Lo ammetto ho tentato di essere felice
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Anteprima del libro
Lo ammetto ho tentato di essere felice - Gianluca Brundo
LO AMMETTO HO TENTATO DI ESSERE FELICE
di Gianluca Brundo
Copertina di Luca Petrucci
Prima edizione: dicembre 2019
Tutti i diritti riservati 2019 BERTONI EDITORE
Via Giuseppe Di Vittorio 104 - 06073 Chiugiana
Bertoni Editore
www.bertonieditore.com
info@bertonieditore.com
È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi
mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica se non autorizzata.
Gianluca Brundo
LO AMMETTO
HO TENTATO DI
ESSERE FELICE
Ogni istante del mio essere
È per te.
Un giorno saprai
da questo mio scritto
Chi è stato tuo papà.
Quel che resta
lo scopriremo insieme
A Maria Sole
I
CANNA AL VENTO
Troppo spesso
È necessaria una accordatura.
Tempo, nostro grande Maestro
Avido di vittime,
Ci hai regalato
In un’infinitesima porzione del tuo lungo viaggio.
Non perdere un attimo amico mio
Non ti distrarre neppure per meravigliarti
O ti ritroverai già alla conclusione
Senza neanche aver fatto il biglietto.
È l’attimo che ci dà la felicità
Ed io qui sciogliendomi fra
L’infinito e l’infinitesimo
Come granito
Mi ostino a contrabbandare
La mia accordatura.
Sarò alfine il perdente, forse,
Ma delle mie minute vittorie
Porterò la fierezza.
Rovistando fra vecchi documenti, carta alla rinfusa, riviste ingiallite, appunti sparsi e pressoché dimenticati, è spuntato fuori un taccuino. Che strana parola, taccuino
, vetusta, inusuale, antica, forse seppellita. Eppure, non era un tablet, un pc, uno smartphone, no, era proprio un taccuino, neppure un quaderno o un blocco, era un taccuino. L’ho annusato, prima di aprirlo. Ancora mi sorprendo, dopo tanti anni, in questo gesto, che sa di carne, di materia, di consuetudine, di casa, di voler toccare e odorare. Ho provato ad annusare un tablet, ma mi sono reso conto che non è e non sarà mai la stessa cosa. Annusare un libro e sentire quell’odore che è un misto fra carta e colla da rilegatura ha per me qualcosa di mistico, di ancestrale. Sì, lo ammetto sono uno sniffatore seriale di libri, così come uno spacciatore di emozioni. In un colpo solo mi sono ritrovato a essere spacciatore e drogato. Questo è un argomento che è come un muro, uno spartiacque: o stai di qua o stai di là. Ci si riconosce subito. Li puoi notare quegli sguardi di intesa fra sniffatori di libri. Si diventa branco, si è comunità, fratelli, è telepatia, è un appartenersi, in un mondo di isole dove appartenersi sembra ormai aver perso significato.
Mi ha attratto quel taccuino. Era lì perché io lo ritrovassi esattamente quel giorno e per una finta pura casualità. L’odore mi era familiare. Subito si è aperta la visione di quel tempo che fu. Chi ha detto che non è possibile ricordare gli odori? Gli odori me li ricordo benissimo. Saprei descrivere l’odore di ogni singola persona con cui sono stato strettamente a contatto, ma anche dei luoghi a me cari, soprattutto quelli della mia fanciullezza. L’ho aperto e ho letto alcune righe, le prime che mi sono capitate. Era il 1992. Avevo ventidue anni, era la stagione del mio debutto ufficiale in teatro. Anni intensi, densi di vita, sudore e amore. Rileggendo verso, dopo verso, mi accorgo di quanto fuoco mi scorresse nelle vene, di quanto voglia di essere ed esserci fossi pervaso, da quanta passione fosse mosso ogni mio respiro. E in tutto questo, un senso, profondo, di smarrimento, di incertezza, di voglia di capire chi io fossi e quale fosse il mio cammino.
Sono passati ventisette anni. Il taccuino del mio vivere è cresciuto con me e ho preso appunti sul percorso che è cambiato come sono cambiato io. Una sola la costante della mia vita: ho vissuto sempre e solo per passione. Devo ammetterlo e lo so che alcuni lo considerano un peccato grave, un atto di imperio e superbia non perdonabile, ma ve lo voglio svelare, ho persino tentato di essere felice.
Ricordo i tanti chilometri mangiati, in macchina, alla guida della Mercedes di Ugo Pagliai – che debutto fu quello con la Compagnia Pagliai Gassman, per la tournée dello spettacolo Ifigenia in Aulide, con la regia di Alvaro Piccardi. Si respirava un’aria che non saprei definire. Che fossi fortunato l’ho realizzato poi. Che io stessi seguendo cocciutamente il mio percorso, lo sapevo già allora. Quanti slanci, quanto ardore per una fierezza giovanile che sapeva più di poesia che di consapevolezza. Testardo e fiero lo sono stato spesso, arrogante poco. Non è nella mia natura; così come non è nella mia natura la sfrontatezza, anzi. Mi ricordo di essere stato un bimbo timido, (anche troppo), introspettivo. Se per me era difficile persino chiedere un bicchiere d’acqua, era facilissimo inventare un mondo, personale, fantasioso e tutte le storie che vi si svolgevano dentro. Quanti soliloqui hanno scandito il mio tempo, persino con qualche personaggio inventato lì per lì, apparso da chi sa dove e chissà perché. Qualche volta – più di qualche – volta mi ci ritrovo ancora a parlare con me stesso. Qualcuno si ferma pure a guardarmi mentre parlo e mi rispondo. Mi racconto, come a uno specchio, anche in situazioni che potrebbero essere e che magari non saranno mai o che potrebbero essere differenti in un futuro da vivere, ma che affondano le radici nelle mie profondità.
In effetti, questa propensione a interpretare me stesso e soprattutto gli altri, ovvero a essere qualcosa di diverso, ce l’ho sempre avuta. Quasi come se l’essere qualcun’altro mi servisse a conoscere me stesso. Non ne capivo il senso. Neanche me lo chiedevo. Lo facevo e basta. Ho capito poi; ma poi… poi. Per caso. Anzi, per il Caso, con la c
maiuscola. Quel Caso che fu parte fondante degli antichi e che oggi è purtroppo derubricato spesso a mera scaramanzia, a vuota coincidenza. Successe che dopo una gioventù spesa fra studio e sport, con qualche velleità agonistica, un infortunio mi bloccò per diversi mesi e fra una zoppicata e l’altra, la noia salì mortale. Tentavo di seguire la mia passione di allora, quella sportiva, senza però esserne parte attiva. E questo per un ragazzo abituato a correre, a stancarsi per alzarsi felice, a essere nel mezzo dell’agone del match, a sentire il peso della lotta uscendone anche battuto – retaggio di quel mio essere troppo timido, significava il declino dello spirito, l’afflizione dei sensi, l’abbandono dell’essere. La domanda fu allora inevitabile: cosa fare? Mi capitò per caso (oh guarda, il Caso!) una informazione su un corso di teatro, tenuto da insegnati della scuola del Maestro Orazio Costa (Oh riguarda, il Caso!). Andai. Tanto che avevo da fare, a parte studiare e guardare gli altri allenarsi? Ecco, fu un fulmine a ciel sereno; una epifania sulla personale via di Damasco; un colpo del Caso nell’infinito Caos (oh guarda, Caos e Caso, sono composte dalle stesse lettere… che Caso!). Insomma, fu così, come nelle migliori favole e talvolta nelle peggiori, che imboccai una nuova via. Una via fatta di passione, di sudore, di speranze, di cadute e di riprese, di delusioni e di soddisfazioni, ma sempre, comunque e quantunque, di pienezza dell’anima. Sì, lo posso dire e non troppo sotto voce: oggi so che ho tentato di essere felice; lo ammetto! Sono colpevole, punitemi! In un mondo che fa di tutto per essere infelice, io, con un atto sconsiderato, di imperio assoluto, ho tentato di essere felice. Fra attimi e infinito, una sola costante ha mosso il mio essere e il mio divenire: cercare il mio talento. Oggi sono convinto che la felicità risieda proprio in questo, nell’essere ciò che si è, nel cercare la propria via all’espressione e non importa cosa tu decida di fare nella tua vita e della tua vita, quel che conta è seguire la via. Accordiamola questa nostra esistenza, come uno strumento musicale, come il più bel sogno sognato dalla grandezza di un dio che della visione del futuro ne abbia riempito il cosmo. Il nostro strumento siamo noi stessi. Cosa sarebbe accaduto se non mi fossi 'piegato' al Caso? Cosa sarebbe stata la mia vita se avessi proseguito dritto, senza svoltare al bivio dell’esistenza? Cosa sarebbe successo se al posto di essere canna al vento, fossi stato quercia? Il divenire è la via. Il cambiamento è la vita. L’essere nel divenire è la speranza dell’essenza. Ho accolto il cambiamento più di una volta. Me ne sono reso conto da poco. Capiamoci bene, questo non vuol dire che non abbia dato tutto me stesso per tutto quello in cui ho creduto, anzi. L’impegno è stato sempre massimo, con quella voglia indomita di sapere, di migliorare, di conoscere, di salire il gradino successivo. Credo che proprio questo mio impegno a migliorare me stesso, mi abbia di volta in volta, aperto tutte le porte. Cento vite in una sola esistenza o cento esistenze in una sola vita. Fate voi. Quel che conta e che mi