Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Trasportanza
Trasportanza
Trasportanza
E-book202 pagine2 ore

Trasportanza

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Erick è un ragazzo di origine montenegrina, ha sedici anni e frequenta la terza superiore. Non sa cosa sia una famiglia, la vorrebbe e l’avrà, ma a che prezzo? È arrivato in Italia all’età di quattro anni con un padre duro e latitante. Arresti e retate, la droga degli adulti, gli assistenti sociali e genitori nuovi: una bella casa nel centro di Bologna in via D’Azeglio, la scuola, gli amici e particolari avventure tra i professori stressati. Un’energia inaspettata, unica e invisibile dal nome inesistente – la trasportanza – il potere di trasferire una conoscenza da una mente all’altra con un semplice gesto. Un trasferimento univoco e senza alcun consenso. Erick, con l’aiuto degli amici Cima, Allegri e Fabia, capirà la strada da percorrere nel bene e nel male, come solo un ragazzo può fare.
Inseguimenti e una notte tra le classi del Liceo Artistico “Arcangeli”, nulla è per caso.
Il suo primo bacio. Un sogno e un colpo che tuona sono il preludio dell’inaspettato.

Germano Bianconi è nato a Modena il 10 ottobre 1971. Diplomato presso il Liceo Artistico “A. Venturi”, si è laureato a Firenze nel 1993 presso l’Accademia “Cappiello”, in Design e Comunicazione. Nel 1997 entra a far parte di Modo Fotografia s.r.l.; 1998 diventa socio di MHP s.r.l., elaborazione fotografica e 3D. Nel 2000 è docente presso CNI ECIPAR, foto-ritocco e gestione del colore. Nel 2004 ha fondato Setteinpunto, grafica impaginazione e stampa. Nel 2005 ha costituito la Redazione Senzafiltro, associazione di promozione sociale. Nel 2006 ha fondato Senzafiltro sas, società di elaborazione grafica e siti internet. Nel 2009, folgorato da una visione, scrive il suo primo romanzo, Qualche volta non c’è un perché (De Rocco Editore). Nel 2012 continua a scrivere e pubblica il suo secondo romanzo: Come la cenere. Una storia vera (Seneca Edizioni). Nel 2012 vince il Premio “Leucotea”. Nel 2016 pubblica on-line Il mio bel vento, nel 2017 Il vangelo secondo Ema (Titani Editori). Nel 2018 vince il Premio “Accademia Petrarca”.
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2022
ISBN9791220136310
Trasportanza

Correlato a Trasportanza

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Trasportanza

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Trasportanza - Germano Bianconi

    Prologo

    Mi chiamo Erick, ho sedici anni e frequento la terza superiore. Sono di origine Montenegrina, i miei primi anni di vita li ho consumati a Luzani, un piccolo paese tra i piedi della grande montagna e il fiume Zeta nella provincia di Podgorica, però ad essere onesti non ricordo praticamente più nulla di quella terra, sono anni lontani, ho solo piccoli frammenti solitari e sconnessi. Strade anonime e piazze lontane.

    Non so cos’è la famiglia, so che la vorrei, so che l’avrei voluta e so che un giorno l’avrò certamente, o per lo meno questo è quello che mi ripetono con costanza ritmica gli assistenti sociali. I miei nonni sono morti durante la guerra nei Balcani, ho avuto la fortuna di conoscerli ma purtroppo solo vaghe tracce mi sono rimaste nella mente, proprio come una foto grigiastra e scolorita che li ritrae. I miei genitori non saprei definirli: apatia, ubbidienza e paura sembrano a noi sentimenti normali, io e i miei fratelli siamo stati usati, trascinati e abbandonati eppure non provo remore particolari, se dovessi descrivere il rapporto con un’immagine... beh: un foglio bianco con un punto in basso a destra.

    Avevo 4 anni quando sono arrivato in Italia, era il 2005, è passato molto tempo e della lingua montenegrina non parlo praticamente più nulla ma in compenso ho imparato un buon italiano, so articolare discretamente una frase e non mi sbaglio con i congiuntivi. Mi piace leggere, mi calma! Una frase ben fatta è più energetica della vitamina C, un capitolo è l’aspirina e l’intera opera è la cura. In questo modo quando sento quelle catene invisibili addosso e ho la sensazione di scoppiare mi rifugio dietro un libro. Nella sua ortografia, nei suoi racconti e immagino di volare.

    Non mi piacciono i professori con la nota facile...

    Non conosco il confine tra il bene e il male...

    Non capisco l’abbraccio, ma mi piacerebbe provarlo.

    Non so cantare, ma so parlare, ascolto e non posso scappare.

    Non ho paura del buio.

    Vorrei una casa pulita e una ragazza da baciare.

    La banalità di una storia non è la vita ma è la storia stessa, in queste pagine vi racconterò il mio tempo passato e futuro passando dal presente, la racconterò in prima persona, si perché io sono Erick.

    Solo io posso dirlo.

    Ricordo bene quella notte, ero sdraiato sul letto, doccia fatta e capelli umidi ma non riuscivo a prendere sonno, così quasi per scherzo ho pensato a questa storia, l’ho studiata e l’ho immaginata guardando lo scorrere delle ore.

    I protagonisti prendevano forma, i luoghi nascevano dal buio e anche la storia si faceva sempre più reale e poi...

    Beh, poi ho pensato, forse è meglio scriverla perché il finale arriverà da solo.

    Capitolo 1 – Primi passi

    Lo sbarco in Italia è avvenuto legalmente via terra, il confine è stato oltrepassato con un falsissimo visto turistico perché con i giusti metodi anche il Consolato diventa tuo amico. L’inettitudine del prossimo è quell’atteggiamento che imparai a conoscere e se pur dissociandomi faticavo a distaccarmene. Per motivi di sicurezza abbiamo dovuto spostarci parecchio, mio padre si procurava lavori saltuari e di certo qualche volta anche decisamente oscuri. Il visto è quel lasciapassare che serve per entrare nel paese ma non dura per sempre e di conseguenza imparai a nascondermi orribilmente dietro la parola clandestino, ero irregolare ed ero cosciente che, non potendo esistere, dovevo fare più attenzione rispetto alle persone vere.

    Mio padre per non far correre rischi ai consanguinei cominciò di conseguenza a comportarsi da generale nazista. Seguivamo ogni suo comando, il capo famiglia decideva e, con una semplicità disarmante, ordinava, ogni discussione era negata, non concessa, era proibita. Le sue grosse mani erano il deterrente perfetto, il contradditorio non veniva minimamente preso in considerazione da nessun essere della famiglia. Valigia pronta e profilo basso. Siamo stati due anni a Milano, sei mesi a Lodi, di seguito per la periferia di Como occupando un deposito dismesso e poi via di nuovo alla ricerca della miglior fortuna. L’odore stantio del fango mi si appiccicava sulla pelle e non sempre l’acqua che odorava di ferro della doccia arrugginita riusciva a rimuoverlo. Eravamo come il muschio, alberi senza radici. L’Italia è un paese strano e scettico verso gli stranieri ma devo dire che ci ha aiutato molto... ma purtroppo ha anche chiuso gli occhi quando non doveva permettersi di farlo, a posteriori però posso solo ringraziarla.

    Gli anni delle elementari li ricordo a tratti o forse senza saperlo la mia mente è più forte degli ostacoli e ha cercato di cancellarli.

    A undici anni ho frequentato la scuola media statale Meneghetti di Verona, la città di Giulietta e Romeo, lo rammento bene perché proprio in quel periodo ho conosciuto il dono della lettura e conseguentemente la fioritura della formazione mentale, i continui e sempre più repentini traslochi erano una routine insostenibile, cambio di regole, cambio d’accenti, di vicini e di conoscenti, mia madre cominciò a bere e a farsi d’illecito, il suo bel fisico tonico da modella in breve tempo si fece sciatto e scialbo, cadente e polveroso, gli occhi spenti e mal truccati firmavano il quadretto, non escludo neppure che avesse iniziato a prostituirsi. In casa, ammesso che si potesse chiamare casa, veniva sempre gente diversa e anche quella uguale era sempre più brutta. Odiavo essere rinchiuso a chiave in camera e sentire quei brutti gemiti dall’altra parte del muro. Odiavo quel muro, odiavo il buio e le inferiate alla finestra che m’impedivano di volare. Odiavo me stesso, odiavo i graffi sulle braccia, odiavo le scatolette di tonno e le lattine di birra schiacciate sul pavimento del bagno, odiavo il silenzio dei miei fratelli, odiavo quel torpore inerte che non si può definire vita. Me ne stavo seduto a terra con la schiena alla rete nel bordo del letto cercando di non pensare a nulla. Zero pensieri, solo il vuoto cosmico, non era facile ma per sopravvivere dovevo farcela. Testa china, ginocchia al petto e orecchie tappate! Odiavo tutto questo e me ne stavo rinchiuso nel mio mondo buio, imparai ad usare il buio come se fosse la mia unica coperta invisibile, chiudevo gli occhi e mi coprivo del buio, non piangevo ma tremavo, non volevo ma pregavo, non amavo e odiavo, non parlavo e così... semplicemente respiravo.

    Sì, respiravo in quel silenzio che talvolta diviene talmente assordante che nella torbida apatia altri dodici mesi me li misi alle spalle.

    Il 2010 è stato un anno molto strano, probabilmente la prima ribellione famigliare, ricordo che mio fratello Goran se ne scappò con nostra sorella, ma per loro era più semplice, eh già, loro due potevano farlo, erano grandi a tutti gli effetti... sì, insomma... erano maggiorenni. Un pomeriggio solitario d’aprile arruffarono alla meglio possibile, abiti e valigia, un orologio da polso e un coltello di ferro, poi rubarono 200 euro dal primo cassetto del tavolo in cucina e sparirono nel nulla senza salutare; nostro padre si arrabbiò parecchio e come al solito anch’io mi presi la giusta dose di rimproveri:

    «Dove sono Goran e Karima! Doveee!!!» urlava posseduto mio padre con il tramonto in arrivo alle sue spalle. «Come hai fatto a non vederli scappare con i soldi!!! Dimmi, come!».

    Forse pensava che fossi stato d’accordo con loro ma non era così, in quel momento chissà cosa avrei dato per essere con i miei fratelli ma io non potevo. Loro potevano, io no. Loro potevano scegliere di cambiare: io no, io ero solo un piccolo essere!

    Spero siano felici insieme, gli auguro una bella luce, ma nel mio profondo del cuore spero però che mi dimentichino in fretta. Anche loro mi hanno abbandonato, avevo dieci anni, gli anni delle risate, gli anni dei primi amori, gli anni che non si dovrebbero negare a nessun ragazzino.

    Un altro anno è passato e così salgono a undici gli anni che ho perso e zero sono i fratelli che ricordo. Non li ho mai più rivisti, non saprei dire se mi mancano.

    Certi giorni mi prende allo stomaco una rasoiata di malinconia e provo a immaginarmeli, chissà dove saranno e cosa staranno facendo, forse non sono più insieme o forse sì e ancora mi viene da pensare: magari non stanno poi così bene, sì... in effetti se le cose fossero andate bene sarebbero tornati a prendermi... e così ripenso alle ipotesi più varie. Solitudine... che inutile festa! E se non mi volessero? O forse hanno semplicemente detto no al passato, tutto! Nessuno escluso. Ma io che colpe ho? I ricordi dei giorni felici si fanno diradati e le vie storte mi ritornano alla mente.

    Cominciai a conoscere i servizi sociali: mi facevano tante domande, troppe, troppe da far scoppiare la testa, mi guardavano con gli occhi strani che puzzavano d’inchiostro ammuffito, sentivo il loro odore fin dentro alle mie pupille lucide, era talmente forte che abbassavo lo sguardo e solo allora cessava la nausea. Gocce di tranquillanti, l’aria secca mi sbiancava la fronte. Sudavo l’imbarazzo. Era strano ma mi vergognavo d’uscire di casa tuttavia ancor più incredibile allo stesso modo mi vergognavo d’entrarci. Pesavo 26 chilogrammi scarsi, sei sotto il peso forma.

    «Così non va bene – mi diceva con minuzia e preoccupazione il medico degli assistenti sociali – Apri la bocca Erick e fai due colpi di tosse» aggiunge alzandomi la maglietta. «Fuori la lingua e fai aaaaaaahhh».

    «Aaaaaaahhhh» ripeto con una bocca talmente spalancata che mi viene anche da tossire naturalmente.

    «Hai la gola infiammata, ti pizzica?».

    «Un po’».

    «Mi fai un altro bel colpo di tosse Erick?».

    Eseguo senza grossa fatica, anzi a questo punto il problema è fermarsi, ci riesco con un bicchiere d’acqua che mi passa il dottore.

    «Cosa sono quei graffi sui polsi?».

    «No, non so» rispondo balbettando.

    Inconsciamente per combattere situazioni poco simpatiche mi gratto le braccia, di volta in volta per evitare di provocarmi ferite profonde scendo o salgo, in questo preciso periodo ero arrivato ai polsi, so bene che presto ritornerò sui gomiti.

    «Esami del sangue recenti?».

    «No».

    «Male! E questo livido sulla scapola sinistra cos’è?».

    «Eh... niente è scivolato ieri mattina dalle scale» risponde mia madre al dottore.

    «Avete delle strane scale!» ribatte con ironia indispettita il dottore scuotendo seccamente la testa.

    «Sì... eh Erick è un bambino molto distratto».

    «Lei dice?».

    «Sì dottore, sono sua madre, lo conosco bene. Fa le cose così senza pensare».

    «Ah lei dice?!!!» insiste il dottore con aria scettica. «Che lavoro fa signora?».

    «Mi arrangio dottore, perché?».

    «No così, immaginavo qualcosa del genere».

    «Le serve qualcosa dottore?».

    «Per carità di Dio, no. Tirati giù la maglietta Erick. Bravo Erick, mi devi dire qualcosa?».

    Inizialmente annuisco poi però vedo mamma che scuote il capo da destra a sinistra e così mi taccio.

    «No niente».

    Il dottore mi guarda da sopra gli occhiali e scrive un rapporto meticoloso sul computer, è piuttosto ombroso e prolisso, c’è silenzio, si sente solo in suono metallico della tastiera, si ferma e mi chiede di slacciarmi i pantaloni, io procedo senza indugiare ma mia madre interviene:

    «Ma è proprio necessario?».

    «Certo signora! Bravo Erick, adesso girati e dammi la schiena».

    Io acconsento.

    «E quei segni sulle gambe cosa sono, e non mi dica che è caduto dal marciapiede!».

    Il silenzio dice tutto. Il silenzio ti parla, ti studia e di tanto in tanto ti risponde poi ti giudica senza condannarti, il tanto ricco quanto vecchio dottore invece:

    «Mi dispiace, ma devo fare rapporto e scriverlo. Al ragazzo serve aiuto. Capisce signora? Capisce che vuol dire? Mi sta ascoltando? C’è qualcosa che mi deve dire? Questo domicilio è giusto vero?».

    Abbassa gli occhiali e con le pupille nere che sporgono dalla montatura continua quell’umiliante sproloquio solitario e univoco:

    «Mi raccomando, non aggraviamo la situazione. Signora mi segue? Mh... Signora! Mi guardi e ascolti bene, non ci siamo e non dico altro!».

    Mia madre tra ansia e sconforto non dice nulla, abbassa il capo e le scende una lacrima, è la prima volta che la vedo piangere in mancanza di botte. Il dottore senza nulla dire le passa un fazzoletto di carta, forse proprio in quell’istante, in quel preciso momento nel tempo, ci siamo resi conto del futuro incerto che ci aspettava, entrambi avevamo preso consapevolezza di quello che prima o poi sarebbe dovuto accadere. I nostri pensieri vuoti sembravano studiare le ceramiche del pavimento consumate dal dolore dei pazienti. Minuti vuoti e interminabili, imbarazzanti, disarmanti, incerti ma vedevo anche un’oasi di curiosità che chiedeva insistentemente il permesso d’entrare.

    Capita che il tempo passi più lentamente del previsto e capita anche che il fisico non se ne accorga, non sembra ma eppure accade.

    Occhi persi tra le anime ignare, eppure accade.

    Eppure accade.

    Le parole non contano più perché i secondi sotto il sole e nella notte scattano, si susseguono in egual modo. Anche le larve diventano farfalle.

    Dovettero passare altri compleanni prima che la legge si rendesse conto della mia situazione. Accertamenti e la solita burocrazia. Trecentosessantacinque giorni per due, settecento trenta giorni uno dietro all’altro... un’eternità sprecata nel fango degli uffici nella democrazia moderna, ma mai guardare indietro, sempre avanti, avanti dritto diceva il nonno e così inevitabilmente l’indomani arrivò proprio quel giorno. Il mio giorno più lungo.

    Il tribunale di Verona, sotto consiglio della psicologa del distretto dell’USL competente, ordinò il mio trasferimento immediato, in pratica coatto, presso una casa famiglia in via di definizione: l’ordinanza diceva che ero in attesa d’affidamento e/o adozione presso una famiglia detta sana di valori. Sembra incredibile ma il giudice in prima istanza disse e scrisse proprio così. Non credo avesse un’immensa esperienza.

    Ora: come faccia

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1