lì, una decina di metri davanti a lui, con un impeccabile abito elegante; forse era uno di quelli che lo stavano pedinando.

    Quindi quella visita di cortesia in palestra non era altro che l’ennesima provocazione. Questo fu il pensiero che balenò nella mente di Tesla.

    Mantenne la calma, anche se il disagio e la paura iniziarono a farsi sentire. Fece appello agli ultimi residui di autocontrollo. Continuò a procedere in avanti. Gli passò a fianco. Costui non lo guardò nemmeno. Braccia conserte, sguardo rivolto chissà dove, lo ignorò.

    Magari è qui per chissà quale motivo, sta pensando ai fatti suoi. Forse sono solo paranoico. E quell’episodio in palestra? Andiamo... è stato solo uno sparring. Magari è un grande campione di chissà quale pianeta, rimuginò Tesla.

    Avanzando ancora qualche metro, diede una svolta al suo ragionamento: Tesla, non prendiamoci in giro. Troppe coincidenze. Le coincidenze non esistono. E poi quei pugni erano troppo forti. Ti sei addestrato con tanti atleti a Spartan City. Molti professionisti. Lo sai che quei pugni erano troppo forti. Come minimo sono braccia modificate. Sì, deve essere un modificato. Gli scagnozzi di certe agenzie e organizzazioni sono spesso modificati.

    Ormai distante di una decina di metri dallo sconosciuto, Tesla non resistette oltre.

    «Hei, tu! Ti ho riconosciuto. Sei quello dell’altro giorno. Che ci fai qui? Mi stai seguendo? Scommetto anche che c’entri con l’effrazione nel mio appartamento! Cosa vuoi da me? L’altra sera non ero in forma. Ma oggi posso spedirti nei Campi Elisi a calci nel culo, viaggio gratuito, offro io!»

    Lo sconosciuto si voltò. Un sorriso di ghiaccio, le braccia non più conserte ma disposte sui fianchi, con i palmi aperti rivolti verso Tesla. Pronto all’azione. I due si scrutarono per qualche istante in assoluto silenzio. Poi Tesla prese l’insana decisione di correre verso di lui. Voleva fargliela pagare. Non solo per quei pugni ricevuti in palestra, ma per tutto. Ai suoi occhi, quello sconosciuto era diventato il bersaglio dove poter sfogare mesi e mesi di rabbia e frustrazione. E possibilmente ottenere delle spiegazioni.

    Tesla era cosciente di essere un tipo a posto, uno pulito. Non era un estremista, tanto meno un terrorista, un criminale o quant’altro. Era solo un brillante e talentuoso studente universitario. Uno che aveva sempre rigato dritto. Pensò che chiunque essi fossero, avrebbero potuto presentarsi e parlare civilmente, evitando quella lunga serie di snervanti provocazioni.

    Lo sconosciuto dalle mani pesanti disse qualcosa sottovoce. Probabilmente tentò una comunicazione verso il suo comando, ma non vi riuscì. Tesla era intenzionato ad aprire le danze scagliandogli un pugno diretto saltato, sfruttando tutta la velocità della sua corsa. A un passo da lui, in una frazione di secondo decise che non sarebbe stata una buona idea. Lo sconosciuto si era dimostrato capace di schivare ogni suo attacco, come se conoscesse già tutto di lui. Se davvero si fosse trattato di un modificato, allora era certamente dotato di software predittivi, database neurale con librerie di chissà quante arti marziali e combattenti sparsi per lo Star.cluster_0. Serviva qualcosa di diverso. Di imprevedibile.

    Giunto d’innanzi a lui si fermò d’improvviso. Raccolse tutti i residui di saliva rimasti e gli sputò dritto negli occhi.

    «Spiacente, signor modificato. Tecnica non trovata». E lo colpì con un possente calcio nei genitali.

    «Questi non ce li hai modificati, vero? Mi spiace».

    Il pedinatore si inginocchiò. Non si lamentò ma mugugnò qualcosa sotto voce. Era paonazzo, vene gonfie nel collo e nelle tempie. Accusò il colpo. Tesla ne approfittò per offrirgli una carrellata di pugni e gomitate. Finirono per terra. Tesla sopra di lui. Con la mano sinistra lo controllava tenendolo steso al suolo e con il destro continuava a scaricare pugni. Dapprima disordinati, ancora colmi di rabbia e imprecisione, poi via via più precisi. Naso, labbro, zigomi.

    Quanto è duro, Pensò Tesla, fermandosi un attimo per riprendere fiato. Era il momento di fargli qualche domanda. Ma restò di stucco quando lo vide sorridere nonostante tutte le botte.

    Steso a terra, quell’uomo continuò a fissarlo. I suoi occhi cambiarono rapidamente colore. Le iridi, ora formate da numerosi cerchi concentrici di colore metallico brillante, iniziarono a roteare prima lentamente poi vorticosamente fino a non distinguersi più. Divennero di un colore rosso acceso, quasi fluorescente. Il modificato era entrato in modalità di combattimento. Il suo impianto bioelettromecha stava iniettando determinati segnali e impulsi alle terminazioni nervose. Continuando a sorridere afferrò il braccio sinistro di Tesla, quello che stava usando per immobilizzarlo al suolo. Lo strinse forte, sempre più forte.

    «Di norma, come ben saprai, nelle aree civili la potenza degli arti modificati è decrementata per motivi di sicurezza. Saggia decisione. Chi ha redatto questa legge ha il mio più sincero plauso. Altrimenti le strade sarebbero piene di pazzi modificati che se le danno di santa ragione, seminando il caos. Tuttavia, io rappresento un’eccezione a questa nobile normativa. Comando vocale: override codice 14 echo sierra brutus. Fine comando vocale. Sblocco funzionalità».

    Lo afferrò per la gola, poi si alzò in piedi senza sforzo e lo costrinse a inginocchiarsi.

    SBAAAM! «Diciamo che rappresento un’interpretazione più elastica di questa giusta norma che voi tutti siete chiamati a rispettare».

    «Tu... sei, fuori di testa». Disse Tesla, respirando con fatica.

    «Fuori di testa? Non lo metto in dubbio e non mi pare di aver mai affermato il contrario. E questo fa di me una persona assolutamente normale. Un cittadino estremamente normale, privo di anomalie...» SBAAAM!

    «Chi sei?!»

    «Risposte, risposte, risposte. Tutti vogliono delle risposte...» SBAAAM!

    «Cosa... vuoi da me... cosa... ci facevi... l’altro giorno in palestra? Perché... mi segui? Chi cazzo siete?»

    «Non potresti capire. Ha a che fare con la sicurezza di tutti noi. Io non mi occupo certo di questi aspetti. Ma, in ogni caso, quelli dei piani alti mi hanno detto che con te abbiamo quasi finito. Siamo ancora all’80%, ma sappi che i risultati sono scadenti».

    «Di che cazzo parli?»

    SBAAAM! «Puoi credermi sulla parola quando ti dico che ora non ci sei più utile. Non tutti concordano con me, ma chi se ne frega. I droni per il ripristino della nostra linea non sono ancora arrivati e qui...» SBAAAM! «Beh, qui le cose hanno preso una brutta piega. Per te, ovviamente».

    «Figlio di putt...»

    SBAAAM! «Anzi, credo che con te abbiamo proprio finito». SBAAAM! «Quindi se ancora non ti fosse chiara la situazione: posso picchiarti fino a quasi ammazzarti». SBAAAM! «Sai, dovresti essermi grato per quel quasi».

    Ma dopo l’ennesimo pugno caricato il pedinatore si fermò. Nell’aria si sentì il tenue ronzio di un paio di droni in volo. Stavano ripristinando la connessione. Verso chi o cosa non era dato saperlo. Si udirono dei passi in lontananza. Il pedinatore era immobile. Le circonferenze metalliche delle sue iridi artificiali roteavano sempre più lentamente, fino a fermarsi. Il loro colore non era più rossastro, ma nemmeno un azzurro naturale. I cristalli elettronici circolari avevano compiuto il loro ultimo giro, fino a spegnersi diventando di un grigio metallico opaco. Mani e avambracci divennero stranamente caldi, uno strano liquido lattiginoso andò colando verso il terreno. Un po’ del rivestimento di pelle sintetica iniziò a fondersi. Qualcosa andò storto.

    Concentrato a colpire e a farsi beffe di Tesla, non si era accorto che quest’ultimo aveva rapidamente infilato una mano in tasca. E, con altrettanta velocità, aveva azionato una micro carica a impulsi NNEMP. Tarata esclusivamente per bio circuiti, non aveva effetto su droni o cyber glasses.

    Un altro simpatico regalo del dottor Arkenhost. Progettata per far scendere a più miti consigli qualsiasi modificato dotato di cattive intenzioni. Non che ce ne fosse bisogno. La legge ad Athenis e nel resto dei pianeti aderenti all’Alleanza Interplanetaria poneva dei limiti nell’utilizzo delle modifiche, specialmente nei grandi centri urbani e nelle aree civili. Tuttavia, sebbene molto di rado, non era impossibile incappare in qualche svitato modificato. Magari un militare in congedo affetto da sindrome da stress post-traumatico, con tanto di paranoie e manie di persecuzione. Così accadde al dottor Arkenhost, durante un weekend mentre in santa pace arrostiva una bistecca nel giardino di casa sua. Dovette tenere a bada un folle modificato che aveva iniziato a devastargli una sua bella hovercar e le statue classiche piazzate nel prato. Per fortuna tutto finì bene, la Polizia arrivò e sistemò le cose. Ma promise a se stesso che non si sarebbe più fatto trovare impreparato di fronte a simili spiacevoli situazioni. Così realizzò diverse micro cariche a impulsi EMP, specifiche per modificati. Non del tutto legali.

    «Sarà morto? Non che mi dispiaccia, ma non era questa la mia intenzione...» Pensò Tesla. Un soggetto dotato di modifiche così invasive a livello di bulbo oculare, sistema nervoso e cerebrale, sarebbe facilmente rimasto secco dopo una scarica del genere. E lui lo sapeva bene, perché il suo ramo di specializzazione era imperniato proprio su quel tipo di applicazioni.

    Perciò, la sua più grande preoccupazione in quel momento fu quella di essere diventato un assassino. Preoccupazione che cresceva insieme alla smania di ottenere risposte. Ma non c’era tempo per tentare di rianimarlo e rivolgergli le giuste domande. Ammesso che avesse mai risposto. I passi in lontananza si facevano sempre più vicini. Si udiva un indistinto vociare. Gente che abbaiava con ordine,

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