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Libertà d'azione
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E-book319 pagine4 ore

Libertà d'azione

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Info su questo ebook

Dopo lunghi secoli di grandi errori finalmente la Galassia attraversa un periodo di tranquillità, finché un giorno, in un agglomerato di satelliti sfruttati come miniere, nel punto più sperduto della Galassia, viene ritrovato un cadavere. Zanosky, il poliziotto di servizio presso la piccola comunità di minatori, inizia le indagini preliminari in un ambiente dove non si muove a suo agio. Richiamato sulla stazione spaziale di competenza, suo malgrado, si troverà a indagare sul misterioso omicidio e sulla scomparsa di un potente esplosivo abolito ormai da molti anni. In seguito al furto, due delle cinque prestigiose Biblioteche Universali vengono fatte saltare in aria mettendo in pericolo anche la vecchia Terra. Chi si sta macchiando di questi crimini?
Durante le indagini il poliziotto verrà a conoscenza di una tremenda verità, che lo coinvolge anche personalmente, una verità del passato che irrompe nella sua vita e che mette in discussione tutta la sua esistenza, ma ha poco tempo: chi si sta macchiando di una moltitudine di morti è costretto a farlo, per vendetta contro un grande crimine che l'essere umano sta commettendo.
LinguaItaliano
Data di uscita1 mag 2014
ISBN9786050302622
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    Anteprima del libro

    Libertà d'azione - Cosimo Vitiello

    significa

    I periodi della storia

    Le possibilità energetiche della Terra dopo l'anno duemila iniziarono a scarseggiare, divenendo un mondo sempre più invivibile. L'uomo si chiuse nelle città protette da cupole, mentre il resto moriva. Quando tutto parve perduto, una scoperta notevole diede la possibilità all'uomo di allontanarsi dal suo pianeta, per cercare nuovi mondi da colonizzare. Questo fu chiamato: Periodo del Declino.

    Quando iniziò la colonizzazione della Galassia, vi fu un periodo durante il quale le conoscenze riguardo alle intelligenze artificiale (IA) ebbero un notevole progresso. In questi secoli, i terrestri si modificavano geneticamente e quelli originali erano sempre meno. La tecnologia prendeva sempre più il posto della natura, finché le IA iniziarono ad auto replicarsi e a imparare con coscienza. Questo fu il periodo più cupo della storia umana, fu chiamato: Periodo della Sottomissione.

    L'umanità capì appena in tempo il grande errore commesso e combatté lunghe guerre, vincendo il mostro tecnologico da lui creato: le IA. Si ebbe allora una esplosione nella conquista della Galassia, in gran parte ancora sconosciuta. I mondi più vecchi, che avevano vissuto marginalmente il Periodo della Sottomissione rafforzando la loro autonomia, iniziarono a opporsi con forza a questa espansione, cercando di capovolgere la situazione con atti di terrorismo. Questa era, la più breve, fu detta: Periodo del Passaggio.

    La Terra non poté essere dimenticata, la culla della civiltà destava nel cuore rinnovato degli esseri Umani un profondo sentimento di affetto. Allora, grazie alle sovvenzioni di ricche Gilda e alla solidarietà di tutte la maggiori menti, la Terra iniziò a rinascere, divenendo in breve tempo il centro di tutto lo scibile umano. Questa è l’era attuale, chiamata dai critici: Periodo di stasi.

    Miniere Pullan

    Lontano da qualsiasi punto colonizzato della Galassia, al di fuori delle rotte civili e commerciali, orbitava un ammasso di asteroidi sfruttati come miniere. Tetri e desolati, li illuminava la debole luce di Pullan, una nana bianca che dava il nome anche al sistema di appartenenza. A un migliaio di chilometri di distanza stazionava un cerchio di alloggi chiamato da chi lo abitava cittadella, unico segno di vita del settore. L’insieme di abitazioni ospitava le famiglie degli operai che per anni avrebbero lavorato in quell’angolo sperduto e dimenticato di universo.

    Era passato ormai molto tempo dalla costruzione della cittadella, gli operai non sapevano che le case erano state sostituite più di una volta. Il campo di energia che avvolgeva la struttura non bastava a proteggerla dall’erosione dovuta alle particelle cosmiche. Al centro di questa ruota fatta da moduli abitativi indipendenti vi era un pilastro reticolato, dove i velivoli pubblici si ricaricavano e dove ritornavano da soli dopo aver esaudito il loro compito. Tra le abitazioni, quella del poliziotto la si poteva riconoscere a colpo d’occhio poiché possedeva un porticato utilizzato come rimessa per l’auto di servizio.

    Tutto questo in un assoluto rigore geometrico, lontano e silenzioso, triste e indispensabile, nel freddo vuoto interstellare.

    Anson fu svegliato dalla voce femminile del suo alloggio, una voce che lo innervosiva ogni volta che la sentiva. Pur odiandola, non l’aveva mai cambiata in quei pochi mesi di permanenza alle Pullan. Convinto che ogni negatività fosse dovuta a una giustizia divina, la sopportava. Paure e timori, questi erano i sentimenti che da qualche tempo accompagnavano le notti agitate del poliziotto, da quando aveva abbandonato la Marina per ritrovarsi a comandare un posto che a stento era coperto dalla rete galattica. L’alloggio lo aveva destato nel bel mezzo della notte, se mai fosse possibile pensarlo così sperduti in mezzo allo spazio siderale. Aprì gli occhi incollati con un moto di fastidio, com’era solito fare spese alcuni secondi ammirando il luccichio del firmamento attraverso l’unica finestra della piccola camera. Il panorama era sempre diverso, ma fantasticava che una di quelle stelle potesse essere la sua lontana patria. Non che fosse particolarmente legato a essa, ma qualsiasi posto era migliore di quello.

    «Cosa c’è?» chiese con tono seccato. Si mise seduto e drizzò la schiena.

    ((Hai una richiesta di colloquio dal capomastro)) rispose con tono freddo la voce femminile.

    Immaginò la solita rissa o un infortunio.

    «Fammi parlare con lui.» Entrò in bagno e lasciò che il gelido getto d’acqua gli massaggiasse il collo indolenzito.

    ((Ti attende nell’atrio esterno.))

    «Allora fallo entrare» tagliò corto.

    Non molto alto ma tarchiato, Anson sentiva sulle sue spalle più anni di quelli che aveva, nello specchio l’innesto dietro l’orecchio destro brillava lucido. Lo sguardo fuggì con repulsione. Vedeva in quell’uomo giovane dai capelli neri e di bell’aspetto, l’esempio perfetto di un idiota che aveva fatto di tutto per rovinarsi la vita. Si cambiò in fretta l’uniforme e uscì, abbandonando il suo riflesso e tutto ciò che gli rammentava.

    Nel salottino illuminato a giorno Malerba lo aspettava in piedi davanti alla porta d’ingresso, sembrava essersi catapultato dal letto solo pochi minuti prima. Visibilmente preoccupato, si tormentava le mani fino a sbiancare le nocche.

    «Capo è successo un incidente» disse appena lo vide.

    «Di che si tratta questa volta? Per scocciarmi a quest’ora spero sia importante, avanti» rispose. Intanto sistemava i gradi sulla divisa.

    «Abbiamo trovato un cadavere sull’s23.» Il capomastro parlò velocemente, quasi avesse paura a dirlo.

    «Cosa? Un cadavere!» Anson si bloccò un attimo, non era certo quello che si aspettava. Le misure di sicurezza erano talmente rigide che a volte impedivano il lavoro, un incidente sembrava improbabile. «Si sa chi è? e com’è successo?»

    «Non ha documenti addosso capo, di sicuro era uno dei nostri. Com’è successo proprio non lo so», Malerba si mordeva un labbro. «All’appello non manca nessuno, i turni sono completi e il resto del personale è a riposare» concluse. Immobile, fissava il suo superiore rimasto a bocca aperta nel sentire la notizia. Erano uomini dediti al lavoro, lavoro duro, come solo chi è mai stato in una miniera può capire: quella cosa era inconcepibile. Nei suoi occhi si leggeva una disperata richiesta di aiuto. «Ho un velivolo che ci aspetta qua fuori» e indicò oltre la porta chiusa.

    «No, andiamo con la mia auto», replicò brusco Anson, «in caso di necessità ci può servire», quindi si allacciò il cinturone con l’arma personale e fece cenno di uscire.

    Sotto il porticato esterno, protetto da un invisibile campo che tratteneva l’aria che respiravano, Anson si diresse verso il velivolo in dotazione alla polizia e prese il posto di guida. Il capomastro si sistemò al suo fianco, si scambiarono un fugace sguardo e il ronzio soffuso dei motori ruppe l’atmosfera tetra. In lontananza le luci spente del bar-ritrovo indicavano che erano ancora nel periodo di riposo.

    Il campo energetico permise al velivolo di uscire senza difficoltà, avviandosi verso il basso lasciando alle spalle il cerchio di abitazioni. In breve si ritrovarono immersi nella profondità dello spazio.

    «Ma l’s23 non è adibito a magazzino?» stava chiedendo lo sceriffo mentre si dirigevano verso un punto non precisato dell’agglomerato infinito di asteroidi.

    «Sì capo, è così. È stato il primo a essere lavorato, poi quando le vene si sono esaurite…» e con un’alzata di spalle terminò la frase, senza spiegare la storia nota a chiunque.

    Anson cercava con lo sguardo di inquadrare la loro destinazione, ma ai suoi occhi e a quella distanza i pianetini parevano tutti uguali. Quando credette di aver sbagliato direzione, il sistema di guida lo aiutò: un punto dello schermo radar, posto proprio sotto il finestrino, indicava l’s23. Intanto si avvicinavano a una postazione di guardia che prontamente inviò un segnale di richiesta di riconoscimento. Il velivolo della polizia rispose in automatico e vennero lasciati passare senza problemi.

    Fare il poliziotto per Anson era ancora una novità, infatti ricordò in ritardo la necessità di fare qualche domanda, magari solo per calarsi in qui panni che indossava da pochi mesi. Quindi con un movimento brusco effettuò una stretta virata, accostando alla grossa palla sospesa a guardia di quel lato della fascia di asteroidi. Chiamò il custode al suo interno.

    «Prima di noi è passato qualcun altro? Da quanto sei di turno?» domandò parlando al microfono della plancia.

    «No signore, non ho visto nessuno da quando sono montato tre ore fa» rispose questi attraverso la radio. Il tono risultava interrogativo, probabilmente si chiedeva che razza di domanda fosse quella.

    Anson fece un cenno con la mano attraverso il finestrino e riavviò i motori, anche se probabilmente l’uomo nella palla di controllo non poteva vederlo con tutti i riflessi della volta stellata. Una piccola deviazione li rimise in direzione della meta, sfiorando dopo un po’ sulla sinistra un piccolo masso oblungo, esterno rispetto agli altri.

    Poco dopo il velivolo della polizia si addentrò tra gli asteroidi, dirigendosi verso un punto imprecisato nascosto da un’enorme massa rocciosa ancora intatta. Una sonda conficcata sulla superficie indicava che a breve sarebbe iniziata l’opera di trivellazione, che l’avrebbe trasformata fino a ridurla a una spugna galattica.

    Sorvolarono la superficie scura ascoltando solo il ronzio dei motori, il suolo si illuminò quando Anson accese il potente faro posto sotto la carlinga; la volta celeste divenne un tappeto nero. Il violento cerchio di luce mostrava una sequenza infinita di crateri di varie dimensioni rotti solo da profondi squarci nel suolo. Il cono luminoso del faro si perse nel nulla quando il velivolo superò il grosso asteroide e il tappeto nero si ruppe in mille luci: finalmente la loro destinazione.

    Con le grosse ferite inflitte dai vecchi escavatori l’s23 mostrava tutti i suoi anni, la forma originale ormai era stata dimenticata da tempo e la superficie faceva pena solo a guardarla. Una sezione relativamente piana dell’asteroide possedeva una lunga piattaforma che occupava quasi tutto lo spazio disponibile, questa fungeva da base di atterraggio per i velivoli. Una parte di essa era già impegnata da uno dei mezzi automatici utilizzati per muoversi tra la cittadella e gli asteroidi. Il lucore biancastro e debole della lontana stella illuminava di traverso la superficie rovinata, creando chiaroscuri netti e fastidiosi.

    Il velivolo della polizia poggiò i pattini di fianco al mezzo civile, per alcuni istanti rimasero fermi osservando lo scenario triste del vecchio asteroide martoriato. Quando aprirono lo sportello esterno il tutore era già fuoriuscito dal tetto, stazionava sopra l’apertura in attesa di loro due. Una spia di colore verde al centro indicava che le condizioni sotto la campana di protezione erano idonee. Oltre a proteggerli dal vuoto con un campo energetico, il tutore inviava un fascio di luce intorno in modo da offrire una visuale per un arco di trecentosessanta gradi.

    Anson osservò lo scenario scoprendo crepe e massi senza soluzione di continuità.

    «Fammi strada, per me è la prima volta. A proposito, ma chi l’ha trovato? E cosa ci faceva qui?» Mentre parlava avanzava con cautela per un leggero pendio, riuscivano a stare coi piedi a terra solo grazie al campo attrattivo generato dal tutore.

    Camminavano costretti a un contatto fisico che per chi non abituato poteva risultare sgradevole, il tempo aveva rimediato a quell’inconveniente e anche Anson, ultimo arrivato alle Pullan, ormai non provava più nessun fastidio. Aveva dimenticato anche la reticenza iniziale che aveva avuto nei confronti dei tutori, che li costringeva come in quel caso a stare chiusi in una gabbia energetica senza possibilità di fuga.

    Tra un passo e l’altro il capomastro trovò il tempo per rispondere, senza comunque distogliere gli occhi dal terreno.

    «Lo ha trovato un operaio venuto qui per cercare…»

    «Spegni i fari principali» ordinò freddo Anson alla protezione che li seguiva, interrompendo la spiegazione dell’aiutante. La luce sulle loro teste si spense per un attimo, accendendosi subito dopo a un’intensità minore.

    Alla fine del pendio si apriva una piccola superficie spianata dove una parete alta poco più di due metri ospitava una serie di magazzini. Senza il chiarore accecante dell’illuminazione artificiale il luogo acquistò dettagli. Nella penombra dello spazio si delinearono porte e cancelletti incastonati nella roccia dura. Una di esse era aperta, una luce all’interno cambiava continuamente di intensità. Si incamminarono verso quella direzione, cercando di non inciampare su qualche sporgenza.

    Appena arrivati alla porta d’ingresso videro che la luce proveniva dal tutore che assisteva l’operaio lasciato di guardia al magazzino. Varcarono l’ingresso. I campi dei due tutori si unirono permettendo al poliziotto e al capomastro di posizionarsi sotto quello del giovane, la stanza era piccola e due di quei cosi non ci stavano.

    Anson notò subito il corpo.

    Il cadavere era riverso a terra davanti a uno scaffale che riempiva la parete di sinistra, sembrava tutto in ordine. Guardò il tecnico, un ragazzo alto e magro dai lunghi capelli, gli occhi stralunati come se avesse visto un fantasma.

    «Trovato qualcosa…» e guardò interrogativo Malerba alle sue spalle.

    «Si chiama Ludvil, capo» disse Malerba.

    «Ludvil. Hai guardato fino in fondo al magazzino?», alla richiesta fece seguire un cenno della testa.

    «Fin dove potevo andare sceriffo. Ma non ho notato niente di particolare.»

    La voce aveva un leggero tremito, non era certo abituato a fare la guardia ai cadaveri. Anson annuì e concentrò la sua attenzione sul cadavere. Si accovacciò premendo sul campo invisibile che lo proteggeva, costringendo il tutore ad avvicinarsi il più possibile al corpo, fin quasi a toccarlo. Si fermò in tempo, non voleva che l’improvviso cambiamento di pressione lo investisse.

    La faccia dell’uomo, nascosta alla vista, era immersa in un liquido scuro e cristallino, ed era rivolta in modo anomalo verso la parete. Il busto era poggiato di fianco, verso di loro. In alcuni punti era così gonfio da tendere i vestiti che indossava, lo sfintere aveva ceduto, macchie evidenti dimostravano la fuoriuscita dei fluidi. Anson ringraziò il vuoto che gli risparmiava di essere investito dai fetidi umori. L’individuo era vestito con gli abiti tipici degli operai quando non sono al lavoro. Esisteva solo un emporio nella piccola comunità e anche lui d’altronde era vestito più o meno allo stesso modo.

    «Allora, si può sapere chi l’ha trovato?» chiese di nuovo con tono stanco, senza distogliere lo sguardo dal morto.

    «Seroni, capo. Ora è di guardia alla postazione uno» rispose prontamente Malerba, tenendo le mani in tasca.

    «Mica è quello che abbiamo incontrato mentre venivamo qui» disse accigliato.

    «No, quella era la due», l’uomo lo fissava dall’alto. «A quanto ne so Seroni è venuto qui trenta minuti fa per cercare dei documenti.»

    «A quest’ora!» e squadrò il suo capomastro con aria sospettosa. Si alzò lentamente fulminandolo con lo sguardo. «Perché l’hai fatto montare? Non potevi sostituirlo? e se è immischiato in questa storia?» si volse di scatto verso l’altro, con aria rabbiosa, cercando una risposta anche da lui. Questi si spostò di lato per paura di chissà che cosa e deviò lo sguardo verso il capomastro.

    «Andiamo a interrogarlo, e tu Ludo…» Anson non ricordava il nome.

    «Ludvil» lo aiutò Malerba.

    «Ludvil, vattene a casa. Chiudi l’ingresso e vai.» Poi rivolgendosi al capomastro continuò: «Qui farà da guardia la postazione due.» Pensieroso chiese: «quelle postazioni di guardia si muovono vero?»

    «Sì, hanno una certa autonomia. La faremo avanzare di qualche chilometro.»

    «Bene» annuì a se stesso, «andiamo a chiamare il dottore.»

    Avanzarono in modo da far muovere il tutore verso quello fermo all’ingresso. Appena i due campi si unirono, con due lunghi passi si dispose sotto quello esterno.

    Anson non era ben sicuro delle mosse da fare, la scelta di diventare un poliziotto era stata più un ripiego che la spinta di una passione. Quella era la prima volta nella breve carriera che affrontava una cosa diversa dal separare due ubriaconi che litigano, o dimezzare la paga a un operaio che aveva distrutto un velivolo della cittadella. Cercava di ricordare come si doveva comportare, quali mosse fare in presenza di un cadavere sconosciuto, probabilmente assassinato. Il breve corso fatto alla scuola di polizia non lo aiutò più di tanto, il grado da tenente lo aveva ereditato dalla marina. Comunque, chiamare il dottore era sicuramente la scelta più saggia, il resto sarebbe venuto da sé, si disse.

    Abbandonò la piccola roccia senza vita con la promessa di ritornarci dopo aver interrogato l’operaio che aveva scoperto il corpo, magari con il dottore del campo. Ma perché non era stato chiamato?

    «Tanto era già morto capo. Mi sembrava più giusto chiamare te» rispose il capomastro, quando esternò i suoi pensieri.

    «Già. Ci penseremo dopo» ammise senza convinzione.

    «Questa è la prima volta che succede un incidente così grave.»

    «Ci avrei scommesso. E poi, chi ti dice che è un incidente?» precisò con freddezza.

    Con la radio di bordo ordinò alla postazione di guardia numero due di avvicinarsi al satellite denominato s23, e di rimanere in quella posizione finché il cadavere non sarebbe stato rimosso. Una seconda chiamata svegliò l’unico medico della piccola comunità di minatori e l’avvisò dell’accaduto, sperando che almeno lui sapesse cosa fare in quei casi. Di solito nei posti sperduti come quello si rifugiavano uomini che avevano solo voglia di stare lontano da tutto e da tutti, senza chiedere niente di più dalla vita. La situazione che si era venuta a creare non aiutava certo in quel senso, anzi.

    Anson diresse la navetta verso la parte più estrema di quella accozzaglia di rocce. Per accorciare i tempi si tuffò nell’ammasso, obbligando il velivolo a frequenti cambi di direzione.

    «Speriamo di trovarlo questo Seroni. Se è scappato dovrai giustificare la tua negligenza direttamente alla polizia giudiziaria.» Anson guardò l’uomo al suo fianco con distacco. Non lo conosceva bene, era la prima che aveva occasione di stare a stretto contatto con chi doveva essere il suo secondo.

    Malerba teneva lo sguardo fisso verso l’esterno ma non guardava niente, gli asteroidi passavano in rassegna sotto i suoi occhi, lui perso in se stesso.

    «Io lo conosco bene» disse, rompendo il lungo silenzio. «Non credo c’entri qualcosa, per questo l’ho lasciato andare.» Massaggiò la mascella con la barba incolta e scosse la testa. «No non può essere stato lui.» Quindi senza chiedere il permesso si attaccò alla radio e chiamò l’amico nella postazione uno. «Stiamo venendo a farti qualche domanda, con me c’è lo sceriffo.»

    «Io da qui non mi muovo», rispose ironica la voce dagli altoparlanti.

    La postazione uno era identica alla due, ma godeva di una veduta decisamente più interessante. Da lì si poteva controllare tutto l’ammasso che si allungava verso destra, rispetto alla debole stella al centro della lunga orbita ellittica. Anson osservava lo scenario con occhi rapiti, non aveva mai avuto l’occasione di uscire dalla cittadella. Fin dal primo giorno che aveva messo piede in quella fetta di spazio evitata da tutti, aveva avuto solo pensieri negativi riguardo alla vita che vi si conduceva. Ora, invece, osservando il panorama dovette ammettere che qualcosa di bello e affascinante esisteva.

    Il velivolo si portò di fronte al grande finestrino che percorreva tutta la piccola sfera di guardia; con l’auto che faceva da schermo riuscirono a vedere l’uomo all’interno.

    Non sembrava preoccupato, li salutò con una mano e parlò attraverso la radio: «Ciao Carlo. Sceriffo

    Anson squadrò da lontano il ragazzo troppo giovane per quel lavoro; non aveva certo l’aria di uno che si era macchiato di un delitto. Ma lui lo supponeva già, le cose non gli andavano mai per il verso giusto, anche se tante era stato lui stesso a cercarsele. Osservandolo per alcuni istante gli sembrò assurdo che qualcuno commettesse un reato e poi sorridente montava di guardia. Forse sbagliava, ma non era dell’umore giusto per mettersi a cercare tesi che lo confutassero.

    «Andiamo via» ordinò al capomastro. Si accomodò nella sua poltrona e lasciò i comandi a Malerba. Incrociò le braccia e fissò lo scenario esterno che cambiava, intanto che il mezzo riprendeva la strada del ritorno.

    «Non vuoi chiedergli niente? Siamo arrivati fin qui.»

    Assorto nei suoi pensieri Anson fece un gesto con la mano a indicare che non voleva essere disturbato. La sua mente iniziò a divagare sull’accaduto quasi in totale autonomia. Ma quale stupido avrebbe scelto un posto così per sbarazzarsi di un cadavere? A detta di Malerba non era uno di loro, benché vestisse come un minatore. Ma allora, che ci faceva su Pullan? Senza ombra di dubbio non era morto per cause naturali, la posizione anomala della testa risultava fin troppo chiara. E perché lasciarlo lì? Poi si ricordò che quel magazzino non veniva mai usato, forse chi aveva commesso il fatto sperava di farla franca, solo un caso fortuito aveva visto scoperto quello che doveva rimanere celato. Quando infine la strada dei suoi pensieri arrivò in un vicolo cieco si destò con mille possibilità e poche certezze, ma quel momento tutto suo aveva acceso una fiammella che come per magia lo aveva deviato dai suoi soliti pensieri.

    «A che ora finisce il suo turno?» domandò al compagno silenzioso.

    «Alle sette e mezza.» Malerba parve sorpreso di rivederlo desto. «Pensato a qualcosa?»

    Con un’alzata di spalle Anson rispose che non era approdato a nulla, intanto si poteva cominciare con la routine: «Domani, anzi stamattina, alle otto, fammi trovare questo qui», indicò la postazione ormai scomparsa alle loro spalle, «all’s23. Accertati che il medico sia al lavoro, vediamo un po’ di capire com’è morto, per quanto ne abbia una vaga idea.» Si strofinò gli occhi per scacciare il sonno, ma non servì a nulla. «Tu invece devi farmi avere la lista completa del contenuto del magazzino, dobbiamo capire se è sparito qualcosa.»

    Il capomastro un po’ sollevato annuì senza aprire bocca e riportò lo sceriffo alla sua abitazione. Fermò il velivolo sotto la protezione del pergolato; dopo essere sceso salutò il suo capo e si allontanò con il proprio mezzo.

    Anson si buttò sul letto con l’intenzione di riflettere sull’accaduto come farebbe un bravo poliziotto. Doveva riordinare le idee e mettere insieme i pochi fatti per poterli riferire in seguito al comando sulla stazione. Ma in breve tempo si ritrovò immerso in un sonno profondo. Per il resto di quella breve notte i suoi incubi lo lasciarono in pace.

    Quando il velivolo della polizia toccò per la seconda volta il suolo dell’s23, davanti all’ingresso del magazzino si notavano diversi tutori in attesa. Durante tutto il tragitto Anson non aveva fatto altro che maledirsi; al suo primo vero incarico si era abbandonato al sonno. La cosa diventava ancor più ironica se ripensava alle notti passate in bianco.

    Entrò nel locale trovando il dottore ancora all’opera chino sul cadavere, il gruppo di persone strette in piedi dietro di lui lo salutò con uno sceriffo.

    Non più giovane, il medico della base con molta probabilità si trovava in quel buco dell’universo per sfuggire a qualcosa, più che per fare esperienza. Su Pullan, al di là di escoriazioni e piccoli traumi, non si andava. Dall’espressione che gli rivolse Anson capì che non era il primo omicidio su cui lavorava. Non erano ancora le otto e con molta probabilità aveva già una diagnosi.

    «Buongiorno sceriffo» disse il dottore mentre si alzava

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