Lo sguardo della sofferenza
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Anteprima del libro
Lo sguardo della sofferenza - Giuseppe Barzaghi
15,2)
Introduzione
Volare via con lo sguardo è volare nello sguardo.
Imprendibile. Come un colpo d’ala del genio. Qualcosa che sta sotto a tutto e dentro tutto.
Invisibile, ma presente. Una presenza di interiorità.
Entrare nella malattia è entrare nella solitudine.
Una solitudine che non può capire chi non la abita. Dal didentro. È una questione di esperienza, perché è una chiamata assoluta alla profondità interiore.
Anche l’urlo di aiuto sembra soffocare. Quando il gioco è interiore, il grido appare troppo esterno e annega nel sospetto velato della inutilità.
Ma quante lacrime ci vogliono per trovare sollievo? Ne basta una. Lei sa che cos’è la solitudine. Ne è l’unica compagna cara.
A volte non cola dagli occhi. Resta a galleggiare tra le palpebre e l’iride. Come per proteggere col suo velo la dignità dell’anima che pensa già alla sua fuga.
Forse è l’ala dell’angelo custode. Quando un occhio è fisso e come assorto dietro il velo di una lacrima, lì c’è qualcosa di angelico.
Il custode sa cos’è la solitudine: è fatto a sua misura. Ne ha una percezione infallibile, come un segugio. È trasparente e invisibile, come ciò di cui si prende cura: il dolore e l’affanno solitario. Anche la solitudine, nessuno la vede.
Tutto è nascosto nella profondità, dove ci si deve avventurare da soli. Lo smarrimento è il timore del vuoto.
Eppure la sensazione della vacuità è il librarsi dell’anima sulle ali del messo divino. Ed è la calma in cui si spegne, come il sonno di pace che segue il pianto a dirotto.
La fantasia divina culla la solitudine malata e si adagia nell’anima che guarda.
Quegli occhi languidi di solitudine vanno contemplati all’infinito perché è lì che si possono vedere gli angeli.
L’obiezione del male
Io sono troppo contento. Non so perché, ma sono fatto così. Io devo sempre vedere il positivo.
Non mi costa neppure fatica. È come una specie di istinto. Quindi quel devo
non è un ordine che mi sono dato, ma una cosa che mi viene fuori come d’impulso.
Forse è perché mi viene da ridere. Sai, come i bambini che ridono da soli ogni volta che vedono o pensano qualcosa: c’è come un risvolto segreto che porta da un’altra parte. Una specie di fuga. Di là c’è sempre un motivo o qualcosa che fa ridere.
È una cosa così bambinesca che, a dirlo, un po’ mi vergogno. Però penso di essere in buona compagnia.
Nel Salmo 2 si legge: «Se ne ride chi abita i cieli, li schernisce dall’alto il Signore». E la cosa simpatica è che quel verbo che viene tradotto con schernisce
non potrebbe essere tradotto se non accompagnandolo con una espressione del volto. Altrimenti non lo si capisce fino in fondo.
Il verbo greco è mykterizo. La radice che lo alimenta è myc, da cui muco, quello delle narici, e mykter vuol proprio dire narice. Allora mykterizo lo si capisce facendo una smorfia: come i bambini che deridono altri bambini allungando il muso e arricciando il naso.
Il suono canzonatorio che ne esce è come il muggito della mucca (guarda caso anche la parola mucca
e la parola muggito
vengono di lì…). Anche Dio si diverte come un bambino.
Io devo (sempre quel devo
di prima… capito?) fare le facce. Che cosa vuol dire? Vuol dire che non sono capace di dire una cosa senza fare qualche movimento, qualche gesto… qualche smorfia con la faccia.
Mia nonna me lo rimproverava sempre: «Nem, desmet da fa i fach!». Sono proprio un teatrante nato. Molti mi dicono che se non avessi fatto il frate avrei potuto fare il cabarettista… Beh, almeno l’imitatore sì.
Non sono fatto per le cose negative. Non posso nascondere che il tema del male mi mette a disagio.
Occhio! Non il male, ma il tema del male. Dico che è il tema
del male. Trattare del male mi mette più a disagio del male stesso. Beh, forse perché il tema
del male è il male dei mali. Allora, messa così la cosa, dovrei ritrovarmici: è comunque male.
Ma non è proprio così. Qui si tratta di parlarne e non solo di subirlo… Ho sempre nella mente una reminiscenza liceale che mi fa tacere contemplandone la verità e la profondità.
È una frase di Seneca che dice: «Phaedra: Curae leves locuntur, ingentes stupent» (Phaedra, scena IV). Aspetta che traduco: «I piccoli mali fanno parlare, quelli grandi fanno ammutolire». Che è come dire: i piccoli mali sono lamentosi, le grandi tragedie tolgono le parole.
Quel tacere intorno al male mi sembra una forma di contemplazione. Forse la contemplazione più profonda che ci sia. Dove si va a toccare la profondità inesplorata e inesplorabile del mistero.
Il rifugio più sicuro che ci sia. Se il male è nel cuore del mistero e il mistero è Dio, allora per poter contemplare il male occorre rifugiarsi in Dio.
Vale anche in modo inverso: se il mistero è nel cuore del male e il mistero è Dio, rifugiandoci in Dio entriamo nel cuore del male, ma sempre con la sicura compagnia di Dio. Come per dire che solo così si può intendere qualcosa.
Ma lì si ascolta e non si parla. Guarda e taci!
Il vero spettacolo delle cose e del loro intimo segreto è lì. E lo spettatore, chi guarda lo spettacolo, risponde con lo sguardo, non con le parole. E allora bisogna fare le facce
. Ma per iscritto non posso farle… Pazienza.
Rimane il fatto che io sono fatto per i discorsi sul positivo e non sul negativo. Se devo trattare di una cosa negativa, come è il male, allora devo adattarmela.
È vero che uno deve adattarsi alle cose, però bisogna dire che anche le cose in qualche modo devono adattarsi a lui. L’adattamento è sempre reciproco. Allora ho trasfigurato il tema del male con un titolo adattato
. Ma più ci penso e più mi sembra effettivamente adatto
.
Lo sguardo della sofferenza
. Il problema del male è più soggettivo che oggettivo. Ed è proprio per questo motivo che noi spesso diciamo: «Tu nemmeno immagini che cosa ha sofferto quella persona lì».
Beh, le hanno cavato un dente… le hanno tolto la cistifellea. Le hanno tagliato una gamba. Ha perso il figlio. Ma tu non immagini che cosa ha sofferto quella persona lì.
Il male è qualcosa di obiettivo, ma la sua trasfigurazione è nell’anima di chi lo patisce. Se tu togli la caramella a un bambino e lui… ci teneva così tanto a quella caramella: che cosa ne sai di quello che succede nella sua anima? Il male, pur essendo oggettivo, ha sempre una trasfigurazione soggettiva.
Allora, dico, per adattare a me la trattazione
del male, che pur sviluppo quando insegno teologia – visto che san Tommaso d’Aquino ne tratta specificamente nella Somma Teologica –, per non far pasticci preferisco parlare dello sguardo della sofferenza.
La sofferenza ha il richiamo all’oggettività: è l’essere toccati dal negativo. Ma questa sofferenza ha uno sguardo e cade sempre dentro uno sguardo. E quando cade dentro uno sguardo, a seconda dello sguardo, cambia faccia.
Questo vuol dire trasfigurare. Questo adattamento l’ho fatto perché io sono fatto così. E siccome sono fatto così, ho fatto anche degli studi che portano ad esigere questa trasfigurazione. Che vuol dire vedere il positivo nel negativo… Vedere il positivo nel negativo.
Non i più grandi professori, ma i più grandi geni dell’umanità, i maestri dello spirito, hanno l’abilità di vedere il positivo nel negativo. Ma hanno una tale abilità da essere capaci anche di vedere il negativo nel positivo.
Oh, questa è proprio grossa, dai!
Aspetta, sta’ attento: non ho detto di banalizzare il positivo, disprezzarlo. Sai, come quelli che dicono: «Oh, lo sai… anche quello lì… sembra, sembra buono, ma anche lui… eh». Non si tratta di andare a mettere in mostra le magagne dove tutto sembra pulito.
Vedere il negativo nel positivo significa una riedizione del suo speculare: vedere il positivo nel negativo.
Vedere il negativo nel positivo equivale a dire che il negativo non è mai assoluto. Il negativo è sempre incorniciato nel positivo. Quindi bisogna saper vedere questa circolarità