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Exodus il segreto di Mosè
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E-book615 pagine9 ore

Exodus il segreto di Mosè

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Info su questo ebook

Avete mai pensato, anche solo per un istante, che la storia del bambino “salvato dalle acque” e adottato dalla principessa egizia potesse essere un racconto di fantasia? E se fosse proprio così? Se Mosènon fosse stato ebreo ma egizio? Gli indizi non mancano. Il nome “Moshes”potrebbe essere la parola egizia “bambino”, “figlio di”, come troviamo in molti nomi di faraoni: Thut-Moshes, Ptha-Moshes, Ra-Moshes. La storia della cesta di vimini potrebbe essere un “romanzo familiare” ripreso dalla leggenda del re accadico Sargon. La circoncisione prima di essere un segno distintivo del popolo ebraico lo era di quello egizio, come attestano numerose pitture all’interno delle piramidi. Mosè, inoltre, come narra la Bibbia, era “ tardo di lingua”, cioè balbuziente; e se in realtà il profeta non fosse riuscito a comunicare con gli Ebrei perché parlava una lingua diversa? Questi indizi e molti altri fanno del profeta un perfetto suddito egizio.
Tenendo conto di tutto ciò, negli anni ’30 del secolo scorso, Freud ha proposto una teoria affascinante: Mosè sarebbe stato un egizio seguace del faraone Akhenaton. Quest’ultimo è stato il più enigmatico e oscuro faraone della plurimillenaria storia egizia, colui che sarebbe passato alla storia con l’epiteto di “faraone eretico”.
Il romanzo è diviso in due parti, con degli intermezzi ambientati negli anni ’30 del secolo scorso.
La prima narra le vicende della XVIII dinastia: saranno svelati gli intrighi di corte, il nome dei faraoni cancellati dalla storia, la fondazione della città sacra di Akhet-Aton e il suo rapido declino, la natura delle misteriose dieci piaghe, la nascita, l’apogeo e la fine di una dinastia.
La seconda parte fa luce sulla figura di Mosè, uno dei personaggi più enigmatici di tutti i tempi. Chi era il profeta? Cosa lo spinse ad affrontare la dura vita nel deserto? Perché non entrò nella Terra Promessa? E, ancora, racconta l’avventura dell’Esodo: il suo percorso, il miracolo del Mar Rosso, il segreto del Monte Sinai e la difficile esperienza del deserto. Mosè, diventato un personaggio scomodo per il suo popolo, giunto ai confini della Terra Promessa sarà ucciso in modo tragico, assassinato da una mano insospettabile. Il romanzo storico si trasforma in un giallo dalle tinte fosche, dove tutti i personaggi della Bibbia diventano potenziali assassini del profeta. Tutto questo sarà scoperto dall’archeologo di Colonia, Mark Rätsel, colui che porta già nel suo cognome il proprio destino, infatti Rätsel in tedesco vuol dire “enigma”. Le indagini si svolgono nell’Austria degli anni ’30, in un clima teso per l’avanzata del nazismo; Rätsel, giunto nella città dei musicisti per un convegno riguardante la nascita della XVIII dinastia, sarà catapultato per caso all’interno di un mistero celato agli uomini per migliaia di anni.
Come mai il racconto narrato dalla Bibbia giunto fino a noi narra una storia diversa da quella scoperta dall’archeologo tedesco? Chi ha cambiato gli eventi della storia e perché? Solo leggendo Exodus troverete le risposte a questi interrogativi, risposte sconvolgenti.
Questo racconto riesce ad avvicinare l’inavvicinabile, accosta nazismo e antico Egitto, Vienna e Tebe, racconta di Hitler e Tutankhamon, rende contemporanei Freud e Mosè; rivoluziona le origini, le cause e il percorso effettuato dagli ebrei durante il “viaggio della speranza”. Il racconto, pur essendo un romanzo, si dipana all’interno di una cornice assolutamente storica; le descrizioni degli ambienti, delle città, dei templi, i costumi e la cultura del tempo sono accuratamente documentati. Anche la maggior parte dei personaggi è attinta da documenti e da scritti antichi: dai papiri, dalle tavolette di Amarna e dalla Bibbia.
Di fronte alle scoperte sensazionali dei due protagonisti, il lettore sarà accompagnato in una rilettura originale della storia biblica;
Il libro, ricco di colpi di scena, nel finale darà molte risposte al lettore, ma lascerà in sospeso alc
LinguaItaliano
Data di uscita16 nov 2017
ISBN9788827518106
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    Anteprima del libro

    Exodus il segreto di Mosè - Davide Baroni

    Note

    PROLOGO

    Vienna, Luglio 1934

    Il sole stava per sorgere sulla città dei musicisti. Tonalità oro e arancio pennellavano il cielo terso diffondendo il loro bagliore sopra l’argenteo nastro del Danubio. Presto le prime luci dell’alba avrebbero sconfitto l’oscurità. Al numero diciannove di Berggasse strasse, nel IX distretto comunale di Vienna, il padrone di casa, solitamente mattiniero, dormiva ancora. L’indagine, che aveva iniziato quasi per gioco mesi prima, stava sconvolgendo la sua vita, le sue sicurezze. Ciò che aveva scoperto lo rendeva inquieto ed i pensieri che lo turbavano aumentavano ogni giorno di più. Perciò, quando spuntò il sole, le imposte dello studio erano ancora chiuse. Quella mattina il dottore avrebbe ritardato l’apertura del suo ambulatorio.

    Herr Professor , come lo chiamavano i colleghi, aveva trasferito lo studio in quell’appartamento nel 1908. Lo aveva voluto proprio di fronte alla sua abitazione, per comodità. Era spazioso e le finestre si affacciavano su un cortile interno, ampio e tranquillo, dove regnava incontrastato un enorme castagno che ombreggiava il patio. Le pareti dello studio erano ricoperte di quadri, fotografie ed onorificenze e numerosi tappeti ne rivestivano il pavimento di legno. Un’ampia libreria a vetri padroneggiava la stanza, era gremita di testi di storia antica, religione e filosofia, che ormai superavano in gran numero quelli di medicina. La sala era ingombra di oggetti antichi ed una folla di statuette invadeva ogni superficie libera, tanto che a prima vista, più che lo studio di un medico pareva quello di un archeologo. Al centro della stanza, un divano ricoperto da un tappeto orientale veniva usato dal dottore come lettino per i suoi pazienti, al lato del quale era posta una comoda poltrona dove si sedeva per ascoltarli. L’arredamento della stanza era completato da vasi di ogni foggia ed epoca e da una scrivania in legno pregiato, dietro alla quale spiccava il quadro di un faraone dall’aspetto enigmatico.

    Quando il dottore giunse al suo ambulatorio, era già mattina inoltrata. Fortunatamente quel giorno non aveva in programma alcuna visita. Negli ultimi anni aveva dovuto ridurre notevolmente la mole del suo lavoro. L’età avanzata ed una grave malattia lo avevano duramente provato. Nel 1923 gli era stato diagnosticato un tumore al palato che in poco tempo gli aveva compromesso anche la mascella. Nel corso degli anni aveva dovuto subire numerosi interventi, tuttavia, nonostante fosse notevolmente debilitato, non aveva rinunciato né al lavoro né ad una delle sue più gran di passioni: il sigaro. Da fumatore accanito qual era, ne fumava una mezza dozzina al giorno ed anche quella mattina, dopo una leggera colazione, si era subito acceso uno di quegli amici sconsigliabili che gli avrebbero tenuto compagnia durante l’intera giornata.

    Si sedette alla scrivania e pensò all’opera che aveva appena terminato di scrivere, il cui argomento esulava completamente dalla materia dei suoi studi. Tutto era iniziato per pura curiosità. Dopo la salita al potere di Hitler, nella testa del dottore si era fatta largo con insistenza una domanda ossessiva, martellante: Perché in Germania era ricominciata la persecuzione contro gli ebrei? L’antisemitismo non era la brutale prerogativa del nazismo, ma continuava a covare sotto le ceneri del tempo da sempre. Nel corso delle varie epoche, gli ebrei erano stati ripetutamente oppressi e perseguitati dai potenti di turno. Qual era il motivo di quei soprusi millenari? Forse sul popolo sorto dall’Esodo gravava qualche colpa oscura? Queste domande avevano preso forma nella testa del dottore e lo avevano spinto ad indagare la storia del popolo al quale lui stesso apparteneva. Per riuscire a dare delle risposte era risalito alle origini d’Israele, alla sua genesi. Nei pochi momenti di libertà che il lavoro gli concedeva, dapprima aveva iniziato ad approfondire la Bibbia e ad indagare la vita di Mosè, colui che aveva plasmato il Popolo Eletto. Ben presto, però, quello che era iniziato come un semplice svago divenne una ricerca ossessiva, al punto da assorbirlo oltre tutto il resto, oltre il suo stesso lavoro.

    Quella stessa mattina, turbato e stanco per la notte insonne, si appoggiò allo schienale della poltrona e chiuse gli occhi ripensando a com’era nata quella sua curiosità sfociata in ossessione. Fin dall’adolescenza, Herr Professor era stato attratto da temi religiosi e filosofici. La Bibbia lo aveva da sempre affascinato. Nel corso degli anni aveva letto più volte il Sacro Testo, ma ad ogni rilettura, invece di trovare soddisfazione alla propria curiosità, sempre più domande avevano affollato i suoi pensieri. La figura di Mosè si era impressa nella sua mente fin da bambino e da allora non lo aveva più abbandonato. Il Profeta, la sua nascita e la sua storia lo perseguitavano come un fantasma irrequieto. Soprattutto la narrazione dell’Esodo riportata dal Libro Sacro non lo convinceva mai del tutto. C’erano troppe discordanze ed imprecisioni. Lo stesso Mosè, nella descrizione biblica gli pareva una figura doppia, un Giano bifronte: a volte era descritto come il più mansueto degli uomini, a volte era rappresentato collerico ed irascibile mentre sfogava la sua rabbia contro il popolo. Cosa nascondeva quell’uomo? Chi era veramente il Profeta? Tutto ciò che gravitava intorno alla sua figura era un enigma imperscrutabile, perfino il suo nome. La stessa etimologia del vocabolo " Mosheh " incuriosiva e alimentava i dubbi del dottore.

    Durante le sue ricerche aveva letto che alcuni linguisti avevano proposto una nuova tesi riferita a quel termine che la tradizione biblica traduceva con salvato dalle acque. Secondo loro, infatti, il termine non era di derivazione ebraica, ma risaliva alla lingua egizia e significava bambino, figlio di.

    Aprì gli occhi ed estrasse la Bibbia che teneva nel primo cassetto della sua scrivania. Prese a rileggere i passi che riguardavano l’infanzia di Mosè, mettendoli a confronto con quanto sostenuto nel libro " Il mito della nascita dell’eroe [¹] , dove l’autore affermava che tutti i popoli celebrassero i loro padri fondatori attraverso racconti leggendari. Così era stato per molti eroi: Sargon, Ciro, Romolo, Edipo e fra questi l’autore inseriva anche il nome di Mosè. In pratica la storia della cesta di vimini con il neonato Mosè in balìa delle acque del Nilo, altro non era che una creazione poetica, un romanzo familiare". Pensò che il primo eroe al quale si poteva far risalire un romanzo del genere era Sargon, re di Babilonia, che aveva regnato su quei territori all’incirca nel ventinovesimo secolo a. C. e la cui storia era simile a quella di Mosè. Rilesse alcuni brani che lo dimostravano:

    " Sargon, il re potente io sono. Mia madre fu una vestale, mio padre non l’ho conosciuto … nella mia città Azupirani, che giace sulle rive dell’Eufrate, mia madre la vestale mi concepì. In segreto mi partorì. Mi pose in una cesta di giunchi, chiuse con pece il mio sportello e mi abbandonò alla corrente che non mi sommerse. La corrente mi portò dov’era Akki che attinge l’acqua […] Akki mi trasse fuori dall’acqua, mi allevò come suo figlio […] fece di me il suo giardiniere […] poi la dea Ishtar s’innamorò di me, divenni re [²] ."

    Nonostante le varie differenze annotate, la storia di Mosè emergeva come una variante di quella di Sargon. Quindi, anche l’infanzia del Profeta poteva essere una storia inventata, utilizzata per accrescere il mito del suo protagonista e per garantirgli un’ascendenza ebraica. In tal caso, chi era veramente Mosè? Quale segreto era rimasto celato all’umanità per millenni? Queste domande avevano progressivamente riempito le giornate del dottore, che finì per dedicarsi totalmente alla ricerca della verità sul Profeta.

    Se l’etimologia di " Mosheh non fosse stata ebraica ma egizia e se l’infanzia descritta nella Bibbia fosse stata solo una leggenda? Se Mosè non fosse stato adottato dalla figlia del faraone, ma fosse nato in una famiglia egizia? L’idea che il padre del popolo ebraico potesse essere uno straniero lo tormentava ormai da tempo. Oltre a ciò, se il Profeta fosse stato realmente un egizio, sarebbe sorto un ulteriore quesito: perché un figlio del Nilo avrebbe dovuto mettersi a capo di una folla di schiavi stranieri e lasciare con loro il paese? A questa prima domanda se ne sarebbe aggiunta subito un’altra. L’Egitto era stato fin dai suoi albori un paese politeista, il suo pantheon era sempre stato affollato come un formicaio, quindi, il Profeta, il legislatore del Popolo Eletto, come avrebbe potuto essere egizio se aveva insegnato a Israele un rigoroso monoteismo? Se Mosè fosse stato per davvero un figlio del Nilo avrebbe dovuto educare il suo nuovo popolo ad adorare molti dèi, ma non era stato così. Come conciliare queste incongruenze? Questa domanda lo aveva assillato da molto tempo, almeno fino a quando non scoprì un saggio dei primi anni del novecento dedicato ad un faraone ignoto cancellato dalla storia. Quel testo lo aveva illuminato. La chiave di lettura era proprio quel re, la cui figura era rimasta sconosciuta alla storia per secoli. La sua riscoperta era avvenuta nel corso del XIX secolo grazie al lavoro di alcuni archeologi prussiani. Questi avevano dato un volto al sovrano misterioso che durante la XVIII dinastia era salito al trono d’Egitto imponendo una nuova religione al suo popolo. Quel re oscuro, cancellato dalla storia dai suoi successori a causa della riforma religiosa di cui fu l’artefice, era riemerso dalle sabbie del tempo, passando alla storia con l’epiteto di faraone eretico. Gli studiosi avevano riportato alla luce la vita di colui che aveva rotto le tradizioni millenarie egizie introducendo nel Paese delle Due Terre [³] un rigoroso monoteismo. Il suo regno era durato solo diciassette anni e dopo la sua morte, la nuova religione era stata spazzata via con il suo fondatore, eliminato dalla storia come se non fosse mai esistito. Questo, dunque, l’incipit di una scoperta rivoluzionaria: e se fosse stata quella l’origine dell’Esodo? Non era sicuro di quella tesi, la sua era solo un’ipotesi, non aveva prove concrete. Gli avrebbero creduto? Gli storici lo avrebbero deriso, la Chiesa osteggiato e gli ebrei ripudiato. Inoltre, se la storia di Mosè fosse stata un falso, chi e per quale scopo l’aveva scritta? Il dottore abbandonò la Bibbia sulla scrivania accanto ad altri libri lasciati disordinatamente uno sull’altro. Era in preda ad una profonda crisi: come poteva, lui stesso ebreo, privare Israele del suo eroe più grande ? Che cosa doveva fare? Troppe domande gli affollavano la mente. La sua teoria era come una ballerina in equilibrio sulla punta di un piede [⁴] ", l’equilibrio era precario. Quel dilemma ormai lo attanagliava da mesi, era spaventato e non sapeva come comportarsi. Si diresse verso la libreria. Da un ripiano prese una statuina che rappresentava un uomo con in mano due tavole di pietra, poi proseguì verso lo specchio e rimase a lungo immobile a fissare la sua immagine riflessa. Dopodiché guardò la statuetta e, con sguardo triste, prese la sua decisione: non era ancora il momento di pubblicare il suo scritto.

    Tornò alla scrivania, rivolse per l’ultima volta lo sguardo alla sua opera, poi aprì il cassetto e la ripose al suo interno chiudendo a chiave il tiretto.

    Per divulgare il suo lavoro più sofferto avrebbe atteso tempi migliori.

    AKHENATON

    IL FARAONE ERETICO

    Tebe, 1356 a.C.

    Amenofi III governava da oltre trent’anni l’Egitto. Durante il suo regno la terra dei faraoni aveva raggiunto l’apogeo ed era diventata la più importante e ricca civiltà dell’epoca: nessuno avrebbe osato sfidare la sua potenza. I predecessori del vecchio re avevano sottomesso i regni confinanti ormai ridotti in una condizione di mero vassallaggio. I sovrani asserviti consideravano il faraone un dio incarnato e si rivolgevano a lui come al sole di tutte le terre. Nonostante il prestigio e la potenza raggiunti, però, presto, il Paese delle Due Terre avrebbe subito gravi sconvolgimenti.

    Era il periodo delle gran di piogge, il vecchio re Amenofi III era gravemente malato e il suo regno stava per volgere al termine. Da molti giorni provava ad alleviare il dolore che lo affliggeva bevendo vino mescolato con essenza di papavero, un fiore con proprietà analgesiche proveniente da terre lontane, senza però ottenere risultati soddisfacenti. Il sovrano era fortemente debilitato, delirava, aveva sempre la febbre alta e una tosse secca non gli dava tregua. Era consapevole che non avrebbe vissuto ancora per molto tempo. Sentendo venire meno le forze, convocò al suo capezzale l’erede al trono, il principe Amenofi, il quale, raggiunto dal dispaccio reale, si precipitò dal padre. Presto il corso della storia egizia avrebbe subìto una virata improvvisa. Il sovrano era sdraiato sul letto e respirava a fatica, non si alzava da giorni, il suo peso ormai aveva superato i cento chili. Il talamo reale era circondato da numerose lampade ad olio e decine di candele erano accese per scacciare l’oscurità e la morte, ma parevano avere scarsa efficacia contro quelle forze ostili e minacciose. Il vecchio sovrano sembrava una stella agonizzante avvolta in una costellazione di luci. Con un filo di voce Amenofi III fece avvicinare il principe, il quale si accostò lentamente. Il giovane gli prese la mano e cercò di rassicurarlo dicendogli che presto sarebbe guarito, ma il faraone lo interruppe subito e scuotendo la testa bisbigliò:

    «Figlio, sento che la mia vita sta volgendo al termine, quindi presto tu diventerai faraone. La barca solare è pronta per accompagnarmi nel mio ultimo viaggio; prima di lasciare questo mondo, però, voglio organizzare il futuro del paese. Tu dovrai sposarti. Fatti consigliare da tua madre, lei saprà leggere nel cuore delle pretendenti. La futura regina dovrà essere una persona forte, intelligente e capace, un’autorevole figlia dell’Egitto.»

    Il re parlava a fatica, era stremato. Il dolore lancinante lo fece agitare e il cuore gli iniziò a battere come fosse un rapace inquieto intrappolato in una gabbia troppo piccola. Preoccupato, il principe gli rispose all’istante:

    «Si padre, farò come desideri.»

    Dopodiché tra i due seguì un lungo silenzio. Il vecchio faraone fissò teneramente gli occhi del figlio, sapeva che non lo avrebbe più rivisto. Quegli istanti al giovane principe sembrarono un’eternità. Dopo aver fatto dei lunghi respiri affannosi, l’anziano faraone riprese fiato e aggiunse:

    «Osiride mi sta chiamando dal regno dei morti. Il mio tempo in questa vita sta per volgere al termine, devi affrettarti a scegliere la donna da sposare. La futura regina dovrà generare un figlio maschio per garantire la discendenza della nostra dinastia.»

    «Va bene padre, farò immediatamente convocare a Tebe le migliori donne del paese e ne sceglierò una che sia meritevole di ricoprire il ruolo di regina.»

    Il principe capì che il sovrano era sfinito, allora decise di accomiatarsi per non affaticarlo ulteriormente. Padre e figlio si abbracciarono, poi il giovane uscì dalla stanza, ma appena varcò la soglia avvertì un rantolo provenire dalla camera. Preoccupato, rientrò subito nella stanza e vide gli occhi del sovrano sbarrati, fissavano la stella Sirio dipinta sul soffitto raffigurante un cielo notturno. Il faraone era morto. Addolorato per la perdita del genitore, il giovane principe si abbandonò a un pianto disperato. Era scomparso un grande sovrano, adesso sarebbe diventato lui il nuovo faraone dell’Egitto e il peso del regno sarebbe ricaduto interamente sulle sue spalle.

    Nei giorni seguenti l’Egitto salutò il suo nuovo faraone che salì al trono con il nome di Amenofi IV. Per prima cosa il giovane sovrano organizzò il funerale del padre e ne predispose la mummificazione. Tale procedimento era lungo e complesso. Il corpo di Amenofi III fu portato dagli imbalsamatori nella sala della purificazione situata nel tempio di Karnak . La stanza era lunga e ampia, non aveva finestre eccetto un lucernario sotto il quale era posta una lastra inclinata che serviva per far defluire a terra i liquidi del cadavere. Gli imbalsamatori rimossero il cervello del defunto inserendo un uncino metallico nelle narici, poi spappolarono l’organo celebrale che uscì dai dotti nasali ridotto in poltiglia. Dopodiché, con un coltello di selce, fecero un’incisione nell’addome e asportarono gli organi interni: il fegato, i reni, lo stomaco e gli intestini che furono riposti nei vasi canopi. Anche dopo l’estrazione di questi organi rimaneva ancora all’interno del corpo dell’umidità, per questo motivo il cadavere fu ricoperto con il natron, un composto di sale naturale e sodio. Le spoglie furono poi lasciate in quello stato per circa quaranta giorni. Fuoriuscita tutta l’acqua, il corpo fu avvolto in un lenzuolo funebre e coperto con teli di lino sotto i quali furono posti amuleti magici e talismani che assicuravano l’immortalità al faraone. Solo il cuore, per gli egizi sede della ragione, fu lasciato nel corpo perché potesse leggere le formule magiche che avrebbero rianimato il cadavere nell’aldilà. Settanta giorni dopo la morte il corpo fu pronto per il rito funebre.

    Il corteo mortuario si riunì lungo la riva occidentale del Nilo per dare l’ultimo saluto al defunto. Durante il rito funebre, il generale dell’esercito, Horehmeb, volle onorare la salma reale con una grandiosa parata militare. Infatti, era stato solo grazie al vecchio re se il giovane era riuscito a scalare in poco tempo la gerarchica militare fino a raggiungerne il vertice. Tutto era pronto. Nell’area antistante il tempio marciarono numerose schiere di soldati egizi; cinque divisioni, ognuna contraddistinta dal nome di una divinità. Per esaltare la potenza dell’Egitto, sfilarono centinaia di prigionieri di guerra: libici dal carnato olivastro avvolti in mantelli cremisi, nubiani del colore dell’ebano vestiti con pelle di leopardo, ittiti dai capelli lunghi e lisci e un gruppo di prigionieri dei misteriosi paesi nordici. La loro pelle era bianca, quasi argentea, avevano i capelli color rame e gli occhi di un azzurro trasparente, sembravano provenire da un altro mondo. Al centro della parata si stagliava la figura di Horehmeb. Il generale camminava accanto al nuovo faraone per dimostrare a tutti la sua lealtà; non c’erano dubbi, il militare sarebbe rimasto fedele alla dinastia regnante. Dopo un lungo percorso, il corteo giunse nella Valle dei Re e si fermò di fronte la tomba costruita per il faraone defunto. I sacerdoti erano pronti per svolgere la funzione dell’Apertura della Bocca, grazie alla quale Amenofi III sarebbe stato in grado di pronunciare le formule magiche del " Libro dei Morti" e superare così gli ostacoli che avrebbe incontrato lungo il cammino nell’aldilà. I religiosi accesero i bracieri ricolmi d’incenso e sacrificarono alcuni animali, infine il gran sacerdote officiante sollevò il bastone rituale toccando la bocca del re: Amenofi III era pronto per l’immortalità.

    Passati i giorni di lutto, il nuovo faraone eseguì immediatamente le ultime volontà del padre e convocò nel palazzo reale di Malkata numerose ragazze provenienti da ogni angolo del paese, tra le quali avrebbe scelto la futura regina d’Egitto. Dopo aver esaminato le numerose pretendenti, il re provò un senso di delusione: nessuna lo aveva entusiasmato. Rimanevano da vedere solo tre ragazze, ormai aveva perso le speranze di trovare una donna adatta a ricoprire il ruolo di regina. Il sovrano era rassegnato, avrebbe scelto una delle tre aspiranti solo per generare un erede legittimo. La prima proveniva dal Kush, aveva la pelle color della notte, occhi gran di e labbra carnose, ma pesava quasi cento chili e aveva un fondoschiena enorme; la seconda giungeva dalla città di Menfi, era scarnita, esangue e senza collo. Il faraone le guardò con aria assente, poi annoiato le congedò. Doveva vedere solo l’ultima pretendente che proveniva dal paese di Akhimim, un centro lontano da Tebe. L’araldo di corte fece entrare nel salone delle udienze Nefertiti. La ragazza avanzò tra le colonne che si ergevano come alberi di una grande foresta. Amenofi IV era sul trono, seduto sopra un grande cuscino di piume di struzzo. La giovane gli si avvicinò lentamente e, quando giunse di fronte a lui, lo fissò negli occhi con uno sguardo talmente penetrante che il re ne rimase folgorato, tant’è che esclamò:

    «Splendida!»

    Nefertiti si era presentata al cospetto del sovrano con un vestito aderente che ne esaltava il fisico tonico e snello. Portava una collana di pietre preziose al cui centro spiccava un grande lapislazzulo, il monile le cadeva sui seni rotondi e proporzionati. Era entrata nella sala dei ricevimenti con passo sicuro, ma nei suoi occhi si leggeva la tensione per quell’incontro importante. La ragazza di Akhimim aveva la pelle levigata e liscia, le guance color ambra le facevano risaltare gli occhi fieri ed impavidi. Il suo sguardo era profondo quanto gli abissi marini e un naso perfetto sovrastava labbra calde ed invitanti. Nefertiti, il cui nome significa " la bella è arrivata" , era la donna che ogni uomo sognava di avere al proprio fianco, e anche il faraone fu abbagliato dalla sua avvenenza. All’improvviso tutti i desideri del re si riunirono in un solo pensiero, Nefertiti, ecco colei che sarebbe diventata la regina d’Egitto. La giovane era figlia di Ay, un alto dignitario di corte già consigliere del vecchio re. Il funzionario era il fratello della moglie del faraone defunto, era lo zio del nuovo sovrano, quindi, il padre di Nefertiti era una delle persone più potenti della "Terra di Kemet [⁵] ".

    Alcuni giorni dopo quell’incontro fatale, nel tempio di Karnak , furono celebrate le nozze. Quel giorno, Nefertiti era bellissima, gli occhi contornati dal kohl la facevano assomigliare alla dea Iside. La sua pelle risplendeva di luce, aveva creato quell’effetto spalmandosi sul corpo una crema composta di miele e resina, sulla quale aveva sparso dei finissimi gran elli di polvere d’oro.

    Il cortile antistante al tempio era gremito dalle persone più eminenti del paese. Le guardie erano tese, sapevano che se fosse accaduto qualcosa alla futura coppia reale, avrebbero pagato con la vita i propri errori. La gente iniziò a inneggiare i nomi di Amenofi e della futura regina, allora, il re abbracciò Nefertiti, la baciò e la folla esplose in un fragoroso boato, poi i due giovani entrarono nel tempio. Al loro passaggio i servitori accesero le torce e agitarono i flabelli. La coppia attraversò tutto il santuario fino a raggiungere il lago sacro, dove Maia, il Primo profeta di Amon, avrebbe celebrato il loro matrimonio. Maya li accolse con un inchino e, dopo aver proclamato le frasi di circostanza, iniziò la cerimonia. Versò dell’olio rituale sul capo degli sposi, poi li invitò ad immergersi nel lago sacro. Amenofi e Nefertiti entrarono nell’acqua tenendo in mano la situla [⁶] , la riempirono e versarono il liquido purificatore ognuno rispettivamente sulla testa dell’altro, poi il re pose sulla testa dell’amata la corona d’Egitto. Erano ufficialmente marito e moglie, Nefertiti era la nuova regina della Terra di Kemet.

    A quel tempo il paese dei faraoni era la più grande potenza mondiale, nessuno poteva competere con la sua forza. Amenofi III aveva lasciato al figlio un impero ricco e prospero. L’Egitto sembrava il paese delle meraviglie, possedeva tutto: un esercito invidiabile, splendide città, templi incantevoli e monumenti grandiosi. Il commercio era florido, l’agricoltura dava raccolti abbondanti e i forzieri erano ricolmi d’oro. Nonostante ciò il futuro del faraone era pieno d’incognite perché da alcuni anni era sorto nel paese un nuovo centro di potere: il clero di Amon. Dopo la morte del vecchio sovrano, costoro cercarono di approfittare dell’inesperienza del nuovo faraone per aumentare la propria autorità. Per regnare indisturbato, Amenofi il giovane avrebbe dovuto obbligatoriamente scontrarsi con loro. Il faraone non doveva più temere un attacco da paesi stranieri, ora la sfida giungeva dall’interno, la minaccia arrivava dal clero guidato da Maia. Presto ci sarebbe stata la resa dei conti, la guerra civile era dietro l’angolo. Chi l’avrebbe spuntata? Chi avrebbe vinto, Amenofi IV o i sacerdoti tebani?

    Il faraone regnava dal palazzo reale di Malkata a Tebe, città dell’Alto Egitto. Quella dimora sontuosa era stata edificata dal vecchio sovrano Amenofi III ai confini del deserto, lungo la parte occidentale del Nilo. Si diceva che l’avesse costruita come pegno d’amore per la sua regina, in realtà l’aveva edificata in quel luogo isolato per sfuggire al controllo delle spie amoniane. La residenza era immensa e composta da più edifici: vi erano cortili, portici, magazzini e giardini con piccole vasche piene di pesci. Malkata era un vero e proprio capolavoro. Un lago artificiale circondava la reggia e, grazie alla presenza di quello specchio d’acqua, nessuno avrebbe potuto avvicinarsi senza essere scoperto. Grazie a questi accorgimenti il clero di Amon non sarebbe più venuto a conoscenza delle mosse del faraone. Presto dalla sua fortezza il nuovo re avrebbe affrontato il temibile avversario per sottometterlo. Amenofi IV voleva essere il demiurgo di un nuovo mondo, perciò elaborò una strategia per indebolire i suoi avversari. All’interno della Corte, però, non aveva collaboratori fedeli, quindi si affidò all’unica persona della quale si poteva fidare: Nefertiti.

    Una sera come tante altre la coppia reale si stava rilassando passeggiando nei giardini della propria residenza. Quella sera la luna era alta nel cielo e la sua luce intensa si rifletteva sul volto della regina rendendola ancora più affascinante. Nefertiti indossava una parrucca appariscente, gli occhi erano pitturati di nero e indossava due stupendi orecchini di perle. Al contrario della moglie, il giovane faraone era poco avvenente. Anche se più alto della media, era di corporatura esile e poco atletico. Nel su volto allungato, gli occhi erano impercettibili fessure e un naso piccolo spariva al cospetto di due gran di labbra carnose. Nonostante il suo aspetto poco gradevole, però, aveva un carattere carismatico e la sua presenza trasmetteva sicurezza. Era tenace e testardo e la sua scarsa prestanza fisica era sopperita da una mente vulcanica e creativa. Tuttavia aveva un grande difetto: si credeva infallibile e raramente accettava consigli o cambiava idea su decisioni già prese.

    Quella sera, durante la passeggiata, dopo aver scherzato sul modo sensuale con il quale Nefertiti mangiava i fichi, il faraone, all’improvviso, cambiò espressione e il suo volto si fece serio. Sapendo che si poteva fidare solo di lei, decise di confidarle i suoi progetti futuri; l’intelligenza e le capacità della regina gli sarebbero tornate utili:

    «Mia cara, – asserì con tono grave il faraone – nel fianco dell’Egitto è conficcata una spina dolorosa: il clero di Amon. Negli ultimi anni, i seguaci del dio con la testa di ariete hanno acquisito troppo potere. Devo risolvere questo fastidioso problema, altrimenti, presto, quegli sfrontati metteranno in discussione la mia autorità. Gran parte dei tributi confluisce nelle loro casse ed essi se ne servono per controllare il paese, limitando così il mio potere.»

    «Lo so mio sovrano - rispose la regina fissandolo negli occhi – Sono come dei parassiti, succhiano il sangue all’Egitto e accumulano ricchezze per raggiungere i loro scopi. Devi porre fine al loro comportamento inaccettabile. Cosa farai per contrastarli?»

    «Quei profittatori non devono agire indisturbati - aggiunse il faraone con lo sguardo che brillava - Mio padre aveva già mostrato una certa insofferenza per la loro impudenza, devo proseguire la sua opera, anzi devo potenziarla. Voglio realizzare una grande riforma religiosa che limiterà il loro potere.»

    «Giusto! Prepariamoci allo scontro - affermò Nefertiti mentre sfiorava i braccialetti che tintinnavano delicatamente sopra il suo polso - Sarà una lunga battaglia e non dovrai essere indulgente come invece lo furono i tuoi predecessori.»

    «Non temere, presto si pentiranno di aver sfidato il poter del dio incarnato – aggiunse sogghignando il re – Schiaccerò quegli infami, ridarò vigore ad un culto ormai dimenticato da secoli, esalterò Aton, il Dio sole che dispensa la vita. Aton eclisserà Amon.»

    Il re osservò la regina, erano in completa sintonia. Si avvicinò a lei e la baciò sulla bocca, poi le chiese di aspettarlo lì perché aveva una sorpresa per lei. Dopo pochi istanti ricomparve nel giardino, si avvicinò facendole chiudere gli occhi e le porse un piccolo contenitore. Nefertiti lo prese, tolse il coperchio e al suo interno vide un gattino rosso. Il faraone le diede un altro bacio, poi le sussurrò in un orecchio:

    «Si chiama Orast-Aton.»

    Era il tipico gatto egizio, elegante e affettuoso. La sua particolarità era il colore, infatti, era raro per un gatto della sua razza avere delle gradazioni rossastre. Era magro, la testa leggermente allungata terminava con gran di orecchie arrotondate, aveva splendidi occhi a mandorla e lunghe zampe esili. Nefertiti se ne innamorò all’istante.

    I felini erano molto apprezzati in tutto l’Egitto, tant’è che gran parte della popolazione ne possedeva uno; per lo più erano utilizzati per difendere le scorte di cibo dai topi e per evitare che i serpenti entrassero nelle case. Il gatto era venerato in tutto l’Egitto, l’amore per quest’animale culminava nell’adorazione della dea Bastet, raffigurata come una gatta selvatica del deserto che proteggeva l’Egitto dai suoi nemici.

    Nefertiti sfiorò delicatamente il micio e sorrise, poi, con sguardo adorante, si rivolse al marito sussurrandogli:

    «Grazie, è splendido.»

    Poi lo baciò, dapprima dolcemente, quindi con ardore e almeno per quella sera il progetto del faraone fu dimenticato.

    I giorni seguenti, il re decise di mettere in pratica le sue idee. Per prima cosa avrebbe fatto costruire una serie di statue colossali per essere glorificato in tutte le città d’Egitto. I nuovi monumenti dovevano differenziarsi dalle precedenti sculture e mostrare a tutti la sua potenza. Per eseguire quella rivoluzione creativa, però aveva bisogno di un artista geniale. Gli tornò alla mente il vecchio scultore che aveva costruito i colossi del tempio funerario di suo padre, eretti quando lui era ancora un bambino; erano statue magnifiche, quasi degli esseri viventi. Il nome dello scultore era Min e aveva una bottega nel centro di Tebe. Il re decise di inviare un funzionario imperiale nel suo laboratorio per convocarlo a Malkata . Quella stessa mattina un rappresentante della corona giunse nella bottega dell’artigiano, era accompagnato dalle guardie per evitare qualsiasi opposizione dell’interessato. L’ambasciatore del re si aspettava di incontrare un uomo anziano ma, giunto sul posto, trovò a intagliare la pietra solo un ragazzo che al massimo poteva avere vent’anni. Il funzionario gli disse che voleva incontrare l’architetto Min. A quella richiesta, il giovane si adombrò e con aria triste rispose:

    «Mi dispiace, ma non è più possibile per nessuno parlare con mio padre, – il giovane fece una pausa prolungata e continuò dicendo – purtroppo, dopo una lunga malattia, è spirato alcune lune fa.»

    Noncurante del disagio del giovane, l’inviato imperiale chiese al ragazzo chi fosse l’autore dei capolavori esposti nella bottega. Era rimasto incantato da quelle sculture, soprattutto da alcune statue gigantesche in mostra in fondo alla stanza.

    «Queste opere sono di Thut-Moses.», asserì preoccupato il giovane lavoratore.

    Il capo delegazione, incuriosito, chiese dove fosse lo scultore. Il giovane artigiano lo guardò per la prima volta negli occhi e intimorito affermò:

    «Sono io Thut-Moses!»

    Il funzionario del re lo guardò meravigliato. Come poteva un essere così minuto creare quei capolavori giganteschi? Stupito dai misteri dell’arte, l’ambasciatore ordinò al giovane di seguirlo subito a Malkata perché l’imperatore voleva incontrarlo.

    Thut-Moses era nervoso, non aveva mai visitato il sontuoso palazzo reale e non aveva mai visto da vicino il Dio incarnato. Prima di uscire dalla sua bottega e seguire quell’imprevisto stuolo di persone, prese con sé una delle sue opere più belle: l’avrebbe donata al faraone. Con quel gesto desiderava ringraziarlo per averlo convocato a Malkata e, allo stesso tempo, voleva mostrargli quello che era capace di fare con la pietra. Giunto davanti al palazzo reale rimase meravigliato: Malkata era una costruzione incantevole. Il lago che circondava la reggia brillava di luce, i raggi solari parevano risplendere sopra un mare di specchi. Thut-Moses giunse nella sala del trono e vide il faraone seduto sullo scranno reale, però, per una questione di sicurezza, le guardie non lo fecero avvicinare. Lo scultore non aveva il coraggio di guardare nel volto il figlio di Dio, era teso, quasi spaurito. Prese il dono che aveva con sé e, tramite uno schiavo, lo consegnò al re. Amenofi esaminò attentamente il regalo: era un contenitore per essenze profumate con il coperchio a forma di barca; l’opercolo era appoggiato sopra un cubo realizzato in alabastro, con decorazioni di foglie d’oro, ambra, avorio e paste vitree. Il re rimase stupefatto dalla bellezza di quell’oggetto. Forse Thut-Moses era davvero la persona giusta per attuare la rivoluzione artistica. Per approfondirne la conoscenza decise di porgli alcune domande, alle quali il giovane rispose con umiltà e sottomissione. Amenofi rimase sedotto dalla semplicità del ragazzo, quindi decise di accennargli il progetto artistico al quale lo scultore avrebbe dovuto dare forma:

    «Ho in mente un programma che rivoluzionerà l’arte egiziana – dichiarò con orgoglio il re – Voglio che sia elaborata una nuova iconografia, cambierò sia le forme sia il contenuto di ogni opera. Se ne sarai capace, diventerai il braccio di questa rivoluzione epocale.»

    Colto impreparato dalle parole del re, lo scultore rimase in silenzio, poi sul volto gli apparve un timido sorriso. Era onorato di poter lavorare per lui, ne era sicuro, lo avrebbe stupito riuscendo a dare forma a quel progetto rivoluzionario:

    «Vostra Maestà – dichiarò Thut-Moses con un impeto d’orgoglio – Eseguirò le Vostre istruzioni alla lettera, curerò ogni dettaglio per non deluderVi. Voi sarete la mente della riforma e io ne sarò l’umile braccio.»

    «Se ti dimostrerai all’altezza di questo compito, sarai nominato architetto reale - affermò il sovrano mentre si alzava dal trono – Voglio rivoluzionare il significato della parola arte. Guardando le sculture che mi raffigureranno, tutti dovranno capire di essere di fronte al figlio dell’Onnipotente. Le statue dovranno avere forme nuove e non dovrò avere attributi né maschili né femminili, proprio come il figlio di Dio. Lo stesso farai con le raffigurazioni della regina Nefertiti, la quale dovrà essere rappresentata in tutta la sua bellezza. Desidero che siano raffigurate anche le scene d’intimità familiare. Il popolo dovrà adorare Aton, il suo rappresentante sulla terra e tutta la sua discendenza.»

    Mentre il faraone parlava, Thut-Moses annuiva, aveva capito a pieno quello che Amenofi pretendeva da lui e ne era entusiasta.

    «Ho già in mente il primo lavoro da commissionarti, – affermò con tono autorevole il re - una lastra di oro purissimo, nella quale forgerai il simbolo di Aton: un sole sorgente. Dall’astro dovrà scaturire un’infinita di raggi culminanti in mani che tengono fra le dita il simbolo della vita: l’ ankh . Tra pochi giorni ritorna da me con il lavoro compiuto; se l’opera sarà di mio gradimento, lavorerai al mio fianco.»

    Thut-Moses accolse con entusiasmo quella sfida, non avrebbe deluso il faraone.

    Alcuni giorni dopo quell’incontro, lo scultore tornò a Malkata con l’opera che gli era stata commissionata. Il re rimase sbalordito da tanta celerità e magnificenza. Non ebbe dubbi: Thut-Moses era la persona di cui aveva bisogno. Al giovane scultore furono affidati i lavori per edificare a Tebe il tempio in onore del disco solare, il Gem-pa-Aton . L’edificio fu costruito a oriente del sito sacro di Karnak . Dietro suggerimento del re, Thut-Moses orientò l’asse della nuova struttura verso est, anziché verso occidente, come invece era disposto il santuario di Amon. Il segnale mandato era inequivocabile: il primo rilevante progetto edilizio del nuovo faraone volgeva le spalle al dio di Tebe.

    La riforma del sovrano non riguardò solo l’arte e l’edilizia. Il re attuò anche un profondo cambiamento politico non prevedibile solo alcuni anni prima. Il secondo anno di regno, il faraone dirottò i fondi che spettavano al clero tebano nelle sue casse, togliendo così linfa vitale ai suoi avversari. Fu l’inizio della riforma religiosa che avrebbe sconvolto l’Egitto. Visti i profondi cambiamenti che avrebbero interessato tutto il paese, il faraone decise di tutelare la propria incolumità costituendo un corpo speciale, chiamato I Cento Leoni dal numero e dal coraggio dei suoi membri. Era un corpo d’elite composto di uomini fidati, pronti a sacrificare la propria vita per difendere quella del faraone. I Cento Leoni non erano inquadrati nell’esercito, prendevano ordini direttamente dal re e avevano il compito esclusivo di proteggere lui e la sua famiglia, erano esentati dalle procedure della giustizia ordinaria e da quella militare, solo il re poteva giudicarli. Il loro comandante si chiamava Raneb, un guerriero indomito che proveniva dal delta del Nilo, dall’antica città un tempo chiamata Avaris. Era giovane, anche se nessuno sapeva dargli un’età precisa. Alto e muscoloso, aveva uno sguardo glaciale e il suo volto non tradiva emozioni. Una lunga cicatrice gli solcava il petto da parte a parte, ricordo di un duello mortale con un libico. Era un guerriero audace e con un temperamento forte, nel corso della sua vita aveva più volte visto la morte in faccia ma era sempre riuscito a sconfiggere i propri avversari. I suoi uomini gli erano fedeli, come un cane lo è con il proprio padrone. Il faraone poteva dormire sonni tranquilli, nessuno avrebbe osato sfidare l’ira dei Cento Leoni.

    Il clero tebano rimase allibito per i provvedimenti presi dal nuovo faraone: Amenofi IV era un re ostile. Maia, il Primo profeta di Amon, la carica più elevata nella gerarchia dei sacerdoti tebani, era inquieto. Tuttavia, dentro di sé, una cosa lo rincuorava: sapeva di poter contare sull’appoggio della popolazione; la folla non si sarebbe mai schierata contro gli dèi della tradizione. Per evitare una rivolta armata, presto, Amenofi IV avrebbe dovuto fare marcia indietro e restituire i fondi sottratti al dio dalla testa d’ariete, altrimenti sarebbe scoppiata una guerra civile.

    Tebe,1353 a.C.

    Era il terzo anno che regnava il nuovo faraone. Si avvicinava la stagione del raccolto e Maya stava organizzando i preparativi per la Festa di Opet . Stava istruendo un adepto per il cerimoniale del giorno seguente, infatti, l’indomani quel giovane sarebbe stato nominato Quarto profeta: il suo nome era Hapu.

    «Fratello, – disse con voce impostata il primo profeta - è giunto il momento di mostrarti la statua di Amon. Questo è un grande privilegio perché solo i quattro profeti possono vedere il suo volto.»

    Da molti anni Hapu aspettava quel momento. Era emozionato, aveva le mani madide di sudore: poter vedere il volto della divinità gli metteva i brividi. Passati i piloni che introducevano al luogo di culto, i due religiosi proseguirono fino al sancta sanctorum , dove era situata la statua del dio con la testa d’ariete. Giunti nella sala della divinità, videro due uebu [⁷] che stavano purificando gli oggetti sacri. Su un altare, alla sinistra del sacello divino, era riposta la pelle di leopardo che il primo profeta utilizzava durante le cerimonie sacre. Hapu si diresse nella parte più buia della stanza, poi alzò gli occhi verso la figura divina. La visione del dio gli riempì lo sguardo di gioia, la sua vita piena di prove e rinunce era stata premiata. Hapu era un ragazzo di ventidue anni, alto e magro, indossava una lunga tunica cremisi e sandali color cuoio. La testa era completamente rasata, gli occhi piccoli celavano uno sguardo attento e acuto, aveva un naso aquilino e una bocca ampia con labbra sottili. Il discepolo ascoltava rapito il suo maestro, la saggezza e la potenza del primo profeta erano proverbiali in tutta la nazione. Maia gli mostrò i preparativi che servivano per celebrare la Festa di Opet : il tempio doveva risplendere ed essere purificato, i sacerdoti dovevano preparare, abbigliare e lavare le statue degli dèi; dopodiché rammentò al suo allievo i rituali che avrebbe dovuto eseguire il giorno seguente. Voleva evitare che durante la festa ci fossero degli inconvenienti. Mentre gli mostrava i compiti da eseguire l’indomani, si accorse che il suo discepolo era agitato, quindi cercò di tranquillizzarlo:

    «Non ti preoccupare! Domani andrà tutto bene. All’alba sarai nominato quarto profeta, così potrai trasportare la statua di Amon nella processione cerimoniale fino a Luxor . Ricorda, questo è un onore riservato a poche persone, sono sicuro che non mi deluderai.»

    Hapu era agitato, non ebbe neanche la forza di rispondere. Annuì con il solo movimento del capo, poi continuò ad ascoltare Il primo profeta che descriveva la cerimonia:

    «La Festa di Opet è la ricorrenza più importante dedicata ad Amon. Durante la solennità i monumenti della triade tebana, composta dalla statua di Amon, da quella della sua sposa Mut e dal loro figlio Khonsu usciranno dal tempio di Karnak e saranno trasportati nel tempio di Luxor

    «Maestro, sono preoccupato, e se sbagliassi qualcosa?»

    «Non ti agitare, sei un ragazzo capace e conosci bene il rituale – disse Maia rassicurando il giovane – Vedrai che andrà tutto bene.»

    «Speriamo! – affermò Hapu sospirando – Sono teso, alla cerimonia sarà presente tutto il popolo.»

    Era vero, non potendo entrare nel tempio, la folla aspettava con trepidazione quella ricorrenza per consultare le divinità come un oracolo. L’indomani le statue sarebbero sfilate nella processione sacra e il popolo gli avrebbe posto le domande, quindi in base alla loro oscillazione avrebbero ottenuto il vaticinio.

    «Le tre statue che rappresentano le divinità – ripeté il maestro – devono essere trasportate a spalla dai sacerdoti. Tu avrai l’onore di portare l’arca con la statua più amata, quella di Amon. Dovrai stare molto attento a non farla cadere altrimenti per l’Egitto si prospetteranno tempi nefasti. Una volta arrivato al pontile isserai la scultura sopra la "Barca Sacra " che navigherà lungo il corso del Nilo fino a raggiungere più a sud il tempio di Luxor . Durante il tragitto gli dèi riceveranno le offerte dei fedeli nei tempietti votivi disseminati lungo le rive del fiume. Quando le statue arriveranno a destinazione dovranno essere deposte nelle celle del tempio. Qui, il faraone, dopo essere stato purificato, prenderà importanti decisioni per il governo del paese traendo ispirazione dagli oracoli degli dèi, poi raggiungerà la "Camera della Rinascita " dove rinnoverà il mistero del concepimento divino. Alla fine della cerimonia tornerà a Karnak riconfermato nella sua origine divina.»

    Il giorno successivo Hapu era eccitato perché, prima della celebrazione della festa vera e propria, sarebbe stato nominato quarto profeta. La notte appena trascorsa aveva dormito poco, alcuni incubi gli avevano fatto compagnia durante il sonno. Nell’ultimo delirio onirico aveva visto Tebe in fiamme, la statua di Amon decapitata e il suo maestro morto in esilio. La mattina aveva cercato di spazzare via quei fantasmi notturni. Quando si alzò, i primi raggi inondavano già la sua camera, allora si preparò velocemente: infilò la tunica cremisi, calzò i sandali di pelle e si lavò la faccia con l’acqua che teneva in una giara vicino al letto. Prima di partire salutò amorevolmente i genitori che gli avevano permesso di studiare. Hapu abitava ancora nella loro casa, con il padre e la madre, presto, però, grazie al nuovo incarico, avrebbe potuto comprare un’abitazione tutta sua. Pensando che i suoi desideri sarebbero diventati realtà quello stesso giorno, un’onda di pace, calda e avvolgente, placò la sua tensione. Lo aspettava una vita di onori e gratificazione, quindi, raggiante, si apprestò a raggiungere il tempio. Giunto a Karnak vide il suo maestro che lo aspettava sorridente. Maia era soddisfatto per la scelta del nuovo quarto profeta, in Hapu rivedeva se stesso da giovane. Quel ragazzo aveva la medesima determinazione, la solita grinta e soprattutto il desiderio di arrivare in alto, quasi ad essere un faraone. Entrarono insieme nel tempio, il fumo dell’incenso saliva da un bacile di pietra e aveva ormai raggiunto il soffitto. Sembrava che gli uebu volessero saturare l’aria della sala per forzare le coscienze e predisporre i presenti ad abbandonarsi alla volontà di Amon. Tutto era stato preparato meticolosamente, non si era verificato nessun intoppo. Il secondo profeta, Horihore, un uomo anziano con la pelle rugosa come quella di una tartaruga, aveva acceso le torce e purificato con oli e profumi la sala. Gli uebu aspettavano Hapu con i flabelli in mano in segno di rispetto; al passaggio del giovane iniziarono a muovere i ventagli e la brezza artificiale che ne scaturì accarezzò delicatamente la sua testa rasata. Tutto era perfetto. Troppo perfetto. Il primo profeta indossò la pelle di leopardo, indispensabile per dare inizio alla cerimonia; a breve avrebbe recitato la formula per la nomina di Hapu. All’improvviso, in lontananza, si sentì un rollio di tamburi cadenzato da un incedere di passi che diventava sempre più impetuoso. Hapu, attonito, si domandò cosa stesse accadendo e, con aria preoccupata, si guardò attorno. Il mistero trovò una rapida risposta quando nella sala entrò il sovrano, seguito dai Cento Leoni. Amenofi IV indossava il Nemes , il copricapo di lino che indicava la natura divina dei faraoni. Il tessuto gli avvolgeva la testa aprendosi in due ampie volute laterali per poi ricadere sulle spalle. Era decorato alternativamente con i colori blu e oro e al suo centro era posto l’ureo con forma di serpente che aveva il compito di proteggerlo dal male. Il sovrano era a petto nudo, il fisico per nulla atletico, appariva molliccio; sotto la vita portava un gonnellino di lino bianco e calzava gli immancabili sandali di cuoio rifiniti d’oro. Il faraone interruppe la cerimonia e in un istante il sogno di Hapu svanì nel nulla. La sua vita stava per prendere una piega non prevista. Amenofi IV, agitando il flagello, ordinò di fare silenzio, poi fece bloccare le uscite per evitare che i profeti fuggissero, dunque si avvicinò lentamente a Maia. Lo fissò negli occhi guardandolo con disprezzo: era la resa dei conti.

    «Caro Maia finalmente ci rincontriamo – affermò il re con tono secco – Dopo che hai celebrato le mie nozze pensavo fossi fuggito dall’Egitto, - asserì il sovrano con tono ilare – invece eri qui nella tua tana a tramare contro di me. Vero?»

    «No Vostra maestà – rispose quasi balbettando Maia - Io sono un suddito fedele. Non oserei mai schierarmi contro di Voi.»

    «Tu puoi incantare il popolo, ma non puoi prenderti gioco di me – ripeté il faraone – Grazie ai tuoi sotterfugi hai trasformato il tempio di Karnak in un covo di vipere. Lo so che complotti contro di me per governare subdolamente il paese. Ora basta! Hai finito d’ingannare i fedeli e non ti permetterò più di fargli adorare le tue false divinità. È giunto il momento che la gente conosca la verità e preghi l’unico vero Dio: Aton.»

    «Figlio divino e gioia dell’Egitto – disse Maia utilizzando le sue doti di abile oratore – Cos’è questa novità? Perché Volete schierarVi contro chi è stato sempre un Vostro umile servo?»

    Il re irritato da quella sfacciataggine avanzò puntando il dito contro il suo rivale e rispose con voce tonante:

    «Voi umili servi? Non scherzare! Il tempio di Amon è l’istituzione più ricca del paese. I tributi che avete ricevuto dai miei predecessori vi hanno permesso di creare un impero dentro l’Egitto e tutto ciò ha contribuito a estendere la vostra influenza in ogni settore del paese. É giunto il momento che tutto torni alla normalità. Il clero deve essere solo un mio contorno e i sacerdoti devono diventare degli

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