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I dormienti
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E-book375 pagine5 ore

I dormienti

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Info su questo ebook

Con la scusa di controllare la vecchia casa di famiglia, Claudio Montellieri parte per una piccola isola al largo della Sicilia: qui sorge un paesino di poche anime, che il padre di Claudio, Tanitto, ha abbandonato molti anni prima e in cui non è mai più tornato. Troppo dolore si cela ancora tra quelle mura, su quegli scogli lambiti dall’acqua, tra quelle stradine che si inerpicano per la collina; e, tutto sommato, nemmeno Claudio andrebbe fino a laggiù solo per vedere una dimora diroccata, eppure è come se qualcosa lo chiamasse attirandolo a sé: forse, dopo decenni, il mare è finalmente pronto per svelare i segreti della famiglia Montellieri. 

Giovanni Figuera, Classe ’52, è nato in Sicilia ad Acireale (CT) da un’antica famiglia che vanta le sue origini spagnole fin dalla prima metà del Cinquecento. 
A 20 anni abbandona gli studi di Giurisprudenza e la Sicilia per trasferirsi a Bologna, dove si laurea nel nascente DAMS. Si è occupato di documentario come assistente di Cinematografia Documentaria nello stesso DAMS e ha partecipato come operatore culturale a diverse attività oltre a ricerche bibliografiche sulla “Storia della Resistenza Italiana” o sull’Emigrazione italiana, raccontate dal cinema documentario e di finzione. Come studioso e critico di Storia del Cinema ha collaborato ad alcune riviste specializzate di cultura cinematografica. Un incontro fortuito lo destina verso l’attività di pubblicitario che, nella sua amata Bologna, lo accompagnerà fino ad oggi. 
LinguaItaliano
Data di uscita17 ago 2022
ISBN9788830670655
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    Anteprima del libro

    I dormienti - Giovanni Figuera

    LQ.jpg

    Giovanni Figuera

    I dormienti

    Ringrazio Anna Elia, Marco Puci, Anja Coso, Antonio Maggini e lo scrittore e giornalista Vanni Ronsisvalle.

    © 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-6172-1

    I edizione agosto 2022

    Finito di stampare nel mese di agosto 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Ogni riferimento a persone esistenti, a luoghi o a fatti

    realmente accaduti è puramente casuale e frutto di fantasia.

    I dormienti

    PREFAZIONE

    I ricordi, quando assumono la funzione di unica ragione di vita, possono interferire con un’intera esistenza, specie se vuota e senza senso, divenendo pretesto per qualsiasi impossibilità all’agire.

    Il mal di vivere segna questa nobile famiglia siciliana del secolo scorso, raccontato dai suoi sfortunati protagonisti in un perenne flashback, che al contempo nasconde una latente incapacità a definirsi come individui, a maturare in quanto soggetti sociali, a muoversi con razionalità in una terra malata. La storia è ambientata in una piccola isola siciliana, forse solo immaginaria, segnata dal non protagonismo, dal quiescente immobilismo e simbolico dormire, visto anche come delega ad altri della propria identità personale e sociale.

    I dormienti Montellieri, nel corso di tre generazioni, sono i protagonisti della storia, colpiti fin da piccoli da un lutto insopportabile a cui, come un’autentica maledizione, si aggiungono altri attori di diverso stampo, duplicati superflui e inamovibili di un mondo che va in malora. Sono tutti personaggi accomunati dal non possedere capacità reattive, lasciando ai propri fantasmi il compito di dare un senso alle loro esistenze. I protagonisti principali raccontano, ciascuno con la propria dimensione culturale, con il proprio linguaggio e modo di esprimersi, i fatti dolorosi che ne hanno minato l’esistenza.

    Tanitto Montellieri il più piccolo dei tre fratelli, seguendo il filo dei ricordi vorrebbe, in qualche modo, addossare tutte le responsabilità del suo dolore al mare, in quanto artefice e testimone delle diverse tragedie che gli hanno segnato per sempre l’esistenza. Scappa per ridisegnarsi una vita senza il mare. Ricompone un’esistenza triste attraverso la musica e il suo Chopin. Ma basterà?

    Mariuccia e Antonietta, le due disgraziate sorelle, entrambe colpite da una forma di narcolessia, per l’una incurabile e per l’altra utilizzata come pretesto per non lasciarsi vivere, sono l’espressione più drammatica di questo mosaico. Gli zii Rosalia e Vincenzino, che li hanno in dote, afflitti dalla stessa indolenza, interagiscono, con la medesima modalità rinunciataria di vivere il proprio momento. Un aspetto che si mantiene con le stesse carenze affettive in Claudio, Elisabetta ultimi discendenti dei Montellieri. Come direbbe Svevo, sono personaggi inadatti (ineptus) a vivere davvero la propria realtà ma che sanno districarsi più agevolmente solo all’interno di un vissuto che ormai è impossibile modificare.

    Una non-vita la loro, di accettazione passiva del rincorrersi degli eventi attraverso un intero secolo, in una realtà depauperata da ogni aspettativa. La fuga da questo immobilismo avrà poi un senso? Ci si potrà salvare dalla sciatta indolenza collettiva? Solo il mare, spettatore privilegiato e giudice imparziale delle singole storie narrate, potrà deciderlo. Il mare, che ha il dominio assoluto di quest’isola fantasma, nei racconti dei protagonisti, diventa cantore e fautore di tutto il dolore possibile, insieme alla sua prepotente potenza e bellezza.

    A mio padre

    Alla zia Teresina

    A Rita, la mia musa

    Non c’è bisogno di essere una stanza

    per sentirsi infestati dai fantasmi,

    non c’è bisogno di essere una casa.

    La mente ha corridoi molto più vasti

    di uno spazio materiale ed è assai

    più sicuro un incontro a mezzanotte

    con un fantasma esterno piuttosto

    che incontrare disarmati

    il proprio io in un posto desolato.

    Emily Dickinson

    Il mare non è mai stato amico dell’uomo.

    Tutt’al più è stato

    complice della sua irrequietezza.

    Joseph Conrad

    ALBERO GENEOLOGICO MONTELLIERI

    Ouverture

    Claudio Montellieri

    Già stanco di questo viaggio. Da due ore sono al volante ed ho fatto solo qualche centinaio di chilometri da Bologna. La carreggiata di questa autostrada del Sole, man mano che avanzo velocemente al buio, sembra inghiottire la mia Audi con me dentro. Per fortuna ci sono questi cartelli che mi informano del prossimo rifornimento o dei chilometri mancanti alla prossima uscita. Appaiono nel buio come spettri luminescenti, veloci schiaffi continui che per fortuna mi tengono sveglio e concentrato. Ma guarda quanti camion tutti in fila, lentamente verso un’unica meta: il Sud. Come uno sciame di formiche rosse che inesorabili si muovono verso il loro formicaio, questi mastodontici giganti della strada, silenziosi e illuminati da ogni lato si credono i padroni della carreggiata.

    Accidenti! ma guarda questo che si infila nella corsia di sorpasso. Freno, poi pigio al massimo l’acceleratore, sterzo bruscamente ed eccomi libero da quell’ingombrante camion e da quel suo screanzato pilota. Però, questa mia Audi Coupé malgrado gli anni, regge ancora e mi dà sicurezza. Ricordo ancora l’espressione felice di mio padre Gaetano quando me ne consegnò le chiavi, regalo inaspettato per il mio primo incarico come professore a contratto in Organizzazione aziendale alla Bocconi.

    «Tempo previsto al Sud e sulla Sicilia, nuvoloso con piogge e temporali, Mari: Mar Tirreno e alto Jonio mossi o molto mossi…»

    Ma come? Pure le previsioni di maltempo non ci volevano. Accidenti a me e a quando ho assecondato mio padre nel fare questo lungo viaggio. Il mio ennesimo colpo di testa, dato che Gae, come lo chiama mia madre Margherita, da anni, mi ripete incessantemente, come un’ossessione, la solita litania: «Ti prego, Claudio, vai a vedere com’è ridotta la casa di zia Rosalia?».

    Come se a me ne potesse importare qualcosa, io manco so chi è ’sta zia Rosalia. Mi toccherà, da quello che so, di controllare lo stato di salute della sua casa al mare, in quello sperduto posto e magari dover sbrigare le pratiche per venderla, con tutti i problemi e le seccature che ne conseguiranno. Finché ieri, rientrato a Milano dai miei per il week-end, appena poggiata la borsa per abbracciarli mio padre ha iniziato a frignare con la sua consueta richiesta: «Ci vai a vedere il mio mare? È bello, sai? Basta tenersi alla larga e goderselo ma solo con gli occhi, ah! Senza avvicinarsi perché è tradimentusu…». Sono sbottato.

    Anche se a me il mare non è mai piaciuto neanche da neonato, quando raramente mia madre mi portava a Ostia, ho colto la palla al balzo e gli ho gridato contro: «E basta, cazzo! Ci vado e parto subito, va bene?».

    Lasciandoli sbigottiti e senza parole.

    «And you run and you run to catch up with the sun, but it’s sinking» canta alla radio Roger Waters nel suo The Dark side of the moon. Già… un testo che al momento mi s’addice: E tu corri e corri per raggiungere il sole, ma si tratta di affondare(N. 1)

    A pensarci bene, però, avevo voglia di allontanarmi un po’ da tutto, dopo una settimana davvero complicata e stressante, bisognava staccare la spina per andare in vacanza. Non che ci stia male a Bologna, la mia amata città d’adozione, ma il bisogno di stare un po’ da solo, a pensare alla mia vita passata e futura e ai miei veri desideri, ha determinato la mia decisione forse stavolta non proprio così istintiva… Ed eccomi qua in autostrada per un avventuroso viaggio verso una meta sconosciuta, un’isola piccola a largo di un’isola grande. Che strana destinazione, ma sono un po’ in ansia per quello che potrà accadere o che potrò conoscere. In questo monotono silenzio rotto solo dal continuo rollio del motore, i pensieri si accavallano e mi fanno compagnia. Ci siamo. Serbatoio vuoto. Occorre fare un nuovo pieno. Ma quanto beve questa macchina?!

    Ah, Bologna… quanto ti sono grato, mi hai insegnato tante cose. Grazie al tuo cuore pulsante di vita sono riuscito a dimenticare Gabriella, il mio grande amore di giovane diciottenne. Mi ha lasciato nella hall dell’aeroporto mentre aspettavo l’aereo per l’Università di Harvard, dove ero stato chiamato per il mio 60/60 alla maturità.

    «Non avevi il coraggio di aspettarmi, eh, Gabriella?»

    Eri bella, eri dolce e mi è stato difficile cancellarti dalla mia vita.

    Mi sono laureato ad Harvard, con successivo Master in Business administration, ho insegnato per un anno alla Bocconi, attorno a me giravano tante donne, belle, brutte, ragazze sveglie o semplici oche vanitose, eppure c’eri sempre tu, Gabriella, e i tuoi occhi cerulei nella mia testa, la tua voce roca che mi faceva vibrare. Poi l’entusiasmo per l’assunzione nella grande azienda di cosmesi e l’impegno mi hanno aiutato a rimuoverti. Ricordo ancora la soddisfazione provata nel vedere il mio nome inciso nella targhetta accanto alla porta a vetri dell’ufficio di cui faccio parte: Dott. Claudio Montellieri Direttore Commerciale.

    Parto al mattino vento e destino

    Sciacallo grigio argento dai magri fianchi

    Sappi che io son l’uomo della Leina

    Rivesto l’armatura sul cuore di una iena.

    Dentro l’abitacolo di questa

    audi

    ormai logora ma efficiente, risuonano le parole degli Area di Demetrio Stratos nel suo ultimo disco Il Bandito del deserto(N. 2)

    Anch’io come un bandito nel deserto vago in cerca di una meta, malgrado il bottino che ho nelle tasche conquistato con tante lacrime. Non so, non capisco perché non mi sento ancora realizzato, un’inquietudine a volte mi tormenta e non trovo una causa plausibile di questa perenne insoddisfazione.

    C’è qualcosa in me che non va nel relazionarmi con gli altri. Come con la mia segretaria Elvira, carina e lodevole per la sua scelta di vita, da ex copywriter ha cambiato progetto di lavoro perché secondo lei con la pubblicità non si mangia ma si viene da essa mangiati. M’intrigano le movenze della ragazza e anche a lei credo di piacere. Ma non è il mio tipo e poi non voglio approfittare della mia posizione. E quell’altro, Walter, il responsabile Marketing che per mettere entrambi in imbarazzo ci guarda sorridente ammiccando a una possibile tresca tra noi due fuori dal luogo di lavoro. Immediato arriva il rossore della ragazza e il mio sorriso falsamente noncurante disegnato sul volto. Lo detesto quel tipo, quel marchettaro che si diverte a cambiare continuamente agenzia di pubblicità, solo per il gusto di vedere soffrire i creativi.

    Poveri creativi, li sento dal mio ufficio che piagnucolano con quel loro stridente falsetto quando vengono presi di mira da Walter con feroci critiche ai loro disegni o agli storyboard dei filmati televisivi.

    È quello il momento in cui, offesi e sdegnati girano i tacchi e guadagnano la porta della sala riunioni, per rimetter mano al lavoro bocciato e ricominciare a sviluppare nuovi bozzetti.

    Un noto saggista e poeta Samuel Johnson diceva che "le grandi imprese vengono eseguite non con la forza ma con la perseveranza" (N. 3).

    Grazie alla mia tenacia ho conquistato Bologna la rossa, dove pur vivendo da solo, devo riconoscere che ci sto bene, tanto da sentirmi dopo anni ancora cittadino privilegiato; quasi come stare dentro un rifugio esclusivo per gli amanti del bel vivere. Malgrado il periodo da me vissuto ad Harvard, o a Milano in casa dei miei, a volte sento che in questa cittadina ho ritrovato me stesso. Stavo pensando che potrei trasformare questo percorso chilometrico in una specie di hic et nunc mentale per dare spazio e bloccare i miei pensieri, come in un ferma-immagine di un film che scorre dentro un videoregistratore.

    Nel buio dell’abitacolo, nel silenzio della notte possono così finalmente trovare spazio i miei sogni segreti e, perché no, i tanti miei ricordi che difficilmente ho sollecitato. Come suggeriva Sant’Agostino non uscire da te stesso, rientra in te: nel nostro intimo si nasconde la verità(N. 4) Forse dentro la mia auto, questa gabbia che sfreccia sull’asfalto, è arrivato anche per me il momento di rientrare nella mia anima. Adesso l’Autosole si biforca e le sue tre corsie in direzione Fiano Romano mi consentono di evitare il raccordo anulare e procedere verso Napoli. In mezzora oltrepasso l’uscita per Roma, la città eterna del mio altrettanto eterno sgomento infantile.

    A Roma, in quella mia grande casa di via Giulia, ho capito di essere venuto al mondo senza un vero motivo. Sono sempre stato sicuro di essere nato a causa di un errore di calcolo del ciclo di mia madre o forse per una disattenzione nel portare a termine la scopata da parte di mio padre. Fin da bambino sono sempre stato consapevole di essere nato casualmente, nel totale assenteismo di un padre, sia durante i nove mesi di attesa, sia dopo, dal mio primo giorno in questo mondo. Ricordo che tempo fa chiesi a mia madre come avesse reagito il suo Gae in sala parto mentre nascevo e lei ridendo, ma non credo che fosse così sincera la sua ilarità, mi confessò che non era rimasto in ospedale ad attendere il mio arrivo per un’importante e improcrastinabile prova di uno dei tanti concerti dell’Accademia. Ancora adesso sento il peso dello sguardo di quell’uomo più assente che forte, oggi anche più malandato, vinto dalle sue stesse paure, con il medesimo atteggiamento vittimistico che, 37 anni dopo dal mio affacciarmi alla vita, mi supplica di avventurarmi per una Sicilia da cui mi son sempre tenuto a distanza. Com’è strano il rapporto di mio padre con la sua Sicilia. Da quando l’ha lasciata non ha mai più avuto né il desiderio né il bisogno di rivederla, di ripercorrere i luoghi della sua infanzia, della sua antica e nobile stirpe di possidenti, di ritrovare momenti, amici, sentimenti e suggestioni della sua storia passata. Chissà cosa gli frullava nel cervello per non aver mai avuto la curiosità di ritornare dopo la sua fuga. Secondo me è ancora innamorato della sua terra, del suo mare. Mantiene però questo amore segregato tra le pieghe della memoria. In quell’isola al largo della Sicilia credo che vi abbia sotterrato il passato che in lui riprende voce attraverso la minaccia dei ricordi. Nella mente stanca di mio padre vibra solo il resoconto di una vita che si porta dietro come un fardello, vissuta sempre con la sordina inserita; un’esistenza, a rilento a spizzica e muddica, come la chiama lui nel suo dialetto, proprio come si spizzica lentamente la mollica della pagnotta.

    Con la vecchiaia incipiente, come tanti prima di lasciare questo mondo, forse vorrebbe rivedere quei luoghi, annusare l’aria del suo mare ma non riesce più, ha paura di essere sopraffatto dai ricordi, dai suoi dolori fisici e mentali. Allora incarica me di scandagliare il suo vissuto, mi implora di sostituire i suoi occhi con i miei. Così almeno afferma col suo piagnisteo.

    Non puoi farmi piangere

    Un tempo ne avevi la capacità

    Non mi sono mai sentita così bene con me stessa(N. 5)

    Canta adesso alla radio Madonna nel suo Oh Father. Non siamo mai andati d’accordo, vero, caro Gae? Su niente. Siamo diversi. C’è poco da fare, somiglio a mia madre, al suo spirito impetuoso. Il mio è un modo di vivere tutto in velocità, inquieto come se avessi mille formiche che mi punzecchiano i piedi. La mia testa girovaga su tanti progetti in contemporanea. Hanno ragione i miei amici bolognesi, ho un carattere irascibile, intervengo su tutto, sempre pronto a menare le mani per qualsiasi sciocco motivo. Mio padre, al contrario è sempre così per bene, certo culturalmente dotato, ma inabile al conflitto, incapace di contestare o di reagire a qualsiasi sopruso tranne che con i suoi orchestrali, che comanda a bacchetta, a volte in modo eccessivo. È però capace di inaspettati colpi di testa, scelte improvvise, anche drammatiche e senza possibilità di ripiego, come ha dimostrato cambiando improvvisamente città, lavoro e giri d’amicizie. E in questo gli somiglio.

    Ma io perché, perché mi sento tanto infelice? Forse per il mio modo di complicare le cose semplici? Del resto la felicità dura pochi attimi, come diceva Montale: un barlume che vacilla (N. 6), un brevissimo attimo tremolante come la luce di una candela. Eppure siamo tutti alla sua ricerca, incessantemente, costi quel che costi. Dovrei invece prendermi cura di ciò che ho a portata di mano, cominciando da mio padre, che soffre in silenzio per la sua sonnacchiosa codardia. Potrei cominciare da questo per un mio barlume di serenità. Purtroppo il maestro Montellieri appartiene a quel rango di signori di alto lignaggio, siciliani peraltro, che pretendono tanto senza dare mai nulla indietro. La stessa modalità di comportamento la ritrovo in molti suoi conterranei, sempre pronti a lamentarsi o inveire contro chiunque, come capita spesso anche nella mia azienda. Confesso però che la maggior parte di questi uomini e donne del Sud da me frequentati sono personaggi che riescono ad essermi simpatici, anche se diffidano di chiunque, sempre in contrasto tra riso e pianto, ma capaci di fraternizzare immediatamente.

    Non so perché mi vengono in mente le parole di una famosissima ballata siciliana che mio padre mi sussurrava come ninna nanna per addormentarmi accompagnandosi alla chitarra e la notte al buio tremavo a ripensarci e mi pisciavo nel letto.

    Adesso la canto tanto per tenermi sveglio:

    Vitti na crozza supra nu cannuni

    fui curiuso e ci vossi spiare

    idda m’arrispunnìu cu gran duluri

    murivi senza un tocco di campani

    Si nni eru si nni eru li me anni

    si nni eru si nni eru n’un sacciu unni

    ora ca sugnu vecchio di ottant’anni

    chiamu la morti e idda m’arrispunni.

    Cunzatimi cunzatimi lu me letto

    Ca di li vermi sugnu manciatu tuttu

    Si nun lu scuntu cca lu me peccatu

    Lu scuntu all’autra vita, a chiantu ruttu. (N. 7)

    Il trauma subìto da quella nenia in cui teschi, vermi e morti invocate la facevano da padroni, che effetto potevano fare nelle fantasie di un bambino? Non se l’è mai chiesto Gae. D’altronde questi siciliani, dietro una maschera allegra e a volte grottesca, nascondono un animo triste e addolorato, arresi fin da subito persino a sé stessi.

    Da diversi chilometri percorro la brutta autostrada della Calabria tutta curve e strettoie, che da Salerno si trascina fino ai confini della Penisola, dove il mare fa da spartiacque, nello Stretto, tra due fronti di terra, che si guardano in cagnesco.

    Il giorno ormai ha preso il sopravvento e la meraviglia del sole tiepido che troneggia dalla linea di confine tra mare e cielo dietro l’isola di Dino, piccolo promontorio vicino alla costa della Calabria, mi rende meno stanco e più propenso a continuare. Da più di dieci ore mastico asfalto. Rombano sicuri i cavalli della mia auto e macinano chilometri, l’abitacolo caracolla tra una curva e l’altra. Ma presto arriverò e la preoccupazione di quello che potrò trovare più mi avvicino e più aumenta. Troverò sicuramente Elisabetta, la figlia della zia Antonietta, una ragazza che mi è sembrata carina e dolce ma dal carattere deciso. Mi ricordo quando, pur di conoscerla, mi sono precipitato a Milano dove era arrivata per incontrare per la prima volta il famoso zio musicista e, anche se non l’ha dichiarato apertamente, anche il sottoscritto.

    Libero, voglio vivere come rondine che non vuol tornar al nido.

    Libero, voglio andarmene libero, non cercatemi.

    E i ricordi, i ricordi gettarli in fondo al mare. (N. 8)

    La voce di una vecchia canzone di Domenico Modugno, trasmessa per radio, invade l’abitacolo e mi scuote da un improvviso torpore che rischiava di farmi addormentare. Una canzone che calza a pennello. Anch’essa parla di mare, di vele al vento, di bisogno di sentirsi veramente liberi. Altro che libero, mio padre è vittima perenne delle sue fissazioni che lo hanno tormentato per tutti questi anni. Penso a quando da bambino, nei brevi momenti di attenzione che mi concedeva, mi prendeva sulle ginocchia e iniziava a parlarmi della musica, che per lui rappresentava ricordo ancora a memoria le sue parole l’unico modo terreno per collegarsi con il Divino e ritrovare sé stessi mi diceva assorto rimodellandosi nelle righe dello spartito per combattere il dolore dell’animo. E poi c’era il pianoforte che per lui è stato il tramite per tradurre quegli strani segni sui fogli e trasformarli in musica, un mezzo per giungere alla vittoria sulla morte. Mah! Non ho mai capito cosa volesse dire se non che leggere e suonare la musica è certo un dono di Dio, ma che per comprenderla appieno occorresse sviluppare il più possibile le proprie capacità tecniche e utilizzare quei tasti bianchi e neri come strumenti, che, per me servono solo per ottenere suoni, mentre per lui rappresentano l’unica possibilità di sentirsi finalmente liberi e ondeggiare nell’aria, come un aquilone.

    Poi col tempo ho compreso le sue parole e a cosa alludesse, dopo averlo visto dirigere un concerto. Che forza, che temperamento. Che capacità di uniformare un’intera orchestra e piegarla al suo sentire. Solo in quel momento mi sono chiesto: «Ma quello è davvero quel padre che ho sempre avuto accanto?».

    Il cielo è adesso plumbeo, mentre raggiungo Villa San Giovanni, l’avamposto calabrese per l’imbarco.

    Che strano posto sarà mai questo. Traghetti enormi che in pochi minuti, dalla poppa che si apre come una grande bocca poggiata sul molo, vomitano o inghiottono treni, auto, moto, camion articolati, viaggiatori e ambulanti, vecchi e giovani coppie, ambulanze e malati in carrozzella. Poco tempo d’attesa ed eccomi ingoiato anch’io, come fossi dentro la pancia della balena di un novello Giona, che mi porterà all’altra sponda non lontana del porto di Messina, visibile ad occhio nudo. Tolti gli ormeggi, tre colpi di sirena annunciano che stiamo per lasciare il Continente e partire per una nuova avventura. Inizia a tuonare. San Pietro che fa rotolare una botte per le scale del Cielo avrebbe detto mio padre, per spiegare a me bambino il motivo del rumoroso rimbombare tra le nuvole.

    Confesso che trovarmi adesso a contatto con questo mare dello Stretto, scuro e profondo, visto da qui, dalla ringhiera esterna di questa nave, mi rende fin da subito inquieto. Un certo timore comincia a serpeggiare. Sarà forse per questo vento di ponente che ingrossa le onde, tanto da sommergere con gli spruzzi la prua del traghetto. O forse è anche per la pioggia che improvvisa rimbalza copiosa sulle onde formando sui vetri dell’oblò tanti piccoli puntini.

    Oppure sarà il fragore dei tuoni che rimbombano nel cielo annerito da grossi nembi attraversati da improvvise lame di luce, che mi fa rabbrividire e ancor di più pentire di aver intrapreso questo dannato viaggio. Mi rifugio velocemente all’interno della grande sala della nave con tanta gente incurante del forte temporale. Finalmente scorgo il torrione dell’antico forte San Salvatore su cui sorge la stele ottagonale con una grande scritta scolpita:

    vos et ipsam civitatem benedicimus,

    sulla cui sommità una madonnina tutta bianca saluta e benedice i pellegrini che vengono dal mare per entrare a Messina.

    L’attesa nervosa per l’attracco, che si protrae per una buona mezzora, ed eccomi arrivato in terra sicula. Tiro un sospiro di sollievo. Mi sento sfinito, provato dal lungo viaggio.

    Ci fanno scendere molto lentamente dal traghetto; dentro la pancia della nave i tubi di scappamento delle numerose automobili, impazienti di venir fuori, ammorbano l’aria. Finalmente sono sul porto. Ma il viaggio, ahimè, continua. Adesso dovrò cercare l’imbarco per la piccola isola in mezzo al mare. Trovo un piccolo ferryboat ricoperto da una ruggine nascosta per la manutenzione da decine di mani di vernice bianca sovrapposte.

    Trovo posto all’interno della strana imbarcazione che pare proprio un mezzo da sbarco americano dell’ultima guerra. Il mare dentro al porto sembra essersi chetato, ma pioviggina ancora mentre il vento rivolta gli ombrelli dei rari passanti. Ancora un’ora di trepidazione in mezzo alle onde e poi finalmente mi fermerò sulla terra. Un rumore sordo, tipo flicorno basso della banda musicale, che fuoriesce dall’alto da questo trabiccolo galleggiante annuncia lo scioglimento degli ormeggi per salpare. Appena fuori dal porto il dondolio si fa sempre più insidioso. Il mare comincia a gonfiarsi a vista d’occhio insieme alla mia angoscia. Giuro che non tornerò mai più in questi posti, meno che mai in automobile. Aveva ragione mio padre: «Prendi l’aereo, Claudio, arrivi subito» diceva. A pensarci meglio, però, anche in aereo avrei poi dovuto affrontare ugualmente queste onde per arrivare all’isola. Tutto sommato, questo mio viaggio non è casuale, forse rappresenta l’inizio di una nuova era o magari ad una prima vera crisi tipica della mezza età, visto che mi avvicino ai 40 anni. Occorre premunirsi. In fondo, che cosa mi manca? Sto bene di salute, ho una bella casa, un ottimo lavoro che mi piace, amici, donne. Evidentemente non bastano. Sarebbe meglio liberarsi una buona volta da quelle sovrastrutture mentali, come si diceva negli anni barricadieri della scuola.

    Ho sofferto tanto in quei primi anni di Harvard University. In quel luogo lontano ho imparato a pensare con la mia testa traendo dalla solitudine, ma quella vera, il piacere del benessere interiore… Il mio carissimo compagno di stanza del College Tom, con cui pian piano ho fraternizzato, aveva la passione per le lucertole. Devo dire che grazie a lui ho cominciato a capire la forza di queste piccole creature, capaci di potersi liberare della loro coda senza alcuna conseguenza.

    Anch’io mi sono liberato delle mie code e finalmente per la prima volta ho sentito il piacere intenso del sentirmi indipendente. E poi è arrivata la mia Bologna. Ah, che magnifici ricordi. In quelle piccole strade colorate mi sento avvolto e protetto in un’atmosfera ammaliante, pulita, rassicurante.

    Grazie a questa città, alla sua nebbia che sembra lentamente inghiottirti, ho finalmente assaporato il piacere nascosto delle piccole e innocenti trasgressioni.

    Bologna è una donna emiliana di zigomo forte

    Bologna capace d’amore, capace di morte(N. 9)

    Cantava Guccini con ragione. Bologna ha dato un nuovo corso al mio sentirmi diverso da tutti; dentro le sue mura che ti circondano sono riuscito a sfaccettare la nutrita serie di sentimenti vari che mi dominano; ho potuto catalogarli, distinguendoli dai semplici rapporti di conoscenza, all’affetto verso un amico o l’amore profondo per una donna, diverso dalla pruriginosa attrazione fine a sé stessa.

    Il vento adesso fischia tra le barche di salvataggio portando con sé un forte odore di mare che copre il lezzo di stiva, di marcia umidità del ponte esterno e del freddo salone svuotato di passeggeri. Improvvisi brividi mi corrono lungo la schiena. No, non è stanchezza questa, è vago terrore per questa acqua salata in movimento, tanto amata e insieme odiata da mio padre, perché diceva era frutto della sua tristezza e sofferenza. Adesso basta! Voglio arrivare sulla terraferma. Non ne posso più!

    Anche lo stomaco si ribella, mi gira tutto intorno e sento la nausea risalire veloce. Vedo in lontananza uno straccio di terra che nell’ondulare frenetico del salone s’avvicina lentamente, troppo lentamente. Per distrarmi dal malessere penso ancora alla vita di mio padre, in fondo, potrebbe somigliare ad uno spartito di Chopin, suo ipotetico mentore. Stranamente in lui ritrovo la stessa inclinazione all’inquietudine, al melodramma. Anche lo stesso rapporto tra lui e la mamma somiglia tanto a quello così controverso, caotico e nervoso tra Chopin e George Sand, che tanto incise sulla vita sociale del grande compositore, ma anche sulla stessa sua capacità creativa.

    Nonostante tutto ammetto che devo molto a mio padre, mi ha dato la possibilità di arrivare ai miei attuali traguardi sul lavoro e quindi non mi sottraggo, non lo abbandonerò ai suoi

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