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Note noir: Settima raccolta di racconti in memoria di Marco Frilli
Note noir: Settima raccolta di racconti in memoria di Marco Frilli
Note noir: Settima raccolta di racconti in memoria di Marco Frilli
E-book390 pagine5 ore

Note noir: Settima raccolta di racconti in memoria di Marco Frilli

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Info su questo ebook

Note e Noir, sono questi i due elementi al centro della settima antologia dedicata a Marco Frilli. Melodie di grandi compositori o semplici ‟canzonette” accompagnano questi cinquantuno racconti di talentuosi autori divenendone colonne sonore se non coprotagoniste. Nel cinema fatto di storie cupe e atmosfere inquietanti la musica è elemento essenziale: Profondo rosso privo dei suoni allucinati dei Goblin non perderebbe gran parte del suo pathos? D’altronde la composizione di un racconto e quella di una melodia sono in qualche modo simili: in entrambi bisogna trovare il ‟ritmo” giusto che prenda il lettore o l’ascoltatore per condurlo fino al termine del brano. Il giallo/noir è oggi il genere che sicuramente riesce a raccontare meglio, nelle sue diverse sfumature, la nostra contemporaneità delineando un ritratto della società estremamente realistico, fatto anche di disagi e violenza. Come scrisse Leonardo Sciascia: “nel poliziesco il tempo…non più scandito da condizioni e condizionamenti, è come sommerso in una fluida e opaca corrente emotiva…”. La stessa corrente emotiva prodotta, di fatto, da certa musica. Ecco il motivo dell’aver voluto accoppiare i due generi in racconti dove personaggi nati dalla fantasia dei cinquantasei autori (alcuni scrivono a più mani) spesso incontrano l’indimenticato Marco Frilli rendendolo realisticamente e mai retoricamente vivo e nel pieno della sua infaticabile attività. Che aggiungere? Buona lettura!
(Armando d’Amaro)

Gli autori: M. Ansaldo, A. Barigozzi, A. Bastasi, M. Bellini, M. Bellucci, R. Besola, A. Ferrari e F. Gallone, M. Biagini, M. Bonini, N. Calleri, R. Casazza, R. Castelli, M.R. Cresci, V. Cucinella, A. d’Amaro, F. D’Aniello, S. De Bastiani e D. Cambiaso, E. Delmiglio, M.C. Dibari, D. Domenici, E. Esposito, M. Fagnoni, D. Falleti, M. Fellegara, L. Ferrari, D. Ippolito, F. Livoti, S. Lombardo, D. D. Longo, E. Luceri, A. Maccapani, F. Marchetti, N. Marchetti, P.C. Marengo, M. Masella, L. Massabò, Isa Maurice (M. Isaja e M. M. Gatti), R. Mistretta, S. Monleone, R. Negro, A. Novelli, L. Poggi, A. Reali e L. Malusà, N. Retteghieri, G. Rizzo, I. Schiavetta, B. Squassino, G. Trebeschi, M.T. Valle, P. Varalli, L. Veroni, M. Villa.
LinguaItaliano
Data di uscita6 nov 2023
ISBN9788869437267
Note noir: Settima raccolta di racconti in memoria di Marco Frilli

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    Anteprima del libro

    Note noir - A.A.V.V.

    Massimo Ansaldo

    Prima che il gallo canti

    Artrite reumatoide.

    Una tragedia per chiunque venga colpito dalla malattia, ma se tu sei la chitarra solista di una affermata rock band non è solo una tragedia, è la fine di ogni sogno, di una carriera, di una vita.

    Sono chiuso nella stanza di una pensione di campagna, lontano dal frastuono della città, per decidere del mio futuro. Una bottiglia di Lagavulin e le mie adorate pasticche antidepressive sono compagne fedeli della mia condizione di disgraziato.

    Dimenticavo di dire che l’artrite può colpire ogni punto del nostro complesso sistema articolare, anche il mignolo di un piede, avrei zoppicato, ma sarei riuscito a trascinarmi sul palco e continuare a svolgere la mia parte, a suonare i miei amati riff, ad incantare pletore di ragazzine stupide, ma fedeli.

    Invece no.

    L’artrite reumatoide, come acido solforico iniettato da una flebo demoniaca, ha abbracciato mortalmente le mie mani, le dita, le falangi, persino i polsi.

    Sono finito come musicista, fallito e senza futuro.

    I miei compagni di band devono essersi accorti che qualcosa non andava, che la mia compromessa agilità leggendaria aveva rallentato la velocità di esecuzione.

    Impossibile arginare un travolgente effetto domino.

    Era diminuita anche la mia capacità creativa, le note che prima si materializzavano come d’incanto, improvvisamente sembravano giocare malignamente a nascondino.

    Infine la memoria.

    Non ricordavo più le parti, interrompevo le registrazioni, alcune volte nei concerti dal vivo, basso e tastiere coprivano i miei imbarazzanti vuoti di esecuzione. Scale sbagliate su accordi semplici, un disastro.

    Una volta li ho spiati, pensavano fossi uscito a fumare una sigaretta, fuori dallo studio di registrazione. Non ce la fa più… dobbiamo pensare a qualcosa per… non possiamo continuare così… forse è meglio che…. Le ultime parole non ero riuscito a comprenderle, ma sono certo che avevano cominciato a pensare di sostituirmi, cacciarmi senza uno straccio di riconoscimento per tutto quello che avevo fatto per loro: il successo della band lo dovevano a me, che cosa sarebbero stati capaci di fare senza la mia chitarra?

    È allora che ho deciso di prendermi quello che meritavo. Costi quel che costi, mi sono detto. Occhio per occhio, dente per dente.

    Avevamo finito di registrare l’ultimo album, i sondaggi pre-lancio lo indicavano come il probabile successo dell’anno. Saremmo divenuti immortali icone del rock moderno, paragonabili alle stelle del passato.

    Ho rubato l’ultima registrazione, il mastering completo e definitivo, inciso sul disco master, l’acetato dal quale si sarebbe ottenuta la copia madre. Senza quella nessun disco può essere stampato e commercializzato. Ora l’unica copia esistente è dentro il mio zaino, non so ancora che cosa farne, forse dopo mezza bottiglia di Lagavulin mi sarà più chiaro come potrò attuare la mia vendetta.

    Non mi interessano i soldi e la fama, voglio solo distruggere quelli che volevano distruggermi.

    Sono coricato sul letto, comincio a percepire la sospensione dei sensi, l’alcol che agisce sugli strati più reconditi della coscienza. Pensavo fosse notte, invece il baluginare di una debole luce mi dice che l’alba bussa invadente contro le tapparelle. Poi lo sento per la prima volta senza capire che cosa sia, da troppo tempo vivo immerso dentro i fracassi delle metropoli.

    Una cosa è certa, l’alternanza dei suoni non è melodiosa, anzi direi nervosa, secca e strozzata. Ma ha una sua dignità compositiva, voluta o casuale che sia. Mi ritrovo a muovere le mani appoggiate sul petto, come se imbracciassi la mia chitarra Stratocaster, diteggiando le note che sto ascoltando.

    Mi, La, Mi minore e bemolle, solfeggio a mente ciò che ascolto. Che strano, sembra che il ritmo regga, che fluisca dal profondo di non so che cosa, ma fluisce. L’ispirazione cresce, mentre continuo a memorizzare le note che provengono dalla finestra.

    Chicchirichì!

    Il gallo ripete ossessivamente sempre lo stesso motivo, ma l’articolazione dei suoni che emette ha una consistenza dignitosamente musicale e nelle mie mani sta per trasformarsi in uno stupendo riff.

    Mi alzo, apro lo zaino, la copia madre dell’incisione cade a terra, prendo un foglio pentagrammato e scrivo, scrivo, sembra non voglia fermarmi più. Non solo il riff, ma anche la melodia, il ritornello, il controcanto, le parti per gli strumenti, persino gli arrangiamenti.

    Al primo raggio di sole il silenzio discreto della campagna avvolge ogni cosa. Guardo la bottiglia di Lagavulin vuota, riflette l’immagine dell’etichetta sulla custodia di plastica della registrazione che ho rubato.

    Un senso di stordimento mi assale, lasciando che la febbre dell’euforia scompaia in un angolo della stanza. Guardo verso la finestra e in lontananza, scorgo la sagoma di un piccolo campanile. L’aria frizzante di una mattina in campagna mi attira come un amante insaziabile, inutile tentare di resistere, la vera bellezza è sempre gratis. Più ne vedi e più ne vuoi.

    Scendo e mi dirigo verso la chiesa poco distante. L’edificio deve aver visto tempi migliori, la differenza con un rudere difficile da trovare. Come cercare sul mio volto i tratti di quando sono stato bambino. Impossibile.

    Lì trovo un vecchio, curvo sopra un campo coltivato ad ortaggi di vario tipo, riconosco insalate e fagiolini e scatta, prepotente, il ricordo della mia infanzia, mia nonna e il cibo che solo lei sapeva preparare.

    Buongiorno….

    Il vecchio si alza quel poco per squadrarmi con attenzione. Ora posso vedere i lineamenti ossuti, il viso fasciato in una pelle incartapecorita, gli occhi rinculati dentro una fessura impenetrabile.

    Ti vuoi confessare?.

    Mi scappa da ridere e riesco a trattenermi dal mandarlo a quel paese per un inaspettato senso di rispetto verso quello che ora riconosco essere un prete. Tutti e due dobbiamo ringraziare mia nonna, io per star zitto e lui per non prendersi un sonoro vaffa. A guardarlo meglio assomiglia ad un anziano frontman di una band death metal. Gli elementi gotici ci sono tutti e la giornata sembra riservare continue sorprese, gradite o meno.

    No… non voglio confessarmi….

    Fai male… comunicarsi il giorno del Venerdì Santo è buona cosa….

    Vorrei scappare, tornare in camera e finire il Lagavulin, ma ricordo che la bottiglia è vuota, tanto vale non scappare, allora.

    Chicchirichì

    Eccolo il gallo, è da qui che cantava il suo incredibile riff. Guardo il mio ghost songwriter, ha una espressione sveglia e zampetta irrequieto, non vedo galline in giro, sarà per quello.

    Lo senti? Oggi è il suo giorno! Per la verità non si può dire che sia il suo giorno fortunato… non è un bel ricordo quello che suscita….

    Mi incuriosisce il vecchio prete, i suoi occhi lacrimosi danno l’impressione di non essere mai domi. Chi invecchia non vuole lasciare il mondo, solo comprenderlo, o almeno cercare di farlo, mi diceva la nonna.

    Non capisco….

    Pietro! Il tradimento! Prima che il gallo canti mi tradirai tre volte, profetizzò Gesù… e oggi il mio gallo ricorda quel fatto….

    Sono basito. Le coincidenze, i fatti casuali, le stranezze del destino mi hanno sempre fatto incazzare, come tutte le cose che non riesco a sottomettere alla mia volontà e al desiderio di decidere io tutto quello che deve e può accadermi. Somma illusione!

    E poi come è finita? La storia del gallo intendo….

    La mia domanda è stralunata, roba da strafatti e, a parte denunciare un’ignoranza religiosa abissale, deve aver intrigato il vecchio prete.

    Come è andata a finire… Gesù è morto e Pietro è diventato il capo della Chiesa…perché Gesù è risorto….

    Troppo complicato, non fa per me. Avessi portato le pastiglie ne offrirei una al vecchio prete, gli direi di rilassarsi un po’, di non prendersela troppo a cuore e cercare di non incasinarsi la vita.

    Chi tradisce… ha sempre un’altra possibilità… più o meno è andata a finire così.

    Chicchirichì.

    Il gallo si mette a borbottare qualche acuto soffocato, più che cantare sembra impegnato a brontolare contro l’intero universo.

    Torno nella mia stanza. Mi rigiro tra le mani la copia madre, distruggerla, spaccandola in mille frammenti, sarebbe facile.

    Il gallo canta ancora, ma la sua vena artistica sembra passata a miglior vita. Vado a leggere il suo testamento artistico, testamento? Chissà quanti altri riff potrebbe suggerirmi, forse in qualche altro giorno, che non sia il Venerdì Santo.

    Ne dubito.

    Ho la percezione che quanto accaduto sia accaduto perché doveva accadere proprio a me.

    Oggi.

    Sentite questa….

    La chitarra vibra come se il legno fosse animato. Il riff è prepotente, sfacciato, esplosivo. La cadenza ritmica esprime qualcosa di nuovo, mai ascoltato prima. Ho ben presente quando mi capita di cogliere un accento di novità musicale, nascosto dentro una apparente e ripetitiva normale esecuzione. Accade rarissime volte. Il genio creativo è questo: arriva, passa e sta a te salirci sopra, come fosse un treno fuori orario, lanciato alla massima velocità.

    Ci guardiamo in faccia, siamo di fronte a qualcosa di sotterraneo che pressa per uscire.

    Un vulcano di note incandescenti sta per esplodere. Gli altri componenti della band sono concentrati sugli strumenti come se da essi dipendesse la loro stessa esistenza.

    Fluisce! Fluisce di nuovo!.

    Urlo tanto forte che neppure l’amplificazione, calibrata al massimo, riesce a soffocare le mie parole. Stiamo rivivendo il nostro momento magico, io lo sto vivendo.

    Le mani, sciolte come non mai, le dita elastiche e i polsi saldi che, come perni, accompagnano le evoluzioni musicali più ardite. I muscoli e i nervi irrorati da un fluido magico che pompa olio benefico come nel motore di un’auto sportiva. La velocità aumenta sempre di più, i cilindri stanno per volare via, impossibile resistere a lungo.

    Mi sveglio di soprassalto, sono ancora nella camera e ora, la penombra annuncia l’abbraccio avvolgente e riposante del tramonto.

    La tenebra è ancora distante.

    La scatola delle pillole antidepressive giace, triste e inutile, sotto la spalliera del letto.

    La prendo a calci, il senso di rivalsa agisce come adrenalina pura.

    Mi affaccio alla finestra e cerco la sagoma del campanile, non c’è, e neppure il campo, nessuna traccia del vecchio prete, non riesco a distinguere i tratti del muro della chiesa diroccata.

    Il gallo starà dormendo, beato lui.

    Il pentagramma!

    Mi prende un nodo alla gola.

    È sul tavolo, le note scritte insieme al pennuto in bella evidenza, un riff rivoluzionario.

    Imbraccio lo zaino e corro in auto verso la sala di registrazione, i miei compagni non dovrebbero essere ancora tornati e nessuno, forse, si è accorto del furto. Se arrivo in tempo, prima della sessione mattutina di prove, riuscirò a rimettere a posto la scheda madre.

    Chi tradisce… ha sempre un’altra possibilità… più o meno è andata a finire così.

    Vecchio prete metallaro!

    Ieri ero tanto ubriaco che non ricordo se l’ho incontrato oppure sognato, ma il gallo l’ho sentito eccome!

    Rimiro lo spartito, è reale e suona da Dio, eccome se suona da Dio!

    Arrivo agli studi che è ancora buio, il custode mi riconosce, entro strisciando contro i muri e raggiungo gli impianti di registrazione. Infilo la scheda madre al suo posto, mi accascio su una poltrona e mi addormento coccolato e cullato dal mio riff preferito.

    Sveglia campione! Ma dov’eri finito? Vogliamo parlarti….

    Non me ne frega più niente, ormai ho il mio riff, che cosa può interessarmi d’altro? Che mi caccino, se ne pentiranno!

    Abbiamo trovato un medico in Svizzera che ha scoperto una cura miracolosa per l’artrite reumatoide… ne parlavamo l’altra sera, poi sei sparito e non abbiamo fatto in tempo a dirtelo… hai già l’appuntamento fissato! I tuoi amici ti pensano, sai? Che ti credi? Senza di te non esiste la band… A proposito ascoltiamoci la scheda madre, non vorrei avesse qualche difetto nascosto… in agguato dentro le tracce… ma che cosa sono questi spartiti? Tu sì che sei un genio della composizione… facci sentire dai!.

    Vai a spiegare ai miei amici che devo ringraziare un gallo che ha riacceso la mia creatività il giorno del Venerdì Santo e che un prete che assomigliava ad un cantante metal mi ha ricordato che stavo per tradire la loro amicizia e gettare tutto alle ortiche.

    Come spiegare che neppure io sono sicuro che tutto sia accaduto veramente?

    Suoniamo il riff, che è meglio!.

    Adelaide Barigozzi

    La chiave di violino

    Lo voleva uccidere quel maledetto. Già, ma come?

    La contessa Maria Teresa Strozzi Barozzi era da giorni che si lambiccava il cervello. Il conte andava e veniva, cambiava i suoi programmi manco facesse zapping con la sua vita, un giorno era lì e l’altro chissà dove. Era impossibile pianificare.

    Poi un pomeriggio, sdraiata sul dondolo in terrazza mentre tentava di fare shopping online con la carta di credito che il conte le aveva effettivamente bloccato, le venne un’idea. Avrebbe sedotto quel saputello che dava lezioni di violino a suo figlio Gianmaria: sarebbe stato lui a escogitare un piano, e a realizzarlo. Clemente non era un brutto ragazzo dopotutto, e lo aveva già colto a fissarle la scollatura. Una volta eliminato il conte ed entrata in pieno possesso delle sue risorse smisurate, se le cose si fossero messe male avrebbe potuto sempre dare la colpa al ragazzo. Doveva solo ricordarsi di conservare preventivamente qualche prova schiacciante a suo carico.

    Un ultimo atroce lamento lacerò l’aria, dopodiché tornò la pace. Finalmente poteva rientrare a casa: la lezione era finita. La contessa sospirò: Gianmaria era negato per il violino. Attese che il figlio si allontanasse, e si diresse con falcata da pantera verso l’ignaro insegnante.

    Maestro, va già via? Vorrei offrirle una coppa di bollicine, sa è il mio compleanno e mio marito è via per lavoro…, disse con voce lasciva avvicinandoglisi un po’ più del necessario.

    Ovviamente non era affatto il suo compleanno, ma le sembrò un ottimo modo per rompere il ghiaccio.

    Clemente arretrò di qualche passo. Odiava la parola bollicine, era un chiaro esempio della sciatteria in cui stava sprofondando la lingua italiana.

    Intende prosecco, spumante, millesimato o champagne?, chiese puntiglioso.

    La contessa sorrise e gli prese la mano.

    Venga, che lo scopriamo insieme.

    Così era iniziata.

    Due settimane dopo Clemente si sarebbe chiesto come aveva fatto a ficcarsi in un simile guaio.

    Il sole non era ancora sorto e lui camminava barcollante per il vicolo che scendeva verso il centro città, la custodia del violino tra le braccia. Pochi minuti prima si era svegliato senza abiti addosso nella camera padronale dell’elegante villa Strozzi Barozzi con un mal di testa lancinante e la contessa in babydoll che lo scuoteva per le spalle.

    Devi andartene orsetto! Non puoi farti trovare qui….

    Orsetto?

    Cosa ci faceva nudo nel letto di una donna a cui aveva sempre dato del lei? Perché l’aveva chiamato orsetto? La sua mente era ottenebrata. Doveva assolutamente procurarsi un caffè, l’emicrania lo stava uccidendo.

    Un momento, ora ricordava. La nebbia si diradò e Clemente si rivide riverso su un divano, le dita della contessa tra i capelli. Lo aveva ubriacato, ecco cos’era successo. E tra un brindisi e una carezza, gli aveva ordinato di uccidere il marito.

    Da settimane quella donna non gli dava pace. Non bastava che fosse la madre dell’allievo meno dotato che avesse mai avuto. Il fatto che si trattasse anche dell’unico, visto che si era dato all’insegnamento dopo un corso base online di violino fatto durante la pandemia, era un dettaglio. Proprio in quel momento, si accorse con orrore di non indossare le mutande. Doveva essersele dimenticate dalla contessa. Che avesse scordato qualcos’altro, magari il violino? Aprì la custodia, e lo vide: un coltellaccio da macellaio sporco di sangue, conficcato nella cassa armonica dello strumento. Un istante dopo notò anche un fagotto roseo adagiato sul fondo di velluto. Lo fissò incredulo: era un orecchio. Un orecchio umano.

    Nemmeno immaginate cosa è successo!, esclamò Patti eccitata, facendo la sua entrata trionfale nel negozio di abiti curvy che gestiva insieme alle amiche Clara e Rosanna nel centro storico di Genova, la famosa boutique Tutta Curve, tempio della moda oversize, delle chiacchiere in libertà e delle merende a ogni ora.

    Il padre dello studente di violino di Clemente, il conte Strozzi Barozzi, è scomparso: nessuno ne ha più notizia da due giorni. Un vero mistero!.

    Le socie avevano già ampiamente commentato l’ultima follia del figlio di Patti, ovvero improvvisarsi violinista e offrirsi perfino di dare lezioni a pagamento, e non era il caso ora di tornarci sopra.

    Intendi l’armatore? Quello di cui si sospetta un rovinoso crac finanziario a causa di una serie di noli mai pagati in Cina?, chiese Clara, che grazie al marito era sempre informata sugli ultimi scandali del porto.

    Non sapevo del crac, ma sì, proprio lui. Pare che nella villa abbiano trovato tracce di sangue, e potrebbe essere suo.

    Cosa dice Clemente?, chiese Rosanna.

    Lui non mi racconta mai niente!, si lamentò Patti. Dice solo che ha dovuto interrompere le lezioni perché gli hanno rubato il violino sull’autobus.

    "Perché dice? Non gli credi?", chiese Clara.

    Certo che gli credo, ma penso mi stia nascondendo qualcosa. Lo vedo preoccupato, silenzioso. Da qualche giorno non sembra più lui....

    La notizia era di dominio pubblico. In seguito alla scomparsa dell’armatore Strozzi Barozzi la polizia aveva rinvenuto nella sua residenza tracce di sangue che erano risultate appartenere all’uomo. Le forze dell’ordine erano giunte alla conclusione che doveva trattarsi di omicidio: il cadavere non era stato ancora trovato, ma era solo questione di tempo. I primi a essere interrogati erano stati la moglie e il figlio, ma i maggiori sospetti si stavano concentrando sull’insegnante di violino di quest’ultimo.

    Non ho idea di come siano finite sotto il letto della contessa!, ripeté per l’ennesima volta Clemente. Era chiuso in quella stanzetta della questura da tre ore ormai, non ne poteva più.

    L’ispettore capo Belinazzi lo guardò con severità.

    Però quando ti sei svegliato ti sarai pure accorto che non le avevi….

    Gliel’ho già detto, soffro di colite, mi è venuto un attacco mentre stavo facendo lezione, così sono andato in bagno a liberarmi e, ehm, devo essermele dimenticate".

    Non gli era venuto in mente nient’altro di più plausibile, che umiliazione.

    La contessa ci ha raccontato una storia diversa: hai cercato in ogni modo di sedurla contro la sua volontà. Hai ucciso suo marito e poi ti sei sbarazzato del corpo, perché non sopportavi più di spartire la donna di cui sei follemente innamorato con un altro uomo. La volevi tutta per te, insieme ai suoi soldi!.

    Questo era troppo. Clemente farfugliò qualcosa tra sé e sé.

    Cosa hai detto? Parla più forte, gli intimò Belinazzi.

    Potrebbe essere mia madre….

    L’ispettore lo guardò colpito, come se si fosse accorto solo in quel momento di chi avesse davanti.

    Finalmente l’avevano lasciato andare, ma non si faceva illusioni. La polizia non avrebbe rinunciato facilmente a un colpevole perfetto come lui. Per fortuna, aveva avuto la prontezza di liberarsi del violino e di tutto il resto. Aveva gettato in mare separatamente il coltello e la custodia; quest’ultima prima l’aveva riempita di sassi, ed era stato allora che si era accorto che mancava l’archetto. Dato che aveva già abbastanza guai, aveva deciso di ignorare la cosa.

    Davanti alla questura incrociò la contessa e Gianmaria, lei in nero come se venisse dal funerale, lui patito, con un berretto di lana calato sulla fronte. Madre e figlio gli passarono accanto senza degnarlo di uno sguardo. Di quali orrori era stata capace quella donna? Aveva accoltellato a morte il marito e poi, non paga, gli aveva pure tagliato un orecchio. Ma perché quella mutilazione? Che gli avesse sottratto le mutande per incastrarlo ora gli era chiaro, ma il resto? Più cercava di dare un senso logico a quell’incubo, e meno ci capiva.

    Un agente lo bloccò.

    La dichiaro in arresto per l’omicidio di Amilcare Strozzi Barozzi.

    Belinazzi era soddisfatto. In pochi giorni, avevano trovato l’assassino dell’armatore. La prova definitiva era stata l’archetto insanguinato ritrovato dalla contessa in un vaso cinese. Stranamente era sfuggito alla prima perquisizione. Il sangue era poi risultato appartenere a Strozzi Barozzi, l’archetto all’insegnante di violino. L’ispettore capo era dispiaciuto per la madre, una vecchia conoscenza: insieme alle socie della boutique Tutta Curve, Patti in passato lo aveva aiutato a risolvere un paio di casi. Ma di fronte alla giustizia, lui non guardava in faccia nessuno.

    Bussarono alla porta.

    Quale non fu la sua sorpresa nel vedersi comparire davanti proprio le tre amiche al completo.

    Siamo qui per Clemente: è innocente, dichiarò bellicosa Patti.

    Siamo qui per il presunto omicidio dell’armatore Strozzi Barozzi, la corresse Clara.

    Abbiamo le prove: è vivo!, esclamò Rosanna.

    Strozzi Barozzi era stato immortalato da una telecamera del porto mentre s’imbarcava il giorno stesso della sua presunta scomparsa sulla portacontainer La Favorita, diretta a Shanghai. La nave era stata bloccata dalle autorità spagnole, subito allertate, durante una sosta a Malaga, dove l’uomo era stato identificato e preso in custodia per reati finanziari.

    Il conte pensava alla fuga già da qualche settimana, intenzionato a rifarsi una vita altrove grazie ai soldi che aveva nascosto alle isole Cayman, ma le circostanze gli avevano suggerito una soluzione migliore per tutti: inscenare la propria morte. Nessuno l’avrebbe più cercato e, grazie al regime di separazione dei beni, i creditori non avrebbero potuto rivalersi sulla vedova.

    E il coltello insanguinato? E l’orecchio?, chiese Clemente, frastornato per la ritrovata libertà. Appena uscito dal carcere, Patti lo aveva accompagnato alla boutique per aggiornarlo sugli ultimi sviluppi insieme alle amiche.

    L’orecchio è di Gianmaria, rivelò Rosanna. Quella sera sua madre ti ha fatto ubriacare, ma pure lei aveva bevuto parecchio. Pare che vaneggiasse di far fuori il marito. È stato proprio il conte a sentirla: era tornato a casa per fare le valigie e l’ha sorpresa avvinghiata a te sul divano. Prima che potesse dire qualcosa, è piombato nella stanza Gianmaria brandendo un coltello. Era fuori di sé, minacciava di ucciderti e poi, al colmo dello psicodramma, si è tagliato un orecchio. In tutto questo, tu sei rimasto sempre privo di sensi.

    Al conte non è parso vero di approfittare della situazione per simulare un omicidio di cui lui era la vittima. Si è ferito con il coltello di Gianmaria, ha lasciato in giro un po’ di impronte, e se n’è andato, aggiunse Clara.

    Così la contessa, nel panico, ha nascosto coltello e orecchio nella tua custodia, per sbarazzarsene e incolparti, concluse Patti.

    Clemente sospirò. Gianmaria, del resto, non aveva mai avuto orecchio.

    Alessandro Bastasi

    Twist and Shout

    Vede, ispettore, tutto è cominciato con il concerto dei Beatles. Era il 1965, il 24 giugno. Al Vigorelli, il velodromo, un tempietto laico del ciclismo.

    Quella sera ad ascoltarli eravamo in venticinquemila. Il biglietto è costato ben mille lire, i posti migliori erano venduti anche a tremila. Non arrivano subito, i ragazzi di Liverpool, prima ci sono Peppino di Capri, Fausto Leali, i New Dada. Vola qualche fischio d’impazienza. Poi buio e silenzio.

    L’intero campo del Vigorelli trattiene il respiro.

    Lucio Flauto e Rossella Como, i due presentatori della serata, spuntano infine sul palco. Due frasi due di introduzione, appena il tempo di proclamare il fatidico Ed ecco a voi…, che dieci fari multipli s’incendiano in contemporanea, a sparare migliaia di watt sui quattro volti sorridenti comparsi dal nulla, chitarre a tracolla, Ringo alla batteria, … I BEATLES!. Ma nessuno lo sente il grido stridulo di Rossella Como, già sommerso da un’esplosione collettiva di urla, tra svenimenti, lacrime che scorrono sui visi, occhi che implorano, labbra che invocano, George, George…. I quattro attaccano subito con Twist and Shout. Un programma vero e proprio, contorciti e urla, poco meno di un inno alla perdizione. E pensare che la RAI li aveva snobbati, e anche per i giornali quei quattro capelloni non sarebbero durati più di sei mesi…

    Frequentavo l’ultimo anno dell’ITIS, indirizzo elettronico, ma già allora dei circuiti trifase o cosa cazzo fossero non m’importava nulla, era stato mio padre a insistere. Ero figlio unico, mia madre era morta, lui per me voleva un avvenire sicuro, e l’elettronica era il futuro. A me invece piaceva la musica, solo la musica, anche se non sapevo distinguere una nota dall’altra, un Re dal Sol. E quel concerto era stato una deflagrazione, quella sera avevo deciso: avrei fatto il cantante.

    Combinazione, quattro amici miei di scuola avevano un’idea analoga: costituire un gruppo; pianola, basso, chitarra e batteria erano al completo, mancava solo la voce, il vocalist, come si dice. Eccomi qua, ho detto. Abbiamo provato – c’è bisogno di dirlo? – un paio di canzoni dei Beatles, e la cosa ha preso piede. Mi dicevano che ero meglio di Gianni Morandi.

    Mio padre?

    Mio padre era nero, Ti mando a lavorare in fabbrica, lazzarone, altro che cantare!. Eh, lei è giovane, ispettore, non sa come fosse il mondo allora, certo, di lì a tre anni ci sarebbe stato il cosiddetto Sessantotto, ma per un cinquantenne come mio padre quello che gli stavo prospettando era il frutto avvelenato dell’immoralità, delle minigonne, dei capelloni, dei "bit, bitnik o come cazzo si scrive, di quella roba inglese e americana che si stava diffondendo anche in Italia, quella musica urlata e inascoltabile, gruppetti scriteriati di studenti viziati e fannulloni, senza voglia né di studiare né di lavorare, cresciuti nella bambagia!. Per lui la Canzone era quella di Claudio Villa e Luciano Tajoli, e insomma, agli esami di quinta sono passato per il rotto della cuffia e alla fine anche con mio padre l’ho spuntata, Solo quest’estate, poi ti trovi un lavoro, okay?, così tutte le sere stavamo a provare nel garage di Francesco, il batterista. E piano piano, soprattutto l’anno dopo, con buona pace del genitore, qualche lira avevo pure cominciato a raccattarla, con le canzoni dei nuovi gruppi, l’Equipe 84, i New Dada, serate in feste private, o nei luoghi di vacanza, e poi alle feste dell’Unità. Ci chiamavamo I Gabbiani". Era subentrata pure una voce femminile, Anita, le cui grazie ci contendevamo io e Francesco.

    È stato a gennaio del Sessantasette che si è fatto vivo un certo Ettore Cusani. Mi ha telefonato a casa presentandosi, pensi un po’, come l’agente di cantanti celebri, Edoardo Vianello, Jimmy Fontana… Lei magari non sa chi fossero ma erano davvero famosi, e insomma, questo Cusani dice che mi aveva sentito alla festa di Capodanno in un ristorante di Legnano e che gli ero piaciuto e avrebbe voluto fare due chiacchiere con me.

    Lei cosa avrebbe fatto? Avevo poco più di vent’anni, capisce bene che l’idea di avere a che fare con l’agente di Edoardo Vianello e di Jimmy Fontana mi faceva luccicare gli occhi, voleva dire carriera, dischi, successo, soldi!

    Ci siamo visti il giorno dopo in una latteria dalle parti dell’Ortica. All’epoca nelle latterie non si vendeva solo il latte, operai e impiegati di giorno ci andavano a mangiare, una pasta al pomodoro, un piatto di uova fritte. Mi piacevano le latterie, i commessi con il camice bianco, quei grossi frigoriferi, i mobili tra l’azzurro e il verdino, il profumo di fresco del latte…

    Come dice? Che avrei dovuto capire subito che si trattava di un imbroglione, che uno che mi offriva un misero piatto di pasta in un posto di operai non poteva essere quello che millantava di essere? Ha ragione, ma come le ho detto in quel momento avevo in mente solo di entrare alla RCA, il mio nome alla radio e alla televisione, la mia foto sui giornali, che coglione, eh?

    Sì, e qualche dubbio avrebbe dovuto suscitarmelo

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