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Nonostante tutto
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E-book216 pagine3 ore

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Info su questo ebook

«Questo libro narra vicissitudini passate e presenti dell’Autore e di un universo di personaggi che, a vario titolo, fanno o hanno fatto parte della sua vita. Storie di amicizia, gioia, sofferenza, conoscenza, amore, dolore, sesso, viaggi e musica, che ne scandiscono un’intera esistenza. Ben scritto, leggero senza essere inconsistente, con una sua morale senza essere moraleggiante, invita alla leggerezza e all’ottimismo anche e soprattutto di fronte ai problemi.
LinguaItaliano
Data di uscita13 dic 2022
ISBN9791222037912
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    Anteprima del libro

    Nonostante tutto - Paolo Mormile

    PAOLO MORMILE

    NONOSTANTE TUTTO

    Atile edizioni

    La saggezza non si riceve, bisogna scoprirla da sé dopo un percorso che nessuno può fare per noi né può risparmiarci, perché è un modo di vedere le cose.

    (Marcel Proust)

    Possiamo scegliere quel che vogliamo seminare, ma siamo obbligati a mietere ciò che abbiamo piantato.

    (proverbio cinese)

    Ad Antonio, andato via troppo presto,

    e a zia Titina, d’improvviso.

    PREFAZIONE

    Poeti, musicisti, filosofi e uomini di una certa sensibilità si sono spesso interrogati intorno a cosa ci sia nella vita, a possedere un valore assoluto. L’amore, la bellezza, la poesia, la verità? Oggi, nell’incertezza e nella fragilità dell’esistenza naufraga, non basta la bellezza o la verità per nuotare nel mare del fallimento, per tenersi a galla tra le onde del quotidiano travolgente. C’è invece bisogno di una scialuppa di salvataggio, costruita da una divinità potente, in mezzo al deserto della Babele contemporanea del Ventunesimo secolo, gli anni del delirio panico.

    È una presenza sorridente che offre salvezza. Lei sì che ci sa fare. Frizzante, incantevole e dissacrante, dallo sguardo morbido e profondo, regala chiavi che salveranno il mondo senza retorica, per scimmiottare Dostoevskij. Non parlo di Bellezza. E allora? Chi è questa fugace, misteriosa apparizione, un po’ ninfa un po’ filosofa? È la vera protagonista di questo libro, è la Leggerezza che sussurra tra pagina e pagina Res ipsa loquitur.

    Nei frammenti di vita raccontati da Paolo Mormile soffia come una leggera brezza primaverile, indica la strada, consola, canta e balla nello spettacolo rocambolesco tra terremoti emotivi e tempeste quotidiane che fanno traballare il senso del mondo. Qui c’è un uomo vero, reale, che vive insieme a tutte le sue fragilità, senza negarle, ridendoci su, ripetutamente brindando con la signora Leggerezza.

    Passo dopo passo, o sarebbe meglio dire, parola dopo parola, l’impressione è di essere trascinati in un on the road del quotidiano limpido e asciutto. Le storie si assaporano come un bicchiere di vino rosso, corposo e strutturato, con indefinite sfumature che inebriano i sensi. Un sentire conosciuto eppure invisibile. C’è dolore, allegria, follia, gioco, dramma e un’ironia sottile che completa il gusto, sorso dopo sorso.

    Tra voci, maschere, fughe e deliri, una volta si è rapiti dal vento iberico, un’altra dalla città icona del Ventunesimo secolo, Berlino. Si subisce il fascino leggendario della Città-Sirena e la compostezza riconciliatrice della Città Eterna, passando per cieli illegali di periferia o stanche marine di villaggi vacanze. Le atmosfere metropolitane, piazze, bar, festival, caffè improvvisati e bettole trasandate, sono palcoscenici di eccezione, dove la vita sorride e deride tra le aspettative deluse e gli attimi di felicità irrinunciabili, sempre inattesi e mai trascurabili. Ne emerge un universo di vite sotto costellazioni imprevedibili e talvolta improbabili, come l’incontro s-fortuito nato dai vetri di bicchierini sottratti con audacia. Legami alcolici tra cognac e sciarade diventano occasioni di guardarsi dentro dall’esterno, con uno sguardo dall’alto.

    Paolo non cade nella trappola del lieto fine, del politicamente corretto, eppure lascia aperta una porta, quella della possibilità di comprendere la profondità del vivere umano. La complessità segreta dell’esistenza è proprio davanti ai nostri occhi, in un mondo di errori e fallimenti, e la magia risiede nel grande calore delle cose abituali, straordinariamente quotidiane, come il ricordo di un affetto ​mentre cucina o in un abbraccio. È la lezione della leggerezza senza intenti volontariamente didascalici. E questa è una grande lezione per tutti. Res ipsa loquitur.

    Daniela Marra

    CAPITOLO I

    Finalmente la città

    Capita a volte di sentirsi per un minuto felici. Non lasciatevi cogliere dal panico: è questione di un attimo e passa.

    (Gesualdo Bufalino)

    Il 13 gennaio del 1999, più o meno nelle stesse ore in cui Sua Altezza Aerea Michael Jeffrey Jordan, il Maradona dei canestri, annunciava al mondo – a quasi 36 anni – il suo ritiro dai parquet, la telefonata di un collega pugliese di stanza a Roma da molti anni giungeva a sconvolgere la mia (in)quieta esistenza. Niente convenevoli, solo un veloce saluto, poi la frase: «Sono stufo di Roma, dopo dieci anni vorrei cambiare aria, tornare nella mia terra». Seguita dalla domanda: «che ne dici di uno scambio, tu al mio posto e io al tuo?». Non proferii verbo che dopo alcuni lunghi istanti, in cui per prima cosa mi premurai di controllare che fossi desto. Quindi col po’ di fiato che riuscii a raccattare risposi: «per me va bene».

    Era la mia occasione, quella che aspettavo, credendovi sempre meno, da oltre un decennio. Non restava che attendere il telegramma di conferma, che verosimilmente non sarebbe arrivato prima di qualche mese. La grande città, finalmente! Roma! Ma anche Napoli, figurarsi, poiché se da un lato avevo gran voglia di vivere la capitale, dall’altro non ne avevo alcuna di recidere il profondo legame con la mia città d’origine. Non sarei potuto essere più felice neanche se quella domanda me l’avesse fatta, che so, qualcuno dotato di consorte procace e disponibile. Benché sia risaputo che uno dei segreti della felicità consista proprio nel sapersi accontentare.

    Ma torniamo indietro. Avevo trascorso gli ultimi dieci anni della mia vita a Fasano, una bella cittadina della provincia settentrionale di Brindisi. Sebbene per tutto quel tempo non avessi mai smesso di fare su e giù da Napoli (in auto e, tranne che per i primi tempi allorché dividevo il volante e le spese con tale Angelo, da solo), dov’era la mia famiglia d’origine e il resto della mia vita, leggasi fidanzate a tempo determinato e compagni di sbornie. Col tempo avevo imparato ad amare quel piccolo centro, dove piano piano ero riuscito anche a costruirmi amicizie importanti. Restava, tuttavia, un paesino, e io, curioso più di un gatto e cittadino fin nel midollo, a quelli sono proprio allergico. C’è poco da fare, è più forte di me, proprio non riesco ad abituarmi alla vita di provincia. La vivo come una reclusione e non faccio altro che sognare la fuga.

    L’ansia per quel responso di cui non conoscevo la sorte, proprio come spesso accade per un treno della famigerata Circumvesuviana, mi accompagnò per i mesi che seguirono. Finché, sul finire di giugno, proprio quando il pessimismo aveva cominciato a prendere il sopravvento (ciò non è affatto difficile, per quanto mi riguarda), arrivò finalmente il sospirato telegramma che stabiliva il mio imminente trasferimento.

    Mai potrò dimenticare l’entusiasmo, la gioia, la libertà di quei momenti, né d’altro canto i giorni che precedettero la partenza, in cui a malincuore dovetti salutare amici e colleghi. Poiché malgrado tutto non fu facile andare via di là, rinunciare ad abitudini quotidiane e frequentazioni ormai consolidate, in special modo quella con Michele, col tempo divenuto per me come un vero e proprio fratello. Entrambi però sapevamo che quella era per me la cosa più giusta da fare. La mia vera natura risuona in città, non ci sono santi. È soltanto là che ritrovo voglia, forza, entusiasmo, ispirazione e creatività.

    Neanche dire addio a quella meravigliosa terra che è la Puglia, inoltre, si rivelò impresa agevole. Mi sarebbero mancati non poco quei paesaggi fiabeschi, fatti di sconfinate distese di ulivi, trulli e costruzioni in pietra bianca. E soprattutto mi sarebbe mancato il suo mare, il burbero Adriatico, nelle cui acque mi ero immerso ogni volta che avevo potuto e in contemplazione del quale mi ero soffermato quando ne avevo avuto bisogno. Sentivo tuttavia che quello era solo un arrivederci e che sarei tornato molto presto e molto spesso. E così, dopo un decennio passato tra l’autostrada Napoli-Bari, la strada statale Basentana, che da Metaponto – costeggiando il percorso, ahimè sempre più asciutto, del fiume Basento – conduce a Potenza, e la famigerata Salerno-Reggio Calabria, arteria martoriata da cantieri eterni, ma anche tra una pletora di uffici della Polizia Stradale, dove spesso dovevo recarmi per contestare continue multe per eccessi di velocità, e di uffici postali, dove altrettanto spesso dovevo recarmi per pagarle, mi accingevo a entrare a far parte a pieno titolo del numero non certo esiguo di miei concittadini che per lavoro quotidianamente oscillano in treno tra Napoli e Roma. Finalmente, dopo tanto tempo trascorso a tergiversare nell’attesa di una svolta che sembrava non dovesse arrivare mai, avrei potuto prendere, alla bella età di trent’anni, una casa tutta mia. Finalmente, dopo un limbo che pareva infinito, avrei potuto progettare il mio futuro. E non vedevo l’ora di farlo.

    Chiunque mi conosca, ora, avrà almeno una mezza dozzina di ottime ragioni per sostenere che sarebbe stato di gran lunga preferibile se avessi chiuso a doppia mandata quei progetti in un cassetto, buttato via la chiave (e addirittura la cassettiera) e me ne fossi rimasto in Puglia. Come dar loro torto se un giorno sì e uno no lo penso anch’io? Purtroppo la vita raramente va come ci si aspetta, e quando per sovrappiù ci mettiamo del nostro il naufragio è dietro l’angolo.

    Era periodo d’estate, e proprio non me la sentivo di trascorrerlo in treno facendo su e giù da Napoli. Così feci richiesta di alloggio e dopo un po’ me ne venne assegnato uno dalle parti di Centocelle, quartiere periferico a sud-est della capitale. Dove in seguito a una lunga serie di vicissitudini avrei finito per ritrovarmi una ventina d’anni, un matrimonio e due figli dopo. Vi restai alcuni mesi, nei quali cominciai a conoscere e a vivere la città, soprattutto di notte.

    Una sera di settembre in una nota discoteca di Ciampino conobbi Floriana. Io ero insieme ad alcuni colleghi, lei con amiche. Ci bastò un’occhiata per riconoscerci come anime affini e per capire che in quel contesto eravamo entrambi pesci fuor d’acqua. Romana, di un paio d’anni più giovane di me, Floriana, divenuta col tempo uno dei miei punti di riferimento, è una donna esile, piacente, allegra, colta, sensibile, curiosissima e di rara intelligenza e disponibilità. Vive in centro, dalle parti di San Pietro, e suda la vita come infermiera presso il vicino ospedale di Santo Spirito, nel rione Borgo.

    Cominciammo a vederci con regolarità, a volte con alcune sue amiche, più spesso da soli. Andavamo al cinema e al teatro, ai concerti e alle mostre. Ma ciò che davvero amavamo era andarcene in giro di notte senza meta per le fascinose vie del centro antico. Ancorché non ci dispiacessimo, per nessuno dei due era il momento di impelagarsi in una storia, così il nostro rapporto s’incanalò con naturalezza nei binari di una bella amicizia. Non mancarono però, di tanto in tanto, momenti in cui cedevamo alle urgenze naturali e ai cattivi consigli che l’alcol sempre elargisce a chi ne abusa. Poiché neanche lei all’occasione disdegnava un bicchiere, e con me, è noto, l’occasione non tarda mai. Il suggestivo quartiere di Trastevere, dove non di rado passeggiavamo, fu teatro delle nostre estemporanee effusioni, talvolta addirittura a pochi metri dai passanti. Restavo sempre stupito e divertito dal fatto che lei non vi badasse, inducendo così anche me a fare altrettanto.

    Fu lei a introdurmi in ambienti romani cui colleghi e amici mi avevano pronosticato una pressoché certa inaccessibilità. Il resto lo feci io, dal momento che quelle volte in cui ne ho voglia so perfino essere simpatico e farmi benvolere. Non erano trascorsi tre mesi dacché mi trovavo a Roma e mi ero già inserito in pianta stabile in un’allegra compagnia di buontemponi autoctoni. Se autoctoni è termine consono allorché ci si trova in una metropoli come Roma. Potei constatare infatti come sia evento affatto raro, nella capitale, imbattersi in figli di immigrati, in larga parte dal meridione. E da dove altro, sennò?

    Dopo qualche mese tuttavia iniziai ad avvertire forte il richiamo della mia città d’origine. Decisi allora di tornarvi e stabilirmici definitivamente. Del resto i miei turni lavorativi me lo consentivano, e se a ciò si aggiungeva che i prezzi degli immobili nella Città Eterna erano, e restano, tutt’altro che competitivi, capirete bene come non mi rimanessero poi grosse alternative. Se non quella, impraticabile, di continuare a vivere nell’alloggio militare. Cominciai quindi a cercare casa a Napoli. E cominciai dal centro, da dove altro potevo farlo? Lo frequentavo già da alcuni anni e non riuscivo a immaginare posto diverso dove vivere.

    Al contrario che in altre città, a Napoli miseria e nobiltà convivono fianco a fianco più o meno serenamente. Ciò accade anche e forse soprattutto nel suo centro storico, antichissimo ed esteso più d’ogni altro in Europa, dove non è inusuale trovare dimore magnifiche e costosissime a pochi passi da altre ben più modeste, e perfino da autentici tuguri. Ciò nonostante, non disponendo io di una grossa cifra, mi accorsi ben presto che la ricerca sarebbe stata lunga e complicata. Dopo qualche tempo, infatti, cominciai a disperare del buon esito della faccenda e a chiedermi se non fosse il caso di cercare altrove. Per la cifra di cui potevo disporre non avevo trovato che:

    - appartamenti fatiscenti;

    - appartamenti in stabili fatiscenti;

    - appartamenti agli ultimi piani di stabili privi di ascensore (nonché fatiscenti);

    - bassi (minuscole abitazioni poste al piano terra).

    Vista la mala parata, decisi a malincuore di spostarmi in qualche periferia non troppo distante dal centro. D’altra parte per me non sarebbe poi cambiato molto: ero nato e avevo vissuto in periferia tutta la mia vita. Il problema delle periferie però è che sono degradate e degradanti, e bisogna allontanarsene ogni volta che si può, finendo per diventare veri e propri pendolari urbani. Ma purtroppo questo passava il convento, e bisognava fare buon viso a cattivo gioco.

    Dopo alcune peripezie, tra cui la rinuncia all’acquisto, pressoché concluso, di un’abitazione nel mio quartiere d’origine (con relativa perdita della caparra) per la non secondaria ragione di aver appreso solo in ultimo che nello stabile allignavano alcuni camorristi, scovai finalmente quella che, previa una non lieve ristrutturazione, sarebbe potuta diventare la mia tana, nel quartiere nord-occidentale di Miano, a ridosso del grande Bosco di Capodimonte. L’appartamento, guarda alle volte il caso, si trovava in un palazzo prospiciente quello dove viveva la famiglia di una mia amica di vecchissima data, Maria, che da quel momento divenne la mia seconda famiglia. Si apriva per me una nuova fase, poiché frattanto mi ero imbarcato in una storia che doveva farmi tribolare come non mai, fino a rivoluzionare la mia stessa vita.

    CAPITOLO II

    Una torrida estate

    Nella mia vita ho passato momenti terribili, alcuni dei quali accaduti realmente.

    (Mark Twain)

    L’estate del 2003 mi vide cadere in mille pezzi, minuscoli e difficili da rimettere insieme. In seguito alla fine di una storia piuttosto travagliata, come tutte le mie prima e dopo di quella, imboccai un tunnel lungo e buio che a buon diritto poteva chiamarsi depressione. Da cui uscii solo molti mesi dopo, più forte ancorché più leggero di una buona decina di chili.

    Tra sporadici alti e molto più frequenti bassi, quella relazione era andata avanti per circa un anno e mezzo, finché lei, che qualche tempo dopo sarebbe diventata – nel breve volgere di pochi anni – dapprima mia moglie, poi madre dei miei figli e infine mia ex moglie, non aveva deciso di chiuderla. Non a torto, sia chiaro, il benservito me lo ero meritato tutto, e ne ero ben consapevole. Ma fu proprio tale consapevolezza, quella cioè di non aver dato quando e quanto potevo, unita alla voglia di farlo allorché, come sempre accade, era troppo tardi, a far sì che il mio umore, che raramente si smuove da soglie accettabili, scendesse in maniera preoccupante e stabile ben al di sotto del livello di guardia.

    Le mie sofferenze, tuttavia, non erano dovute esclusivamente alla fine di quel rapporto, bensì riguardavano tutto ciò che ero stato fino ad allora, quello che avevo fatto ma soprattutto quello che non avevo fatto. Le mie scelte, spesso subite, sempre sbagliate, i continui rinvii, le vili e dolorose rinunce. A trentaquattro anni compiuti da qualche mese la vita mi presentava il conto, ahimè salato, dell’indolenza cosmica e della superficialità estrema che fino ad allora avevano accompagnato i miei passi, mettendomi con le spalle al muro e costringendomi a fare i conti con me stesso. E, bisogna aggiungere, era proprio ora che ciò accadesse. Mai, comunque, avrei lontanamente immaginato di attraversare qualcosa di simile.

    Non ricordo esattamente quando tutto incominciò né il momento preciso in cui ebbe fine. Ma di certo mai potrò dimenticare l’intensità e la durezza di quei lunghi e afosi giorni

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