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Africa e non più nulla
Africa e non più nulla
Africa e non più nulla
E-book916 pagine12 ore

Africa e non più nulla

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Info su questo ebook

(...) Un viaggio nella selvaggia Africa, iniziato come gioco tra amici per poi divenire un vero e proprio viaggio all’interno di se stessi. Giorgio è un giovane uomo alla ricerca dell’avventura, ma certamente non si aspettava di imbattersi nell’avventura più difficile, coinvolgente e struggente che esista: l’amore per Haziza. Si troverà a vivere un amore impetuoso e una passione che culminerà purtroppo nell’epilogo meno sperato: nella separazione. Gli anni passano, la vita continua… e a fare da sfondo alla nuova realtà di Giorgio… il ricordo vivo di quella donna tanto amata, che niente e nessuno potrà cancellare. (...)

Quando avventura e amore si fondono assieme. L'amore impossibile per una donna impossibile in una terra altrettanto impossibile. "Impossibile" è il comune denominatore di questa storia, l'impossibile affrontato con l'irruenza e l'incoscienza dei miei trent’anni.

Questa autobiografia narra di un raid sahariano 4x4 in terra d'Africa nei mitici anni '80; doveva durare un mese, per me durò quattro anni, quattro anni di avventure e delusioni, quattro anni di sabbia, sole e sete, quattro anni della mia esistenza consumati sulle piste sahariane alla ricerca di un amore perduto e non più ritrovato, custode di un segreto mai rivelato.

Divenne il raid della mia vita.

Genere: Romanzo di vita vissuta, Avventuroso-Sentimentale

Adatto: Adulti
LinguaItaliano
Data di uscita18 apr 2016
ISBN9786050423099
Africa e non più nulla

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    Anteprima del libro

    Africa e non più nulla - Bonfatti Giorgio Alfonso

    Zenit:

    Capitolo 4

    Incontri

    Parte 1 – L’idea, il viaggio……………… 27

    Parte 2 – Haziza………………………… 137

    Parte 3 – La promessa………………….. 221

    Parte 4 - Incontri ………………………. 342

    Il passato non torna, il presente ti distrugge, il futuro è follia.

    Giorgio Alfonso Bonfatti

    Africa e non più nulla

    Questa non è un’opera di fantasia bensì una storia vissuta in prima persona dall’autore. Le situazioni descritte, i personaggi di questo libro, si riferiscono a fatti reali degli anni ’80. Potrebbe capitare a ognuno di voi, se, come, e quando, sfiderete il destino.

    bonfatti.giorgio.alfonso@gmail.com

    sito web

    http:/bonfattigiorgioalfonso52.jimbo.com/

    Editor Lulu.com print on demand

    Canada & France

    Copyright © 2010 Giorgio Alfonso Bonfatti

    All rights reserved including the rights of reproduction

    in whole or in part in any form

    © III edizione rivista 2015, agosto

    Premessa, Non crederete ma tutto è iniziato ascoltando una canzone,*We don't need another hero, alcuni flashback, fugaci ricordi, poi l'idea di fissarli. Mi siedo al PC, il freddo anonimo foglio di word sembra dire, riscaldami, muovi le tue dannate dita, ricorda! Un attimo di esitazione, l’incertezza del principiante, poi le memorie vengono a galla, credute sopite e dimenticate nei meandri della mente, invece… le dita scorrono veloci sulla tastiera, sbaglio, cancello, torno indietro, cerco di ricordare meglio soffermandomi a focalizzare quei frammenti di vita lontani anni luce, Dio che emozione rivivere quei momenti e tornare indietro nel tempo, mi pare di essere lì. Questo racconto-diario, frutto di ricordi, scritto sotto l'impulso emotivo è la mia autobiografia, riportando le impressioni vissute dal vivo in prima persona di usi e costumi, della spietata giustizia tribale amministrata in quei luoghi, che ben difficilmente troverà descrizione nelle pagine delle guide turistiche ad uso e consumo di tutti i giorni. Situazioni spiacevoli e dolorose, al confine dell’umano comprensibile, vissute non proprio da semplice turista in questi miei viaggi attraverso il continente nero pre-sahariano e sahariano, sulle piste del Sahel. Tunisia, Marocco, Algeria sono i luoghi visitati, simili per usi e costumi ma morfologicamente diversi. Contravvenendo a quanto ho fatto, sconsiglio vivamente a chiunque di ripetere le mie gesta, poiché fatte in *solitudo, complici la voglia sfrenata d'avventura e una non ben misurata dose di folle incoscienza; l'affrontare quei luoghi solitari con i miei compagni con una sola Jeep fu solo pazzia, dove il seppur minimo contrattempo poteva tramutarsi in tragedia.I miei squilibrati compagni di viaggio: Fausto Bisio, classe '53, nato a Borghetto di Borbera (AL), un fisico minuto, nervoso e adrenalinico, forte come una quercia, più temerario di un bufalo, non conosceva stanchezza, introverso e poco loquace ma dal cuore d'oro. Ex pilota di rally, sia in auto sia in moto, assieme avevamo condiviso la medesima passione in lunghi anni di attività agonistica. Meccanicamente preparato, fu sua la mansione di preparare la 4x4 del nostro raid africano. Un amico e compagno di viaggio invidiabile. Luciana Spigno, classe '46, modenese doc, all'epoca la mia compagna. Una folta chioma ricciuta rossastra si accompagnava a un fisico forte e sodo, slanciato e ben proporzionato, generoso nelle forme e tremendamente sexy, espansiva, gioiosa, solare, la quintessenza della voglia di vivere, capace d'amare e odiare in tandem. Assurdità allo stato puro, non diceva mai no al prospettarsi di un'avventura, sia in moto sia facendo trekking o ascensioni su vie ferrate, forte come un toro non temeva rivali nel genere maschile, semplicemente fantastica. Io, Giorgio Alfonso Bonfatti, classe '52, genovese, zingaro e sognatore, assetato d'avventura e incosciente di professione, la normalità mi è sempre andata stretta e soffocante come il vestito della festa troppo attillato. Celata sotto una maschera d'apparente normalità, la voglia d'evadere dalla monotonia esplose in quei fatidici anni '80, si chiamava Africa! Bravo nel disegno tecnico, mi dedicai al carteggio, a tracciare rotte e pianificare il viaggio nelle varie tappe, organizzando il vettovagliamento e le stime di consumo carburante, all'epoca non esistevano i GPS, ma solamente carta e bussola. Fui il fautore di tutti i viaggi fatti, i miei amici si fidavano ciecamente, come io di loro.

    Perché Africa?

    Nome oscuro e fascinoso, ammaliante come una bella donna avuta, ti entra nel sangue, nella mente, nel corpo, lasciando un segno indelebile nel tuo io; gli odori, i profumi, i colori delle lande infinite e sconfinate senza barriere, dove all'orizzonte terra e cielo si fondono in tutt’uno liberandoti anima e mente, quando all'esame introspettivo di te stesso tu non se più tu e superi la linea di fede tra sogno e realtà, ebbene, questo è il mal d'Africa:

    "Tu sei afrikander e Africa è la tua amante che ti accompagnerà sino alla fine dei tuoi giorni come un male incurabile, un marchio a fuoco impresso nelle carni per l'eternità".

    Africa e non più nulla, il titolo, è tutto ciò.

    Questa premessa è dedicata a Bonfatti Tiziano Giorgio jr., mio figlio, con l'augurio che, nel futuro, possa provare le mie stesse, intense, emozioni in una terra culla della vita allo stato primordiale, dove l'alternarsi delle stagioni è scandito dal ritmo delle grandi piogge nella savana.

    Bonfatti Giorgio Alfonso

    Gioia Tauro, 11 maggio 2010

    L'autore, pillole di una vita avventurosa densa d'errori, sue note

    Bonfatti Giorgio Alfonso, nato a Genova il 13 Novembre 1952, primogenito di due fratelli, di famiglia benestante ed agiata, ha conosciuto un'infanzia poco felice a causa di una forma d'asma bronchiale che limitava moltissimo le sue attività di adolescente, forgiandogli un carattere introverso e poco incline alla socievolezza, propenso alla sopportazione del dolore e alla solitudine, discreto e riservato nelle sue manifestazioni e mai invadente. Proprio per questa sua naturale riservatezza, fu ingiustamente e sempre considerato dai suoi diretti simili altezzoso, snob. Niente di più sbagliato, voleva solo badare ai fatti suoi senza interferire in quelli altrui, cosa difficile per gli altri che sempre s'impicciavano, in primis i genitori, particolarmente la madre. Neppure la totale guarigione dalla noiosa malattia, circa all'età di quindici anni, migliorò il suo carattere duro e cocciuto, complice pure il segno zodiacale, scorpione.

    Educazione rigida in stile dell'epoca, di chiara tendenza fascista, fu educato in una delle migliori strutture private genovesi, l'Istituto Arecco di Piazza Manin, retto dall'ordine dei Padri Gesuiti. Dalle stelle alle stalle, al finire della terza media, desiderò iscriversi per sua volontà all'ITIS G. Giorgi, salita Fieschine, scuola statale di stampo comunista.

    Questo il suo primo grande errore.

    Si evolveva un cambio generazionale deciso, anni ’70, l’epoca del beat, dei capelloni, delle minigonne, entrati nel vivo degli anni ruggenti, periodo storico della contestazione scolastica con motivazioni che eludevano dallo stesso insegnamento, scioperi, cortei, assemblee, fase in cui la scuola era eccessivamente strumentalizzata da movimenti sovversivi estremisti, capì dopo e tardi, nel frattempo coinvolto nei moti del '68, i famosi sessantottini, sulle barricate milanesi di Piazza San Babila e le prime occupazioni illegali delle sedi scolastiche con le dovute conseguenze e cariche dei squadroni d’assalto anti sommossa della Polizia di Stato. Ignorante grasso di quello che faceva, pugno destro levato in alto, al grido scandito con rabbia di "Ce n'est qu'un debut continuons le comba, finì all’ospedale più volte per contusioni e denunciato per possesso di bombe Molotov, grazie ai cortei non autorizzati. L'istruzione all'ITIS G. Giorgi, come detto prima, costellata da scioperi e cortei insensati, marinature dalle lezioni a raffica, lo vide diplomarsi ugualmente col minimo dei voti, intanto la gran passione che nutriva per l'elettrotecnica scemava a poco a poco annullandosi nell’indifferenza. Uno sviscerato amore per gli animali, in modo particolare i cani, lo proiettò nella scelta della facoltà di Veterinaria, ma l'ateneo non essendo all'epoca disponibile a Genova, fu costretto dai genitori ad abbandonare l'idea, non se ne parlava neanche di andare fuori di casa, anche se per studiare. Ripiegò iscrivendosi alla facoltà di Biologia, frequentata regolarmente nei primi due anni, mini laurea Assistente di Laboratorio, poi decise di non rimandare oltre il servizio di leva, partendo per San Giorgio a Cremano, Napoli, Corso ACS, con destinazione definitiva in località Bassano del Grappa, VII Battaglione Trasmissioni Alpini Operativo NATO".

    Passarono così quindici mesi, dove per la prima volta, fuori dal giogo iper protettivo e decisionale dei genitori, assaporava la libertà di pensare, di agire, in parole povere di essere libero.

    Se parlate con i più, il servizio di leva tutti lo ricordano come un periodo negativo, da cancellare, ma non per lui, dove si divertì come un matto, partecipando volontariamente a tutti i campi ed esercitazioni NATO, sia estivi sia invernali, sull'Altopiano d'Asiago. Si congedò dal VII Battaglione Alpini col grado di Sergente e la qualifica di Telescriventista Operatore Radio Scelto, ventidue anni da compiere.

    A Genova, come Perito Elettrotecnico era veramente difficile trovare lavoro, ma prepotente la voglia di rendersi autonomo dai genitori, stimolante a tal punto da portarlo a fare lavori extra diploma. Trovò occupazione, come factotum, presso la ditta Paganini Musica di Via XX Settembre, Genova.

    Entrato nelle grazie del titolare, da semplice manovale scaricatore di piani e organi, passò alla sezione vendite al banco, dischi e strumenti musicali, raggiungendo l'apice nell'attività d'installatore impianti stereo a domicilio e tecnico del suono, registrazione live di complessi beat e rock. Affiancò per diversi anni con l’incarico di operatore, assistente e fonico privato, la dott.sa Molina, insegnante assai quotata di danza classica a Genova, realizzando con lei numerose rappresentazioni e saggi di fine corso nei principali teatri Liguri.

    Il lavoro presso la Ditta Paganini era continuo e gratificante sotto ogni punto di vista, anche per lo spirito vulcanico e innovativo del titolare, che sempre si lanciava in nuove avventure commerciali, non ultima la commessa della Società Costa Crociere per musicare le sue navi passeggeri.

    La cosa appariva fattibile ma non nel tempo che si era impegnato il Sig.Paganini: dieci giorni per preparare le*pizze, in gergo, bobine di nastro magnetico nei vari generi musicali, classico, moderno, rock, più svariati misti.

    Si partiva da zero con nulla di pronto, dischi a parte.

    Allestì a tempo record, meno di un giorno, una sala di registrazione all'interno del negozio con due Revox a quattro piste, e una coppia di giradischi Teac con relativi mixer, lavorando giorno e notte portò a compimento il lavoro in una settimana, si dovevano solo riesaminare le decine di pizze fatte, andò tutto bene fatica a parte.

    Dopo quest'impresa diventò ufficialmente il tecnico del suono della Ditta Paganini, con incarichi più svariati e adrenalinici sia in Genova sia fuori, dal seguire e registrare complessi beat, ad allestire sale per l'audizione in concerto del pianoforte e modificarne l'acustica qualora fosse necessario.

    Le cose impossibili con Mimmo Paganini non mancavano, faceva quello che gli altri rifiutavano (N.d.A. tipo il suo diretto concorrente, Orlandini), ne ricorda due in particolare.

    La prima fu la consegna e allestimento della sala ricevimenti al Cenobio dei Dogi, Rapallo, di un piano mezza coda.

    Nulla di particolare, solo che il piano era trasportato da una Vespa Ape 125 guidata dal sottoscritto, e nella salita di Ruta s'impennò per il peso, e così restando.

    Con l'intervento e aiuto di Mimmo P. si portò a buon fine la consegna e preparare la sala per l'audizione, programmata per la sera stessa!

    Nota caratteristica e singolare, estate e inverno, l'unico mezzo di Paganini era una Vespa 50 per un peso di oltre cento chili, con quella si spostava ovunque, in città e fuori.

    La seconda, e quella fu una vera e propria folle avventura, la rimessa, sempre con la fatidica Ape 125, di un organo da concerto Hammond, a Milano centro.

    Partenza alle quattro di sabato mattina dal negozio in Via XX Settembre, consegna, e ritorno alle ore due della domenica notte. Era dicembre, e in compagnia del suo collega Paolo Baldi, fecero tutta la statale da Genova a Milano e ritorno con la nebbia e senza riscaldamento, autentico incubo, da pazzi incoscienti, loro e il titolare.

    Alternava, nel tempo libero, la passione per il motocross e la regolarità, oggi si chiama enduro. Iniziò a gareggiare all'età di sedici anni con Moto Muller 50 Franco Morini elaborazione Simonini, ebbe un sequel infinito, dallo Zundapp Sasch 125 alle KTM 125, 175, 250, 400 tutte due tempi.

    Non pago delle gare di regolarità che si svolgevano in Liguria, iniziò con l'amico del cuore, Fausto Bisio, a correre nei rally automobilistici con la Simca Rally II, classe 1300 esordienti come navigatore. Numerose le gare e gli incidenti, a pari passo di quelli motociclistici. La moto era contagiosa, si diede anche al mototurismo e relativi motoraduni sia italiani sia esteri, uno per tutti l'Elephantreffen, raduno invernale sul circuito del Nurburing, a Salisburgo, in tenda, 10° sotto zero. Honda 550 four, Kawasaki 500 Mach III, Kawasaki 900, BMW R 100/RS, i suoi cavalli di battaglia. Le pazzie in moto erano ordinarie con l'amico Pezzati G. (pure lui condivideva la passione con Fausto nei rally auto-moto), con Laverda 1200 e il Bonfatti con BMW R 100/RS, andarono tre volte nello stesso anno a Barcellona, Spagna, partendo sempre di venerdì pomeriggio per ritornare la domenica notte, follia pura.

    Con le vetture personali non scherzava, nell'ordine: Morris Cooper S a diciotto anni, BMW 2002 ti, Triumph TR6 spider, e Porsche 911T.

    Sempre assetato di un qualcosa non ben definito, prepotente la voglia di evadere, partorì così, l’idea di imbarcarsi come S./Uff. di macchina con la mansione d'elettricista, passato poi, Uff. Radarista a bordo, la compagnia NAI, Navigazione Alta Italia, P.za Leonardo Da Vinci, Genova, fu ben lieta di assumerlo al primo turno.

    NAI Matteini, *T/N super petroliera, imbarcato a Marsiglia con destinazione Golfo Persico, sei mesi di continuità no stop senza scali intermedi, carico e scarico greggio alla boa.

    NAI Premuda Rosa, T/N petroliera, imbarco a New York, destinazione Caraibi, Isole Vergini (Virgin Islands o Paradise Islands), Cuba, Jamaica, Saint Thomas e Saint Croix le mete.

    Quasi due anni di permanenza proprio a Saint Thomas, dove fece una lunghissima sosta a causa delle avarie subite dalla coda di un tifone, al limite del naufragio e salvati in extremis, qui conobbe certa J.J.Perkins, ragazza di colore.

    NAI Carolina, *M/N a stive, carico misto e navigazione alla *busca, Nord e Sud America le mete più usuali, fino in Russia, a Ghidinia. Solitamente sostavano, in attesa di contratto, nel Golfo del Messico a New Orleans, in Louisiana, oppure a Huston o Corpus Christi in Texas.

    Attese lunghe anche di mesi e un fottio di dollari in tasca, il mix vincente a stuzzicare la sua curiosità, toccava con mano il sogno da bambino, Fort Alamo, a San Antonio in Texas, e ti pare, così vicino al confine non mancò di avventurarsi in Mexico a bordo di uno sgangherato cab (Usa, taxi) e folle come lui l’autista, messicano, nelle vene Tequila con tracce di sangue. Casini a raffica, sbronzi da fare impallidire una distilleria, fu uno dei pochi gringo a superare la difficile border line messicana in entrata e uscita senza troppi danni, portando indietro la pelle, ospite, anche se per pochi giorni delle prisión di confine.

    Aveva soddisfatto la sua curiosità.

    Nel frattempo, un’improvvisa partenza anticipata della nave e restava a terra; complice il suo amico taxista e ritornava in Mexico ospite suo. Inconsapevole del futuro, alcol e femmine la sua dannazione, *sbagasciò ai quattro venti in territorio messicano, da Nogales a Salina Cruz passando per Acapulco. La compagnia era salita a quattro, la giovane cognata di Fuentes, l’autista, divenuta chica del Giorgio, e sua moglie, un quartetto di ubriachi senza patria con due zoccole.

    Arrestato dalla Policia Federal, poi il caso passato di competenza all’Interpol, fu rimpatriato a causa di una rissa, dove lui non aveva colpa, in parte, solo rivolta troppa attenzione alle lusinghe di una mujer sbagliata e non libera.

    Fuori su cauzione, pagata dalla compagnia genovese tramite l’associata sede di Baltimora, lo scherzetto gli costò una bella penale una volta a casa, ma sapeva riscattarsi e lo dimostrò.

    Due imbarchi consecutivi riconfermati dallo stesso Bonfatti, oltre dodici mesi di navigazione, fermandosi dove capitava.

    Aveva candeggiato l’onta disonorevole con la compagnia.

    Innamorato di quel lavoro, soddisfatto e strapagato ma sopratutto ben integrato, tanto che, consigliato della Compagnia stessa, invogliato a conseguire il brevetto di Operatore Radio Marconista, ma la mamma si mise di mezzo facendo saltare tutto. Il perché presto detto, nel Caribe aveva una relazione con una creola, Jane Joyce Perkins, dove, con l'aiuto del padre, sarebbe sbarcato non come clandestino ma regolarmente con tanto di lavoro a terra e residenza, bastava fare la domanda all'Immigration Bureau USA; voleva sposarsi con Jane, e aveva già provato a lavorare col padre, Louis, si trovava benissimo. Louis Perkins dirigeva, in qualità d'armatore, una piccola flotta di barche attrezzate per la pesca d'altura, precisamente al Marlin, sport molto praticato e in voga tra i ricchi vacanzieri americani che si recavano in quelle isole. Avrebbero lavorato in tandem, Giorgio e Louis, curando rispettivamente parte logistica e amministrativa, Louis sentiva la mancanza di un erede maschio e confidava molto in lui. Jane, assieme alla madre, portava avanti con successo un moderno fast food sull'isola, una combinazione vincente, ma l'egoismo della madre tanto fece che riuscì a intralciare la già difficile relazione, convincendolo con l'inganno e la menzogna a non imbarcare più.

    Questo il secondo enorme errore.

    Abbandonava in maniera definitiva, dopo una breve parentesi sui traghetti Linee Canguro in servizio per Sardegna e Grecia, l'ambiente marittimo.

    Nel frattempo il fratello, Franco, lavorava presso la ditta Bepi Koelliker Auto in C.so Europa a Genova, importatore e distributore, all'epoca, dei leggendari marchi inglesi Jaguar, Triumph, Rover e Leyland. Sotto lo stimolo della madre, mirata a mantenere l'egemonia sui due fratelli, unendo le forze di tutti e la cospicua liquidazione di Giorgio, nacque la G.B. Motors Auto Import & Export,Via Rimassa, sempre con sede a Genova. Fu un periodo felice e redditizio ma non duraturo, si chiuse dopo oltre dodici anni di attività.

    Andò in Africa in quegli anni.

    Proprio in questo periodo aveva ripreso, assieme al fratello, l'attività enduristica con Honda XR e Yamaha TT, entrambe a quattro tempi, 600 cc di cilindrata, partecipando a numerosi moto rallydell'epoca: Rally di Sardegna, Yamaha Challenge Trophy, Rally Torino-San Remo, Rally del Titano I^ e II^ edizione, tanto per citare i più famosi.

    Durante l'allenamento, nei boschi della Val Borbera (AL), subì un terrificante incidente, trauma cranico, due costole rotte e frattura scomposta della clavicola destra in tre punti.

    Operato all'ospedale di Novi Ligure (AL), con tanto di chiodo nella spalla, impiegò oltre un anno per ristabilirsi, fu la sua ultima avventura motociclistica, ridotto in quelle condizioni, non gli era più concesso di correre, tassativo il verdetto dei medici. Appese il casco al muro, come sul dirsi, aveva finito con le competizioni moto rally.

    La voglia di avventura, anche se con un braccio ridotto male, non certo calmata, si diede così a sport più tranquilli.

    Riprese la sua vecchia passione da ragazzo, la pesca in apnea, ma pure stuzzicato dalle immersioni con *ARA e in modo particolare dalla fotosub, macrofoto.

    Frequentò e s'iscrisse al circolo Paguro Sub di Genova, Vico Cimella a Caricamento, conseguendo brevetti fino alle tre stelle CMAS, prossimo il brevetto da istruttore che non volle conseguire per sua esplicita scelta, nel frattempo aveva raggiunto la carica di Vice Presidente all’interno del circolo.

    Le immersioni presupponevano l'uso di un mezzo nautico e così acquistò il gommone, Lomac 500 a chiglia rigida motorizzato 737 Johnson, ovviamente modificato a cinquanta HP e super dotato d'accessori per le immersioni e il campeggio nautico. Iniziava per lui l'avventura subacquea con i cugini Agostino Fanfani e Nino Velardo, amico e istruttore.

    Port Cros, la riserva naturale di Porquerolles in Costa Azzurra, le italiane Sardegna, Corsica, isola d'Elba e del Giglio, al nord, e a sud, isole Tremiti, Egadi, Eolie, centinaia d'immersioni mozza fiato, tutte fatte oltre il limite consentito dalla normale ragione e grossi rischi corsi tra l'esplorazione di grotte e relitti sempre più profondi.

    Mai contento da eterno insoddisfatto, dove la parola d’ordine era esagerare, si cimentò nel raid gommonautico, Genova Casacca- isola d'Elba, con i cugini Nino e Agostino, partendo pure loro in gommone, e rimasero bloccati all’Elba per cinque giorni causa maltempo.

    In preda all’esaltazione, praticò nondimeno la speleologia in Umbria, nelle viscere del monte Cucco (?), aggregandosi al gruppo amatoriale locale Speoumbria, percorse buona parte delle vie ferrate sulle Dolomiti e sul Lago di Garda, fece trekking invernale nella Vallèe des Merveilles al confine italo-francese, pendici del monte Bego alla ricerca d’incisioni rupestri, e free climbing sulle pareti dei canaloni rocciosi della Valle Borbera, in provincia di Alessandria.

    Proprio nel fiume Borbera, ventenne, rischiò d'annegare praticando quello che oggi si chiama Rafting: poco più di un gommone giocattolo, in primavera e a regime di piena ottimale, osò la discesa di sette chilometri del Borbera nel tratto da Pertuso a Persi, capovolgendosi alla fine del percorso in un'ansa particolarmente turbolenta, salvandosi al pelo per il rotto della cuffia.

    Vita sentimentale travagliata, molte le donne e pure belle ma poche o nessuna riuscivano a reggere per lungo tempo un ritmo di vita così impegnato, tranne Luciana.

    Questa la sua vita in pillole e sintesi delle principali vicende.

    Vivo oggi a Gioia Tauro, Reggio di Calabria, felicemente sposato con prole, e un poco più calmo.

    Pratico sempre l'attività subacquea in tutte le sue forme, alternandola a lunghe uscite in mountain bike, raggiungendo luoghi impervi e isolati dei monti dell'Aspromonte, godendomi paesaggi stupendi e ancora vergini, lasciando libero sfogo alla mente nel ricordare i tempi andati. Faccio qualche giro in Vespa, la mia fida PX 125, naturalmente elaborata Polini 175, mi pare ovvio.

    Rimpianti, sì, non poter ripetere quello che ho fatto, e se tornassi indietro farei ancora di più.

    Ho cinquantotto anni.

    Prologo, in che modo un viaggio può cambiarti la vita

    Marocco, attraversando Francia e Spagna.

    Il mio primo raid sahariano, senz'altro il più significativo e quello che ricordo meglio a così tanti anni dal suo svolgimento. Questa storia è nata e scritta per gioco, senza l’intenzione che diventasse libro, ma una faccenda personale fra me e il mio passato, comunque, oramai è buttata giù. Storia dove, oltre alla parte avventurosa vera e propria, si fonde la componente sentimentale, l'amore impossibile per una donna. Sembrerà banale ma nulla di più giusto come in questo caso risponde al detto la donna sbagliata al momento sbagliato nel luogo sbagliato. A molti potrà apparire una vicenda puerile e priva di senso, per me quello che è accaduto, la mia esperienza personale. Non posso e non voglio né cambiarla né modificarla, la racconto così, com’è avvenuta, cercando di essere il più fedele possibile. Mi scuso in anticipo se descrizioni e dialoghi possono apparire crudi e troppo spinti per i termini usati, non vuole essere un inno all’eros o alla violenza, né inteso a offendere la morale del buon gusto, ma così gli eventi si sono svolti e vissuti. Qualche particolare sarà impreciso, come i nomi stranieri, le date o altro, ma sono trascorsi ben ventotto anni, difficile rammentare tutto alla perfezione. Inutile precisare che luoghi e persone, protagonisti col sottoscritto di questi fatti, sono reali. Doveva essere solo un semplice raid sahariano, divenne il raid della mia vita.

    Nota bene: alcuni termini, frasi, modi di dire, contrassegnati con (*) sono riportati nel glossario a fine testo, da me liberamente interpretati e tradotti, utile leggerne la spiegazione per comprendere meglio il racconto.

    CAPITOLO 1

    L’IDEA, IL VIAGGIO

    *** Avventura,amore, sesso,elementiinscidibili***

    Persi (AL) , inverno 1982

    Poteva essere un qualsiasi sabato sera, ma non fu così.

    Il trio lescano, così soprannominati dai locali di Persi, io, Fausto e Luciana, eravamo agli sgoccioli di una truculenta cena attorno al caminetto nella villa dei miei nonni materni, l'odore acre e pungente della legna che allegra crepitava, si diffondeva nel salone accompagnato dal delizioso aroma di bistecche alla brace fatte da Lù.

    Boicottato il tavolo e accomodati sulla moquette, eravamo accaldati, non tanto per le calorie sviluppate dal fuoco, ma dall'accesa discussione in atto.

    Da poco partita la Parigi–Dakar, ne discutevamo i risultati, ognuno di noi diceva la sua da fuoristradisti incalliti, praticanti e convinti, quando esordii, forse in preda ai fumi delle troppe lattine di Beck’s:

    >Fausto, prepariamo la Jeep e andiamo in Africa?<

    La frase rimase scolpita a mezz'aria, un mutismo innaturale pesante come piombo, Fausto ruppe il silenzio:

    >Che cazzo dici?<

    Le labbra di Lù rimasero inchiodate in una frase che mai uscì.

    >Proviamo un giro facile, magari in Marocco che è vicino<

    Ripetei io, in scioltezza.

    Aria tesa.

    Mai più dimenticherò l'espressione tra il drogato e lo sgomento dei miei amici, e sì che li conoscevo da anni.

    Erano preoccupati, nel mare di cazzate che sparavo a raffica nei nostri incontri di fine settimana alcol culinario, capivano che parlavo seriamente.

    >Sì, un giro breve, per provare... < Riaffermai ma senza terminare la frase, aggredito, entusiasti e pazzi, approvarono all'unisono.

    Che amici! Una valanga di come e quando mi sommerse, il resto della serata passò, tra birra e grappa, nello stilare un programma di massima e stabilire i propri compiti.

    Notte fonda, le due passate da un pezzo, Fausto doveva tornare a casa e fuori nevicava di brutto, l'impegno di rivederci il giorno seguente per l'aperitivo, pranzare assieme e discutere del misfatto fu tassativo. Restammo io e Lù, l'eccitazione altissima, si fece sesso in modo speciale, rabbioso, dando il meglio di noi stessi, i corpi godevano lussuriosi, già nella nostra linfa scorreva la sabbia del deserto. Lei si addormentò profondamente, io eccitato non prendevo sonno, nudo, andai alla finestra, nevicava ancora e più forte di prima, una vera tormenta, mi versai quattro dita generose di Jack Daniel’s assaporandolo lungamente con voluttuosità, l'occhio andò alla piccola che sonnecchiava nel viale sommerso dalla neve, non sapeva cosa l’attendeva.

    Socchiusi gli occhi ed ero in Africa. Fatta, cazzo e stracazzo, io *Jones, il *dakariano (così mi chiamavano perché rompevo i coglioni a tutti con Dakar), forse a Dakar non arriverò mai, però mettevo i piedi in Africa, il grande Sahara mi, anzi, ci aspettava.

    Storica quella domenica fredda e nevosa, a dire poco elettrizzante, gli aperitivi svolsero a dovere il loro compito, preparando lo stomaco per una favolosa polenta e cinghiale in salmì. Seduti a lungo al ristorante Ridella, bevendo gotti su gotti di grappa, si discuteva del viaggio, euforici, gettavamo le basi del nostro futuro raid mentre orecchie indiscrete captavano le nostre voci eccitate. A Persi, il viaggio in Africa del trio lescano stava diventando leggenda, ed eravamo appena all'inizio.

    Le mansioni, di comune accordo, furono così ripartite:

    Fausto, allestimento e controllo meccanico generale della Jeep, Lù, rifornimenti e amministrazione, io, pianificazione logistica del viaggio.

    La parte mia e di Luciana fu relativamente semplice, rispetto a Fausto, che da solo dovette allestire tutta la Jeep, ma questo merita un discorso a parte. La raccolta dati sul Marocco iniziò nel comprare le più disparate guide turistiche, ben fatte e ricche d'informazioni se ti limitavi ai centri turistici da sempre blasonati, tipo Agadir e Casablanca, ma poco sul profondo sud, sulle regioni sahariane e le sue piste, proprio i luoghi che più ci interessavano. Decisi così di provvedere diversamente, interpellando il consolato di competenza, ottenendo buone info, anche se lentissime, e la notizia che il visto d’entrata sul passaporto non serviva fu da tutti gradita, tempo e denari risparmiati. Pareva ci fosse un casino di tempo, invece il tempo trascorreva troppo in fretta, mancavano pochi giorni alla fine d'aprile, la partenza prevista per i primi d'agosto incalzava, e non facile procurarsi tutto l'occorrente, vista anche la nostra inesperienza, era il nostro primo, vero, raid africano. Difficile la scelta delle gomme, quale usare?

    Un bel problema, dovevamo affrontare un lungo trasferimento via strada, tra Francia e Spagna, fino ad Algeciras porto d'imbarco, per sbarcare a Ceuta in Marocco, quindi, oltre duemila chilometri d'asfalto, impensabile farlo con gomme artigliate da fuoristrada, pena un'usura precoce, rendendole inservibili una volta giunti a destinazione.

    La dritta sulla scelta arrivò da Cavallari Gomme, noto gommista di Genova, montandomi quattro BF Goodrich All Terrain, coperture mediamente tassellate per uso stradale e off-road non estremo. Mai scelta fu più felice, si rivelarono ottime e longeve su ogni tipo di terreno, delle vere gomme da raid, e sempre consigliato da Cavallari, furono montati quattro cerchi di ferro a canale allargato per ospitare le BF, completando, così, l’assetto della Jeep.

    Nel frattempo, ordinati allaSafari Market di Milano, arrivarono la *binda, due *slitte da sabbia corte in alluminio, dieci taniche da venti litri per carburante e due contenitori da quaranta litri, sempre d'alluminio, per alimenti liquidi.

    Le conoscenze di Lù all’Ospedale S. Martino di Genova si rivelarono particolarmente utili.

    Medicinali diversi, ad ampio spettro d'applicazione, pastiglie disinfettanti per l'acqua, nonché una sicura profilassi antimalarica, furono mirati e preziosi più di ogni altra cosa nel viaggio, che lento, pigliava forma. Consultati medici vari, alcuni amici, delle nostre intenzioni, consigliati al meglio, scartammo tutti gli alimenti in scatola che non fossero rigorosamente sott'olio, per evitare il pericolo del *botulismo, quindi semaforo verde per tonno, sarde, acciughe, sottaceti, pacchi di spaghetti e minestre liofilizzate, fette biscottate, gallette Santa Maria, olio, zucchero, sale, caffè e un'immancabile scorta di J&B per un viaggio che sarebbe durato circa un mese.

    Nel frattempo, Fausto lavorò alacremente sulla Jeep creando un'opera unica, degna di lui.

    La *bagagliera, rigorosamente artigianale, svettava sul tetto della 4x4 come una torretta d'avvistamento, nera, in tondino quadro e lunga quanto il tetto, fissata alla grondaia con tre robusti doppi supporti per lato, terminava col cassone posteriore porta attrezzi e la scaletta d'accesso al tetto. Sull'anteriore della stessa, montati a sbalzo, facevano capolino quattro fighissimi *Cibiè alogeni da cento watt l’uno, capaci di bucare la notte più buia.

    Semplicemente fantastica, ma l'opera magna il *bullbar anteriore, costruito con tubi Dalmine per ponteggi da cinque centimetri di diametro.

    Esagerato.

    Seguiva il profilo della vettura, dal paraurti al cofano, proteggendo fanaleria e radiatore con una barra sporgente a mo' di rostro di oltre quindici centimetri, solidissimo, saldato allo chassis tramite piastre altrettanto mastodontiche.

    Sbalordente l'impatto visivo della Jeep, un misto fra carro armato sfonda tutto e un rompighiaccio, questa volta Fausto aveva superato se stesso, mai visto niente di simile, manco sulle riviste specializzate del settore! Ronfolona, così chiamavo il mio fedele fuoristrada per il pulsare rotondo e pieno dell’otto cilindri a V, seimila di cilindrata a benzina, marca "AMC Jeep, modello Wagoneer

    Cherokee Chef", cambio automatico a tre velocità con blocco a entrambi i ponti, un incrocio tra camion medio e un'enorme station wagon da oltre centosettanta cavalli di potenza.

    Giunti a metà giugno, Ronfolona, assemblata di tutto punto, pronta per il collaudo finale.

    Quale terreno migliore se non il letto del fiume Borbera per il nostro test: ciottoli piccoli e grandi, gradini e guadi naturali si alternavano in uno scenario a me caro, da sempre, di questo smisurato canyon che si snodava lungo l’omonima valle.

    Positivo al cento per cento, lei si comporta benissimo, sale, scende, si arrampica con agilità in punti impervi, corre veloce nell’alveo del fiume come se fosse in autostrada, nessun tremolio o cedimento pericoloso alle sovrastrutture aggiunte.

    Siamo tutti al settimo cielo e dire gasati è poco.

    La sera stessa siamo nuovamente ospiti del Borbera, dobbiamo regolare i fari di profondità montati sulla bagagliera per avere una luce radente perfetta, l'operazione non porta via molto tempo e passata da un pezzo l'ora di cena, ci scateniamo con un ricco barbecue a base di salcicce e birra.

    Tutto preventivato, Fausto ha portato una sua amica e si apparta nel boschetto, io e Lù restiamo accanto al falò. Sesso per tutti.

    La Jeep ufficialmente pronta e collaudata; l'idea di lasciare parcheggiata Ronfolona a casa di Fausto parve a tutti noi ottima, senza stressare inutilmente la macchina a così poco tempo dalla partenza in inutili viaggi da Genova nel weekend.

    Usavamo l'A112 di Luciana per i nostri spostamenti, e una volta da Fausto si prendeva la Jeep per andare al Mulino, pizzeria-disco club, nostro abituale locale di ritrovo da sempre. Nel vasto piazzale della discoteca, lei, spiccava maestosa tra le altre vetture, facendo sfigurare le consorelle 4x4 lì posteggiate, la gente additava:

    >Sono loro quelli che vanno in Africa, guarda che Jeep... sono matti!<

    L'eco del nostro raid africano rimbalzava in Valle come una pallina da ping pong, da Borghetto Borbera a Cabella Ligure, regolarmente, al nostro tavolo si raccoglievano amici o semplici curiosi, tempestandoci di domande, bramosi di sapere il perché e il percome con un pizzico d'invidia, e proprio qui l’incontro insolito quanto inaspettato.

    >Mi chiamo Mohamed Alì Moustafhà, sono marocchino, siete voi quelli che vanno in Marocco?< Questa la presentazione di quel povero diavolo, stupiti, occhiate tra noi con fare interrogativo.

    >Sì, siamo noi, cosa vuoi?<

    Rispose Fausto, curioso.

    Alì, con espressione conigliesca, impaurito, supplichevole:

    >Datemi un passaggio, devo andare a Fes, dalla mia famiglia, posso dividere le spese del viaggio<

    Va bene l'essere diventati famosi in valle per il nostro raid, ma addirittura taxi africa... era un po' troppo, e poi eravamo contrari nel dare passaggi a sconosciuti.

    Silenziosi, muti, pensierosi non sapevamo che dire.

    A furia di domande, chi sei, cosa fai, come ci conosci, scoprimmo che il tizio era parente di un marocchino, venditore ambulante, che Fausto conosceva molto bene a Borghetto, dove sua madre comprava spesso. Alì faceva lo stesso lavoro, doveva portare i soldi guadagnati in Italia e un po' di mercanzia alla sua famiglia, a Fes, appunto.

    Ancora indecisi se prendere dal nuovo amico dei soldi come quota di partecipazione, fu stabilita la data della partenza , venerdì 30 luglio in piazza del Comune di Borghetto, a mezzanotte, ok per Alì, noi pure, Fes era sulla nostra direttrice verso sud, solo una breve deviazione all'interno rispetto al tragitto originale. Mancavano dieci giorni alla partenza.

    I problemi arrivarono a bruciapelo.

    Gravissimo il fratello di Luciana, operato d'urgenza all'ospedale Galliera di Genova, e sfiga vuole, pure Alì degente all'ospedale di Novi Ligure per coliche renali.

    Il viaggio tanto agognato rischiava di saltare.

    Luciana, per forza di cose, doveva rimandare la partenza di almeno una settimana con la possibilità di raggiungerci dopo all'aeroscalo di Madrid; il problema grosso era Alì, come trovare casa sua a Fes senza di lui? Alì si fidava ciecamente di Fausto, preparò i denari per la sua famiglia ficcandoli in una busta gialla, a parte, scrisse la lettera da mostrare assieme alla sua foto con la moglie una volta giunti a Fes; implorò piangendo che dovevamo partire lo stesso, anche senza di lui.

    Bella responsabilità e un bel casino trovare casa sua, mostrando solo una foto e una lettera non si sa bene a chi.

    La tabella di marcia fu rispettata, alle ventidue e trenta di quel venerdì, Fausto ed io imboccavamo il casello sull'autostrada Serravalle-Genova-Ventimiglia, e la sfiga volle che le nostre più ottimistiche previsioni andassero a pallino, all'alba eravamo fermi in coda sotto una galleria puzzolente di gas, ben lontani dal confine italo-francese, torme di vacanzieri avevano invaso le strade, logico in periodo feriale. Gli occupanti delle vetture, ferme come noi in fila, osservavano dai finestrini incuriositi e non a torto. Preparata e carica com'era, Ronfolona di certo non passava inosservata: sulla bagagliera in prima fila le dieci taniche per la benzina, quattro gomme artigliate disposte in pila due a due, gli scivoli da sabbia fissati ai lati assieme a due corte pale, completavano l'insieme a dire poco originale.

    Godendoci i diciotto gradi del poderoso clima, Fausto ed io davamo fondo ai tramezzini al prosciutto, attingendo caffè forte e amaro dal termos preparato la sera prima dalla signora Ilze, sua madre, e sulle note di Proud Mary CCR, e Smoke on the Water Deep Purple, a stecca, immaginavamo i commenti della gente. Dopo Nizza-Cannes, verso Marsiglia, il traffico si era regolato e snellito, consentendoci di viaggiare costanti alla velocità di circa cento km/h.

    Fermati in autogrill, tanto per stirare la schiena e sgranchire le giunture, oltre al naturale bisogno fisiologico, il boato ci raggiunse con forza inaudita: la Jeep avvolta in una nube di fumo nero e acre, attorno scene di panico, chi urlava, chi si buttava a terra, noi due attoniti continuavamo a non capire, di sasso, occhi spalancati.

    "É esplosa", formulai tra me e me non appena la materia grigia si rimise in moto.

    Avanzammo lentamente mentre la densa nube di fumo e polvere si dissolveva tra le altre vetture parcheggiate, inconsapevoli delle pistole spianate verso di noi.

    "Una bomba, terroristi, sono loro, qui, presto!" Urla, ordini e grida si fondevano assieme in un casino bestiale.

    Vuoi per l'esplosione, vuoi per il nostro abbigliamento paramilitare, eravamo circondati da una pattuglia della Gendarmeria per caso lì ferma. Più chiaro di così, non c'era molto da capire, mani alzate e immobili, dopo pochi minuti fu un brulicare di poliziotti. Trattati come comuni delinquenti, mani sul cofano e perquisiti accuratamente nella persona, palle incluse, passarono poi alla nostra identificazione e controllo passaporti. Ben poco ci volle a comprendere cosa era successo da quanto evidente, sotto la Jeep giaceva penzoloni la marmitta, era esploso il silenziatore catalizzato! Perché sì perché no, la Jeep, di provenienza dalla RFT, era già a norme anti inquinamento e male digeriva la nostra super rossa, noi non si sapeva e la sonda, arrivata al limite dell’auto combustione, era saltata.

    Le scuse frettolose della Gendarmeria ci lasciarono lì, come due coglioni, nel mezzo di una folla curiosa che stentava a capire e avanzava domande.

    Afann'inculo, digrignai tra i denti facendomi largo tra gli astanti, avviandomi verso il bar a comprare le Marlboro, avevo un disperato bisogno di fumare.

    Seduti sul bordo del muretto, grondanti sudori per il caldo soffoco, valutavamo il danno e come ripararlo in loco; intanto tra una palla e l'altra eravamo oltre metà pomeriggio.

    In compagnia di un fottio di santi scesi dal cielo, da noi chiamati tra una bestemmia e l’altra, tutti seduti attorno, con lamierino, pinze, filo di ferro, nastro d'amianto, la riparazione venne eseguita anche se non troppo silenziosa.

    Dal sommesso brontolio al minimo, un lacerante fragore aumentava all'aumentare dei giri del poderoso V8, trasformandosi in un ruggito profondo: Ronfolona esprimeva tutta la sua magnifica potenza.

    Alla Junchera, il confine franco-ispanico, giungemmo a notte inoltrata, zero traffico e rapidità doganale ci permisero di transitare velocemente, e alla prima stazione di servizio, tensione e stanchezza ebbero ragione delle nostre membra, addormentandoci di colpo senza proferire parola. Bolliti. Un noioso e ronzante moscone ci svegliò intorpiditi, balzati

    giù dalla Jeep, tappa alla toilette per una sommaria rinfrescata, doppio caffè nero e forte con brioche al bar e telefonata rapida in Italia, ma d'obbligo, a Lù, sarebbe arrivata il lunedì seguente all'aeroporto di Madrid; per noi rotta su Barcellona e pure veloci, autentica fretta bagascia. Nel mio girovagare in motocicletta, negli anni passati, ero già stato diverse volte a Barcellona e la conoscevo piuttosto bene, quindi, una per tutte, La Rambla General figurava la mia meta preferita e non per caso. La Spagna, nel 1975, alla morte del dittatore Francisco Franco, con l'avvento di Juan Carlos di Borbone, re di Spagna, aveva fatto passi da gigante nell'evoluzione e liberalizzazione sessuale e La Rambla era il luogo più indicato per divertirsi a tutto tondo, ecco motivata la fregola d'arrivare al più presto possibile; stuzzicato dai miei discorsi, Fausto, in barba ai consumi *tirò il collo a Ronfolona viaggiando alla grande. Perpignan, Gerona, li superammo veloci arrivando alla meta sospirata in netto anticipo, albergo con garage sulla Rambla, doccia tonificante e riposino.

    Avremmo ripreso in contatti nella serata.

    Lavati e sbarbati con abiti puliti, stravaccati come pascià nelle enormi poltrone di vimini dallo schienale a coda di pavone, si centellinava un ottimo Fundador, rilassati, contemplavamo in silenzio nell'attesa di cenare, la movida, quella fiumana umana in cerca di divertimento con due persone in meno ma presto aggiunte.

    Un delizioso profumo annunciò le portate: paella catalana e gamberi alla piastra, arrostiti al punto giusto, fecero una degna fine allettando i nostri avidi palati di buongustai, il tutto annaffiato con del buon *cava locale, frizzante e fresco quanto basta. Finimmo in bellezza con un maxi gelato affogato al caffè, appagati nello spirito, ma non nel corpo, ovvio, mancava il meglio. C'era solo l'imbarazzo della scelta, troppo belle perché siano puttane, da sempre chiesto perché una donna di tale attrattiva lo faccia, se per sola moneta o insaziabile voglia di sesso, magari associato ambo le cose, l’utile al dilettevole.

    Una stallona purosangue, nera corvina, dalla pelle bronzea, puntò con occhi come more, preso con forza insospettata sotto braccio facendomi sparire, spinto di botto, nel vestibolo. Stavo per essere violentato.

    Né un se o un ma, senza alcun preambolo, le sue labbra sulle mie in un vortice frenetico della lingua da togliere il fiato, di scatto si tolse guardandomi di brutto, per quello che intesi:

    >Mi piaci, sono abituata a prendere quello che voglio e non è una questione di soldi < Ben poco da ribattere.

    Di nuovo fuori, e chiamò a viva voce ma elegantemente la sua amica, molto carina, comunque non del suo calibro, presentandola a Fausto. Stava facendo tutto lei, io, non avevo ancora aperto bocca, stordito. Le puttane, a volte, sono imprevedibili e bizzarre, comunque, mai come queste due. Alina Cortès Guzman e Isabella Manola de Almagro, se non erano nomi d'arte, così si presentarono ma poco importava. Entrambe native di Toledo, Castiglia Nuova, da sempre amiche, arrivate a Barcellona per divertirsi, non si consideravano puttane ma libere e spregiudicate, vogliose di provare nuove sensazioni estreme, esaltanti.

    Per me restavano troie.

    Col passare delle ore e poi dei giorni a venire, tra passeggiate nei lunghi vialoni, bagni in spiaggia, disco-club e ristoranti, dovetti ricredermi sul loro conto, non andarono mai a scrocco, anzi, offrivano loro.

    Il tempo stringeva, l'arrivo di Lù sempre più vicino e quella storia aveva preso una brutta piega per entrambi, e ne eravamo consapevoli.

    Per pudore e ritegno tralascio volutamente quello che ci fu tra Alina e il sottoscritto, ma vi posso assicurare che un'impresa di demolizioni avrebbe arrecato meno danni, sia nel corpo sia nell'animo. I postumi di quella storia li portai dietro per molto e molto tempo, certi tipi di donna ti stregano e Alina una di quelle, difficile dimenticare.

    Seduti alla guida da un paio d'ore, direzione Madrid, arrivava Luciana al Barajas. L'umore pessimo, avevamo lasciato l'albergo di buon'ora, pagato il conto lasciando una lauta mancia al portiere affinché chiudesse un occhio sulle nostre due amiche lasciate a dormire nelle rispettive camere. Detestavamo gli addii malinconici, ma entrambi avevamo il *magone.

    L'atmosfera goliardica della partenza era svanita nel nulla, e se non fosse per Luciana, che ignara aspettava all'aeroporto, senz'altro avremmo fatto ritorno in Italia all’istante.

    Due amici di vecchia data, veri, intuiscono tutto l'uno dell'altro senza parlare, a fiuto.

    Non era la prima volta. Sapevo con certezza che Fausto soffriva quanto me, come un cane, e che la sua condizione di fidanzato ufficialmente in casa non migliore della mia. Il tacere e fingere con le rispettive morose fu un tacito accordo mai pronunciato. Il volo è in perfetto orario, pochi minuti per espletare le formalità doganali e Luciana si unisce a noi, si riforma il gruppo, suo fratello è fuori pericolo, festeggiamo brindando al bar del terminal con birra corretta whiskey, abbiamo bisogno di strinarci. In preda all'orgasmo dell'alcol, forziamo l'andatura verso sud, vogliamo dimenticare e ci concentriamo sul viaggio, Marocco, deserto, piste sabbiose ci aspettano, urrà, urrà, urrà, urliamo a squarciagola in preda al delirio più esasperato nel cacciare i fantasmi del recente passato.

    Il ritmo sostenuto ci porta rapidi a Granada, non godiamo

    delle bellezze del luogo, pasti frugali consumati in macchina alternandoci alla guida, si viaggia giorno e notte no stop, pure Luciana è contagiata dalla frenesia generale, una donna con le palle, dimostrando un'ottima dimestichezza con quella specie di carro armato che oramai è il nostro unico rifugio, tiriamo come forsennati, sempre.

    Giungiamo a Malaga di notte, e Malaga by-night è favolosa, ma la stanchezza reclama e cerchiamo un campeggio per passare il resto della notte.

    É categorico, dobbiamo riprendere fiato se vogliamo entrare in Marocco nel pieno delle forze, e alcuni giorni di sano relax a Malaga saranno ben pagati dopo, Algeciras è vicina e non scappa di certo.

    *Bagonando, pigri, tra una spiaggia e una gelateria, controlliamo il mezzo, che, rumore a parte è in condizioni splendide. Il buon umore è ritornato, si ride e scherza, Lù, dopo la forzata separazione e tour de force degli ultimi giorni è vogliosa, facciamo sesso ma per me non è più come prima.

    I giorni di riposo passano rapidamente, e la partenza avviene come di consueto, a notte inoltrata, col fresco. Ceniamo in un localino simpatico lungo la costa a base di gazpacho, zuppa fredda di verdure e gambas al pilpil, gamberetti saltati in padella con salsa piccante al tabasco e brandy, dal gusto delicato e semplicemente squisiti, a cerveza ci tratteniamo, evitiamo di allungarla col whiskey. La batteria di fari da quattrocento watt, montata sulla bagagliera, illumina la strada a giorno permettendoci di guidare in tutta sicurezza sull'asfalto tortuoso che s'inerpica, per poi scendere in pianura verso lo Stretto di Gibilterra.

    Algeciras, estrema propaggine di terra Andalusa, si pone di fronte a noi in tutto il suo concitato bailamme nonostante l'ora tarda, le strade sono affollate e brulicanti in un chiassoso e disordinato vociare, arabo, spagnolo, francese si amalgamano in un unico, incomprensibile dialetto.

    Individuiamo l'agenzia viaggi per fare i biglietti del traghetto, è gremita all'inverosimile da una fiumana di persone in una coda non coda, accalcandosi in furiosa ressa presso il bancone vendita, non ci piace, troppo casino per restare nella mischia con tutti quei soldi in tasca, veramente troppi.

    Tornati alla Jeep, concordiamo che è giunto il momento di stare all'erta, dividiamo in parti uguali e nascondiamo le mazzette, Fausto ed io all'interno della soletta degli anfibi, Luciana nel reggiseno, un classico femminile. La busta gialla di Alì già al sicuro fin dalla partenza nella cassaforte ideata da Fausto: una vecchia tanica con doppio fondo saldato, stuccata e mal verniciata era stata ulteriormente invecchiata strisciandola più volte sulla ghiaia rovinandola di proposito. Sembrava proprio vecchia, sulla vernice bianca screziata, spiccava la scritta *engine water, impronte d'unto e grasso rendevano più veritiera la mistificazione.

    Acquistati i biglietti, ci dirigiamo al terminal d'imbarco, una vera e propria arena; non esiste ordine prioritario ma vige la regola del più prepotente. Il traghetto, ormeggiato in fondo al molo, era la parte terminale dell'imbuto, e completato il carico, partiva per tornare diverse ore dopo. Stessa scena.

    Negli occhi di Fausto brilla una luce satanica, è pane per i suoi denti; inserisce le quattro ruote motrici con riduttore, accelera e frena in *secche stoccate senza dare spazio, le Goodrich mordono rabbiose l'asfalto, il bullbar sfina paurosamente i cofani posteriori delle auto che precedono, Ronfolona procede a balzi come un gatto che, sornione, gioca con i topi. La supremazia è tale che nessuno azzarda furbate, imbarchiamo al primo turno.

    Sì, lo so, è stata prepotenza bella e buona, ma gli altri, potendolo fare, avrebbero fatto di peggio. Lo sbarco avviene in modo decisamente normale, già ci sentiamo africani anche se Ceuta è ancora territorio spagnolo.

    L'avventura è già iniziata alla Valla de Ceuta con le sue barriere di filo spinato alte più di tre metri, che isola Ceuta spagnola dal Marocco. La burocrazia doganale, lenta e ripetitiva, massacrante come tutti i paesi africani, ex colonie, che hanno ottenuto l'indipendenza, per dimostrare la loro superiorità rispetto al governo precedente, da stronzi, mantengono le vecchie leggi con l'aggiunta e varianti attuali totalmente inutili, col solo risultato di rendere più difficile cose già complicate. Non si capisce nulla, moduli e contro moduli da compilare dichiarando i nostri dati anagrafici e della vettura, provenienza, quanta valuta estera e motivo del viaggio, il tutto rigorosamente scritto in arabo e sottotitolato in francese con caratteri così piccoli che gli occhi ti schizzano fuori dalle orbite nel vano tentativo di leggere.

    Un ragazzino spigliato, dodici o tredici anni, dietro compensa di pochi franchi, si offre in nostro aiuto, noi, dobbiamo fare solo l'interminabile coda per ritirare i passaporti. Ok, patteggiamo affidandoci a lui.

    Luciana si mette in fila, Fausto ed io sorvegliamo la Jeep, uno seduto dentro e l’altro fuori in piedi, quando nella coda di Lù scoppia casino. Lei urla e sbraita inveendo verso alcuni indigeni, corro, mi avvicino cercando di calmare a fatica quella furia rossa scatenata, le hanno palpato il fondo schiena ed è incazzata nera, rimango incollato alle sue chiappe e finalmente ritiriamo i passaporti senza altri problemi.

    Scuro come un corvo, un militare dalla corporatura tozza e ben piantata con la divisa strapiena di medaglie, spille, cordoncini colorati, a passo spedito si avvicina facendomi cenno con la mano, ecco i primi casini, pensai rimescolato dentro. Fronte a fronte, impeccabile e solenne nel saluto tipico militare, qualificandosi comandante in capo della Gendarmeria locale, vista la scenetta precedente e in un misto di arabofrancoispanico stentatissimo, mi consigliò molto gentilmente, di tenere a bada la mia donna, in particolare nell'abbigliamento, e non potevo dargli torto. Aveva pienamente ragione, in un paese musulmano, dove le donne contano meno che niente, girano col *burqa, occhi rivolti a terra e schivano gli uomini, pensate quale effetto facesse Luciana con la camicetta arrotolata in vita sotto la quarta di seno, l'ombelico scoperto accompagnato da shorts stampati sulla pelle da quanto stretti, e grazia se stavano su da quanto bassi oltre i fianchi, la perfetta antitesi dell’abbigliamento coranico! Prima lezione di vita vera, quando si è ospiti di un paese con religione e cultura così diversa dal nostro, entrare in punta di piedi senza offendere la morale locale mi sembra un atto dovuto e di buon senso, abbiamo tanto da imparare in questo viaggio, poi, un motivo mi turbava fin dal nostro arrivo dandomi disagio e senza capirne il perché; gli uomini, indistintamente, giovani e anziani, mi lasciavano il passo nell’incrociarmi ammiccando un breve cenno del capo, questo solo con me e non con Fausto. Un rapido consulto, di comune accordo vogliamo toglierci subito il pensiero della consegna dei soldi ai famigliari di Alì, così chiediamo notizie per raggiungere Fes, consigliata la strada costiera via Kenitra, più facile e scorrevole, ok, vuol dire che ammireremo il panorama della costa Atlantica. In Marocco si può mangiare a qualunque ora, e alle quattordici decidiamo di pranzare presso un chiosco con annessa macelleria all’aperto, il meglio trovato finora tra i tanti scartati.

    Dobbiamo abituarci, vincere la riluttanza, cibarsi di quello che vediamo se vogliamo continuare il viaggio e capire a fondo

    questo popolo. Qui, gli standard igienici sono ben diversi dai nostri e in ogni caso molto lontani, quindi, mosche a parte che sciamano ronzando posandosi su quei cosciotti di capra puzzolente, preferiamo degli spiedini di non so bene che cosa alla vista passabili, speziati e piccanti, ovviamente niente vino ma coke o acqua, disgrazia vuole calde come piscia appena fatta e niente ghiaccio a parte, pazienza, siamo in Africa. Un tavolino sghembo e arrugginito, con la tovaglia sudicia d'unto che portava i segni dei commensali precedenti, sedie altrettanto mal combinate, sono il nostro desco, il ristoratore, premuroso, si rivolge solo a me porgendomi la seggiola.

    Ora basta, devono spiegarmi perché si concentrano sul sottoscritto ignorando gli altri.

    >Tu capo, tu comandi!< Lagna il tizio, aggredito in malo modo dalle mie domande.

    >Ma quale capo e capo< Replico seccamente.

    >Tu porti segno!< La mano tesa e sudicia indica i miei baffi; e già, da qualche tempo, ancora prima della partenza, portavo sottili mustacchi alla mongola che incorniciandomi il mento scendevano fin sotto la gola, era un segno distintivo, di capo, in Marocco.

    Scoppiamo in una fragorosa risata e urlo:

    >Io sono il capo!< Si ride di gusto e brindiamo a coke, gli spiedi, buoni ma troppo pepati per il nostro stomaco, mettono una sete terribile, così, lontani da occhi indiscreti diamo fondo a una delle bottiglie di J&B miracolosamente scampate alla dogana.

    Ripreso il viaggio, scopriamo uno sterrato che piega a destra e porta giù alla spiaggia, la stanchezza mista allo splendore del luogo convincono a campeggiare in riva all’Atlantico, e a ridosso della Jeep, sdraiati nella sabbia tiepida, contempliamo quella forza della natura, la sua brezza lambisce i nostri corpi accaldati in una piacevole sensazione di benessere.

    Ognuno di noi si lascia andare ai propri pensieri, a giro, di mano in mano la seconda bottiglia di J&B passa e finisce, prendiamo sonno, beati.

    Risvegliati infreddoliti, contempliamo il sole africano che tondo e sornione tramonta sull'Atlantico, è uno spettacolo senza uguali, guizzi dorati tra le onde che frangono vigorose sulla battigia, un invito irresistibile, tolti gli anfibi, ci lanciamo in una corsa frenetica sulla sabbia, gli spruzzi bagnano fino alla cintola, siamo pazzi di gioia, felici di vivere e di essere lì. Rapidamente montiamo la *canadese, cerchiamo e troviamo della legna da ardere, non tanto per cucinare ma perché non esiste bivacco senza falò, questo era il nostro credo scontato. Il tonno in scatola con le fette biscottate pare buono, ma è la magia di quel luogo a rendere tutto speciale, e così la notte fonda ci sorprende ancora svegli accanto al fuoco, vestiti, pigramente alziamo le cerniere dei sacchi letto crollando in un sonno da orsi in letargo.

    All'alba, il bricco del caffè è già sul piccolo fornello da campo, lo prendiamo forte e amaro per scrollarci, e ripiegata la tenda, un ultimo sguardo a quella baia baciata da Allah, risaliamo lo sterrato che porta alla statale proseguendo per Kenitra.

    Sembra di viaggiare da un'eternità da quante cose viste ed esperienze fatte, la nostra amicizia è più che mai consolidata, un trio formidabile e ben unito, ne siamo terribilmente fieri.

    La mattina passa veloce tra chiacchiere e lunghi silenzi, ammirando il paesaggio arriviamo a Kenitra; sostiamo brevemente, giusto il tempo di trovare un'agenzia di cambio perché un po' a corto di *dirham e preferiamo fare tutto in regola al cambio ufficiale anziché del più vantaggioso in nero, almeno per ora, cerchiamo di evitare casini.

    Dalla costa Atlantica cominciamo a risalire il Rif, direzione Fes sul Medio Atlante, il borbottio di Ronfolona è sempre pieno e rassicurante.

    Consultata più della Bibbia durante la Messa, la guida Michelin indica che Fes è il massimo centro culturale e religioso del Marocco, quindi niente cazzate, convincendo Luciana con la forza a indossare un abbigliamento più consono. Graziata da madre natura nelle forme, lato A e B notevoli, per mascherare quelle curve femminili troppo accentuate, le faccio indossare un paio di miei calzoni con relativa maglia, larghi, un ampio foulard blu in testa contiene la folta massa di riccioli rosso fuoco provocatori, lei protesta ma non me ne fotte niente, non vogliamo assolutamente crearci problemi gratis.

    Inizia la ricerca dei parenti di Alì, cosa non facile in un centro di circa quattrocentocinquantamila abitanti e segnaletica per modo di dire, ridotta a meno del minimo necessario. A pomeriggio inoltrato avevamo fatto il classico buco nell'acqua, ma col dono dell'incoscienza perseveriamo e chiediamo a tutti, mostrando la foto e la lettera. Nello scritto era indicato come arrivare a casa sua, poiché non esistono vere strade tranne la principale, le altre, viottoli secondari anonimi senza nome, si va a intuito e per conoscenza, difficile orientarci.

    Le ore passano lente, inesorabili, ancora niente, lo sgomento di non riuscire inizia a farsi vivo, ragioniamo cambiando tattica, se Alì commerciava tappeti in Italia provenienti da Fes, probabilmente qualche commerciante del posto lo conosceva, così restringiamo il campo di ricerca al mercato.

    Una due ore, tanto culo, e bingo! Sulla porta della bottega, un distinto commerciante, elegantissimo nel suo *kafetano marrone chiaro, incuriosito dal nostro fare, sbirciando, riconosce Alì nella foto e ci blocca.

    Legge la lettera e annuisce, parla esclusivamente arabo, ad ampi gesti chiama un ragazzo, suo figlio forse, ci spiega come se noi capissimo, non capiamo ma è come se avessimo capito tanta è la contentezza.

    Il giovane sale in macchina per accompagnarci, vorremmo sdebitarci ma non vuole, si porta la mano al petto, *In Shaa Allah, salutandoci. Gli amici del giovane, nel frattempo, hanno assalito la Jeep aggrappandosi a ogni sporgenza possibile. Parto lentamente in una nube di polvere, sembriamo un gigantesco grappolo d'uva con tutti i suoi acini, allungo l'occhio al retrovisore esterno, quella figura alta e secca guarda compiaciuta, sollevo la mano e saluto, ricambiato.

    Non l'avremmo mai trovata quella contrada senza il provvidenziale aiuto da quanto *imbriccata, gira a destra, a sinistra, un continuo sale e scendi su infidi campi incolti, sentieri dalle mille diramazioni tra infinite coltivazioni di fichi d'india, e finalmente una costruzione cinta da alte mura in perfetto stile arabo. I ragazzi balzano a terra saltando dal tetto della Jeep con agilità inaudita, dei veri acrobati, dileguandosi tutti rapidamente, tranne uno. Un vecchio sdentato dal ghigno paralitico, accerchiato da una torma di cani latranti, è fermo impalato in quella specie d'aia.

    In un primo momento diffidente, poi, dopo aver ascoltato il ragazzo, muove verso di noi a braccia aperte, sfoderando un sorriso cordiale mettendo in bella mostra i pochi denti rimasti.

    >In Shaa Allah<

    Goffi, rispondiamo allo stesso modo ceffando tutti gli accenti.

    Parla da asmatico con lunghe pause e sibili, non si capisce un cazzo, mostriamo la lettera con foto di Alì e moglie, guarda lo scritto senza leggere, probabilmente è analfabeta, e con più gesti insistenti c'invita a entrare.

    Disturbato dalla nostra presenza, un randagio, mezzo incrocio tra cane e iena, si avvicina ringhioso ai miei polpacci, sono pronto e teso a sfoderare un poderoso calcione su quel brutto muso spelacchiato. Entriamo.

    A stento freniamo i conati di vomito dal puzzo di stalla che quel cortiletto maleodorante emanava, inconcepibile per noi, capre, montoni, pecore, cani, sterco animale e umano coesistevano, lì, a cielo aperto, se tale il puzzo fuori, figuriamoci dentro. Per non offendere, fingendo di pulirmi il naso sulla manica della camicia, premetti forte sull'avambraccio trattenendo il fiato, preparato al peggio, subito imitato dai miei amici, uno sguardo d’intesa incoraggiandoci a vicenda, entriamo maledicendo il momento.

    Stupore e incongruenza africana, l'interno lindo, aria fresca e pulita convogliata da un sistema di bocchette, creava una piacevole quanto inaspettata corrente regolare. Maleducati, in ritardo, imitammo il padrone di casa sfilando gli anfibi lasciandoli sulla soglia, una rapida mossa ei soldi da sotto la soletta finivano nei tasconi laterali dei *camu, assicurandomi al tempo stesso d'avere l'antifurto in tasca, il led lampeggiava, segnale di allarme inserito, mi sentivo molto più sicuro.

    Approssimativa dall’esterno, vista dentro, dal numero di porte e corridoi che s'intravedevano la costruzione pareva molto grande. Guardavamo spiando, curiosi a quel primo, vero, contatto con la vita islamica.

    Subito, e affascinava un casino, l'ampio salone disseminato da tappeti e soffici cuscini dai colori sgargianti disposti in tondo, contrastava l’assenza di mobili, quei pochi, costituiti da basse mensole alte poco più di mezzo metro. Ambiente particolare senza finestre ma solo piccole grate, tutto immerso in una piacevole penombra, al centro, troneggiava un grande piatto di rame, tondo e massiccio, finemente lavorato, a lato il classico *narghilè, sempre pronto all’uso. Un dubbio, un tarlo si faceva strada nelle nostre menti, era la persona giusta? Chi era costui, il padre? Potevamo dargli i soldi, sicuri di non sbagliare? Come se avesse letto i nostri dubbiosi pensieri, l’anziano signore, con fare regale, batté seccamente le mani ossute e da lì a poco entrò una donna minuta, velata, stringeva al petto una foto incorniciata e la mostrò: era la copia esatta della nostra, lei e Alì! Tirammo un profondo sospiro di sollievo, come Alì avesse avvisato del nostro arrivo, rimase un mistero. Andai a prendere la tanica bianca dando luogo a procedere, martello e scalpello alla mano, tanica tra le gambe, feci saltare non proprio facilmente il doppio fondo, consegnando l’attesa busta gialla al patriarca, fieri di noi stessi. Il senso dell'ospitalità berbera è proverbiale, festa grande in nostro onore, e nel mentre il padrone di casa predispone per il banchetto, affascinati, seguiamo il rito del tè mesciuto per tre volte consecutive, come esige la tradizione, e versato con abilità nei gottini dall'alto di un bricco formando una densa schiumetta superficiale. Le novità si avvicendano, non esiste zucchero in polvere ma in blocchi di aspetto diversa, a forma di mattone bianco perla se raffinato, scuro e ovale se grezzo. Un blocco ambra, portato dalle carovaniere del *sud dalla sagoma di uovo gigante, è rotto in minuti pezzi da un piccolo martelletto appuntito, simile a quello da geologo e il tutto riposto nel vassoio di rame al centro del tappeto.

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