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La Giungla
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E-book576 pagine9 ore

La Giungla

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Info su questo ebook

Volume numero 8 della collana "Classici" a cura di Pierluigi Pietricola.

A seguito di disordini scoppiati nel quartiere dei macelli di Chicago, Upton Sinclair ricevette da un settimanale socialista l'incarico di documentare le condizioni di vita degli operai impiegati nel trust della carne.

Le testimonianze raccolte, l'osservazione antropologica e l'acuta analisi ambientale deflagrarono ne "La Giungla", in cui la storia dell'emigrante lituano Jurgis Rudkus e la discesa agli inferi della sua famiglia, l'infrangersi del sogno americano e il crudo realismo della narrazione incentrato sulle pratiche insalubri di lavorazione e confezionamento della carne messe in atto dalle industrie conserviere si abbatterono sui lettori, andando a stravolgere il mondo della narrativa stelle e strisce.

LinguaItaliano
Data di uscita24 ott 2019
ISBN9788869345852
La Giungla
Autore

Upton Sinclair

Spinto fin dalla giovinezza verso ideali socialisti, Upton Sinclair ottenne un clamoroso successo con il romanzo La giungla (1906), sulla condizione dei lavoratori ai mercati di bestiame di Chicago. Unendo la sua attività di romanziere a quella di scrittore di pamphlet politici, affrontò tutti gli aspetti negativi della società americana in saggi e romanzi.

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    Anteprima del libro

    La Giungla - Upton Sinclair

    © Bibliotheka Edizioni

    Via Val d’Aosta 18, 00141 Roma

    tel: +39 06.86390279

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, ottobre 2019

    Isbn 9788869345845

    e-Isbn 9788869345852

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale,

    del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta

    dell’editore e con citazione esplicita della fonte

    Traduzione di Alessandro Pugliese.

    Progetto grafico e disegno di copertina:

    Brozzolo Riccardo per Eureka3 S.r.l.

    www.eureka3.it

    Upton Sinclair

    Upton Sinclair (20/09/1878-25/11/1968) fu spinto fin dalla giovinezza verso ideali socialisti.

    Come narratore ottenne un clamoroso successo fin dall’inizio con il romanzo La giungla (The Jungle, 1906), sulla scandalosa condizione dei lavoratori ai mercati di bestiame di Chicago. Unendo la sua attività di romanziere a quella di scrittore di pamphlet politici e di appassionato assertore del socialismo, Sinclair affrontò tutti gli aspetti negativi della società americana in saggi, romanzi e racconti di robusta vena narrativa: una produzione che occupa circa 90 volumi.

    Il romanzo più rivoluzionario della narrativa del 1900. Un best seller mondiale, tradotto in ventisette lingue, capace di scuotere dalle fondamenta l’intera nazione americana

    Ai lavoratori americani

    1

    Più o meno alle quattro del pomeriggio, dopo che la cerimonia si era conclusa, cominciarono a giungere le vetture. Per tutto il tragitto erano state scortate da una folla enorme, pungolata dall’esuberante effervescenza di Marija Berczynskas. Il buon esito della festa, infatti, la responsabilità che ogni cosa filasse per il verso giusto – secondo le antiche tradizioni – cadeva totalmente sulle sue larghe spalle, anche se, a furia di correre come una dannata di qua e di là per tirare da parte chi si metteva in mezzo, e a forza di impartire ordini e moniti a questo e a quello con la sua voce roboante, Marija aveva finito per essere troppo occupata a badare che tutti si comportassero come si doveva per curarsi di se stessa. E così aveva lasciato la chiesa per ultima, e aveva dovuto intimare al vetturino di filare più alla svelta che potesse per permetterle di arrivare alla sala del ricevimento prima degli altri. Il vetturino aveva mostrato idee tutte sue al riguardo, e quindi Marija si era vista costretta a sporgersi fuori dall’abitacolo e urlargli cosa ne pensava sul suo conto, dapprima in lituano – lingua che il poveraccio ignorava del tutto – e poi in polacco. L’uomo a quel punto aveva capito bene il messaggio, ciononostante, potendo contare su una posizione elevata rispetto a Marija, non si era scomposto più di tanto e aveva persino osato risponderle a tono, con il risultato di appiccare una specie di furioso battibecco che si era protratto fino alla fine di Ashland Avenue, mentre la carrozza si tirava dietro uno sciame di monelli sbucati da tutti i vicoli nel raggio di mezzo chilometro.

    Quel ritardo, in ogni caso, era abbastanza imbarazzante. All’ingresso della sala si era già ammassata una piccola folla. I musicisti avevano attaccato a suonare da un po’ e, per mezzo isolato, echeggiava il monotono brum brum del violoncello a cui facevano da controcanto due gementi violini che sgomitavano e si accavallavano in complicati e pretenziosi ghirighori sonori.

    Nell’avvistare tutta quella gente in attesa, Marija interruppe precipitosamente il dibattito che aveva ormai scomodato persino gli antenati del vetturino, e saltò giù dalla carrozza quando ancora era in movimento, gettandosi tra la folla per raggiungere la sala; una volta all’interno, si voltò e cominciò a spingere nel senso opposto, mentre tuonava «Eik! Eik! Uzdaryk-duris!», con un timbro di voce che in confronto il frastuono dell’orchestra appariva una melodia flautata.

    ‘‘Z. Graiczunas, Pasilinksminimams darzas. Vinas. Sznapsas. Vini e Liquori. Sede sindacale’’ diceva l’insegna della sala. Il lettore che non ha molta pratica con la lingua della lontana Lituania sarà senz’altro felice di sapere che non si trattava d’altro che d’una saletta sul retro di una taverna ubicata in quella parte di Chicago che è conosciuta come il ‘‘quartiere dei macelli’’. Un’informazione precisa come questa, senza dubbio, corrisponde a pura realtà, anche se sarebbe potuta sembrare penosamente stridente a colui che avesse appreso che si trattava anche della scenografia in cui stavano per svolgersi gli attimi incomparabili della più grande gioia e della massima felicità nella vita di una fra le più dolci creature di Dio: ovvero la celebrazione del ricevimento nuziale e il compimento della più grande realizzazione della piccola Ona Lukoszaite.

    La piccola Ona era ferma sulla soglia in quel momento. Sotto lo sguardo amorevole di sua cugina Marija, dopo essere penetrata a fatica tra la folla, cercò di recuperare il fiato persa in una felicità dolorosa da guardare. C’era una luce di stupore nei suoi occhi e le palpebre le tremavano. Il suo viso, che di solito era pallido, appariva di un rosso purpureo. Indossava un niveo vestito di mussola sul quale, dalle spalle, ricadeva un morbido velo. C’erano cinque roselline di carta rosa intrecciata ad adornare quel velo, con undici petali di verde brillante per ciascuna di esse. La ragazza calzava immacolati guanti bianchi di cotone e, mentre se ne stava a fissare davanti a sé, sull’uscio della sala, le sue mani si muovevano in maniera febbrile. Era quasi troppo per lei tutto quello. Le si poteva leggere sul volto tutto il dolore dell’immensa emozione che la pervadeva, altrettanto evidente come il tremito che la scuoteva in tutto il corpo.

    Era così giovane! on ancora sedicenne; tanto piccola e fragile per la sua stessa età – praticamente una bambina – eppure s’era appena sposata e lo aveva fatto proprio con Jurgis, fra tutti gli uomini possibili! Jurgis Rudkus, con le sue spalle forti e le mani da gigante, il fiore bianco all’occhiello dell’abito nero mai messo prima.

    Mentre Ona aveva occhi azzurri e leali, quelli di Jurgis erano grandi e neri, sormontati da folte sopracciglia. I tanti capelli anch’essi neri, riccioli, gli ricadevano come onde fin sopra le orecchie. Formavano insieme una di quelle coppie di sposi alquanto incongrue e sorprendenti con cui tanto spesso Madre Natura si diletta a confondere i profeti. Jurgis, pur essendo capace di imporsi sulle spalle un quarto di bue di oltre un quintale e caricarlo su un carro senza neppure barcollare, se ne stava seduto in un angolo terrorizzato come una povera bestiola braccata, ed era costretto ad inumidirsi le labbra secche ogni qualvolta doveva rispondere alle parole di augurio e di felicitazioni degli amici.

    Nella sala, frattanto, si era andata realizzando una netta separazione tra ospiti e spettatori, o perlomeno una distinzione bastevole a che la festa potesse decollare. Infatti, non ci fu un solo momento per tutta la serata nel quale, fermi sulla soglia o pressati in un angolo, curiosi venuti da fuori non s’affollassero e, appena uno di questi prendeva coraggio e s’avvicinava un po’ di più, o mostrava di gradire qualcosa da mangiare, subito gli veniva allungata una sedia e veniva spinto a partecipare alla festa. Una delle regole della veselja esigeva, d’altro canto, che nessuno se ne tornasse a casa a pancia vuota, e quindi, nonostante non fosse tanto facile nel quartiere dei macelli di Chicago (con il suo quarto di milione di abitanti) rispettare e conservare intatte tutte quelle consuetudini nate nelle foreste della Lituania, i festeggiati fecero del loro meglio affinché tutti coloro che arrivavano dalla strada, compresi perfino i cani, finissero per non rimanere delusi dell’accoglienza che gli veniva riservata.

    In più, era un’incantevole informalità che guidava quel genere di celebrazioni. Gli uomini mantenevano il cappello in testa o se lo toglievano solo se ne avevano voglia. Lo stesso valeva per la giacca; si mangiava quando e dove si voleva, ci si muoveva dove e quanto si desiderava. Ci sarebbero stati canti e discorsi ma nessuno sarebbe stato costretto a starli a sentire, e, se a qualcuno veniva l’idea di mettersi a cantare o di tenere un discorso, be’, era libero di farlo.

    La gazzarra di suoni che ne scaturiva non infastidiva nessuno, salvo forse i bambini che in gran numero gli invitati s’erano portati appresso al gran completo; il fatto era che non c’era proprio altro luogo dove avrebbero potuto lasciare i più piccoli, e così una gran parte dei preparativi per la serata consisteva nel radunare culle e carrozzine in un angolo della sala e, lì, in gruppi di tre o quattro, far dormire i piccolini che spesso però si svegliavano e urlavano a squarciagola. I più grandicelli, invece, che arrivavano all’altezza dei tavoli, se ne andavano a zonzo con aria soddisfatta, sgranocchiando qualche osso e riempiendosi la bocca di carne e salumi di Bologna.

    La sala era grande circa quattro metri. Aveva pareti imbiancate a calce e tutte senza alcuna decorazione, ad eccezione di un calendario, una fotografia di un cavallo da corsa e un albero genealogico dentro una cornice dorata. A destra c’era una porta che collegava la sala al saloon, con un paio di pappamolle che stavano di guardia sulla soglia, e in un angolo, al di là del bancone del bar, una sorta di genio vestito con un camice d’un bianco sporco, baffetti neri impomatati, il ciuffo oliato accuratamente e gettato di lato sulla fronte. All’angolo opposto, due tavoli che occupavano buona parte dello spazio disponibile erano letteralmente ricoperti di vassoi colmi di cibi freddi che già erano stati degustati dagli ospiti più affamati. Alla testa della tavola dove sedeva la sposa c’era una torta bianca come la neve, decorata con una Torre Eiffel costruita con lo zucchero, con in cima due angioletti, delle roselline e una generosa spruzzata di canditi di colore rosa, verde e giallo. Al di là si apriva un’altra porta che s’affacciava sulla cucina, dove, in mezzo al vapore che saliva, si vedevano diverse donne, giovani e anziane, che correvano di qua e di là. Nell’angolo a sinistra stavano i tre musicisti, su una piccola piattaforma, i quali lavoravano eroicamente per fare una qualche impressione al di sopra di tutta quella confusione. Anche i bambini, allo stesso modo, erano occupati a farsi sentire e, in più, c’era una finestra aperta da cui la folla rimasta fuori si godeva la musica, spiava quel che avveniva nella sala e annusava gli odori.

    Il vapore cominciò ad avanzare nella sala ed ecco d’un tratto che, scrutando in mezzo ad esso, si intravide la figura di zia Elisabetta, la matrigna di Ona – Teta Elzbieta, come la chiamavano. Teneva sollevato un grande piatto di anatra in umido. Dietro di lei Kotrina si faceva strada pian piano, barcollando sotto un simile fardello. Anche la vecchia nonna Majauszkiene, mezzo minuto più tardi, apparve. Portava una grande ciotola gialla ricolma di patate fumanti, grande quasi quanto lei. A poco a poco quindi la festa prese forma, c’era il prosciutto, un piatto di crauti, del riso bollito, maccheroni, salsicce di Bologna, grandi cumuli di funghi porcini, ciotole di latte e schiumosi boccali di birra. Non lontano si poteva anche ordinare quel che si voleva senza pagare, al bar.

    «Eiksz! Graicziau!» urlava Marija Berczynskas, e subito ritornava in cucina perché sulla stufa c’era tanta di quella roba che doveva essere mangiata. Tra risa e schiamazzi, in una confusione indescrivibile piena di allegria, gli ospiti presero posto. I giovani, che per la maggior parte si erano ammassati vicino alla porta, si risolsero una buona volta ad avanzare. I vecchi, intanto, pungolavano e rimproveravano Jurgis a sedersi alla destra della sposa, perché appariva più rigido e imbarazzato che mai. Alla fine il giovane cedette rassegnato. Le due damigelle d’onore, i cui abiti erano adornati da graziose ghirlande di carta, seguirono e, a ruota, vennero tutti gli altri, vecchi e giovani, ragazzi e ragazze. Lo spirito della festa si impadronì finalmente anche del maestoso barista, il quale finì per accettare un piatto di anatra in umido, e persino il grasso poliziotto – il cui compito sarebbe stato, più tardi, di tenere a bada le risse – prese da parte una sedia e l’avvicinò al tavolo. I bambini si misero a gridare e quelli più grandi si sgolarono. Tutti ridevano e cantavano e chiacchieravano in un clamore assordante, al di sopra del quale la cugina Marija impartiva come poteva i suoi ordini ai musicisti. I musicisti... be’... come cominciare a descriverli? Fino a quel momento se n’erano rimasti lì sulla piattaforma suonando in una folle frenesia. Ed è per questo che tutto lo scenario dovrebbe essere letto, o detto, o cantato attraverso la musica. Era la musica a renderlo ciò che era; la musica che trasfigurava il retro di una bettola nel quartiere dei macelli di Chicago in un luogo fatato, una specie di paese delle meraviglie, un po’ come un palazzo paradisiaco.

    Il piccolo uomo alla guida di quel trio era un uomo ispirato. Il suo violino era scordato, non c’era colofonia sul suo archetto, eppure, senza dubbio, non esisteva alcun’altro uomo ispirato come lui nelle cui mani le Muse avevano imposto le proprie. Suonava come un posseduto da un demone – da un’orda di demoni! Si potevano udire tutto attorno a lui che saltellavano freneticamente, dettavano il ritmo con i loro zoccoli e rizzavano in capo i capelli del capo orchestra. I suoi occhi fuoriuscivano dalle orbite e lui faticava a tenere il passo. Tamoszius Kuszleika era il suo nome. Aveva imparato a suonare il violino da autodidatta, esercitandosi per tutta la notte dopo aver lavorato tutto il giorno ai ‘‘banchi di macellazione’’. Se ne stava in maniche di camicia, un panciotto decorato con figure color oro sbiadito che riproducevano ferri di cavallo e una camicia rosa, a righe, che sembrava un bastoncino di caramello alla menta. Indossava un paio di pantaloni militari blu chiaro, con una banda gialla che serviva a dargli un certo contegno che ben si addiceva a un direttore d’orchestra. Sebbene fosse alto a malapena un metro e cinquanta, anche così quei pantaloni gli lasciavano scoperte le caviglie. Potevi chiederti dove mai li avesse rimediati quei calzoni, o, meglio, forse ti saresti potuto stupire di simili bazzeccole se l’emozione di trovarti in sua presenza te ne avesse dato il tempo – perché lui era davvero un uomo ispirato. Ogni cellula del suo spirito era ispirata, si potrebbe quasi dire che ogni parte del suo corpo, separatamente, lo era. Batteva il ritmo con i piedi, scuoteva la testa e ondeggiava e oscillava in avanti e indietro. Il suo viso era un po’ rugoso ma irresistibilmente comico. Quando eseguiva un giro di note o un virtuosismo, le sopracciglia gli si aggrottavano e le sue labbra e le sue palpebre si chiudevano al di sopra della cravatta che quasi sembrava volersi ribellare e fuggire via. Ogni tanto si volgeva ai suoi compagni e annuiva, ammiccava, ricamava cenni convulsi e frenetici, e, con ogni centimetro del suo essere, invocava e implorava in nome delle Muse, obbediente al loro richiamo. In tutta verità, gli altri due che lo accompagnavano non erano affatto degni di lui. Il secondo violino – uno slovacco – era un tipo alto, magro, con gli occhiali cerchiati di nero e lo sguardo muto e paziente da mulo affaticato. Be’, si limitava a rispondere alla frusta, ma debolmente. Finiva sempre col cadere nella sua consueta meccanica esecuzione. L’altro musicista, invece, era molto grasso, con un naso rotondo, rosso e sentimentale, e suonava con gli occhi rivolti al cielo e lo sguardo di infinita nostalgia. Stava suonando in quel momento una parte di basso con il suo violoncello, e davvero l’emozione che c’era tutt’intorno a lui nella sala, tra gli ospiti, non lo toccava minimamente, non aveva per lui alcuna importanza perché il suo compito era esclusivamente quello di segare via dallo strumento prolungate lugubri note una dopo l’altra, dalle quattro del pomeriggio fino a quasi la stessa ora del mattino seguente, per un terzo di ciò che percepiva complessivamente di solito, ovvero un dollaro all’ora.

    Ma non trascorsero neanche cinque minuti dall’inizio della festa che Tamoszius Kuszleika saltò in piedi, avvinto dall’eccitazione, e nel giro di tre minuti lo si vide aggirarsi tra i tavoli con le narici dilatate, il respiro mozzo, trascinato dai demoni mentre rivolgeva cenni ai due colleghi, faceva segni ipnotici col violino affinché anche la lunga sagoma magra del secondo violino si levasse in piedi e tutti e tre potessero avanzare insieme in mezzo ai commensali seduti a tavola, con Valentinavyczia, la violoncellista, che fra una nota e l’altra boccheggiava sospingendo il suo strumento. Alla fine si ritrovarono in fondo alla tavolata e qui Tamoszius montò su uno sgabello e in tutto il suo splendore si mise a dominare la scena. Alcuni stavano mangiando, alcuni ridevano e parlavano, ma si commetterebbe un grosso errore se si pensasse che ci fosse uno solo di loro che lo ignorasse. Le note di Tamoszius non erano mai complete, il suo violino ronzava in stridii sommessi in basso e squittiva e graffiava lassù in alto, ma erano dettagli a cui nessuno prestava attenzione, così come non si badava alla sporcizia, al rumore e allo squallore tutt’intorno; anche perché, in fondo, era prorio da questo materiale che quegli ospiti dovevano costruire la loro vita ogni giorno, attraverso quegli elementi dovevano dar sfogo alla propria anima. Era anche il loro modo di esprimersi quello: allegro, chiassoso, oppure triste e lamentoso, o passionale e ribelle; quella musica era la loro musica, la musica di casa. La melodia stendeva le sue braccia attorno a loro e tutti insieme non avevano che da arrendersi e abbandonarsi ad essa. Chicago, i suoi saloons, le sue baraccopoli d’un tratto svanivano, sostituiti da prati verdi e fiumi illuminati dal sole, foreste e possenti colline innevate. Essi rivedevano i paesaggi di casa, ritornavano alle scene dell’infanzia; rivivevano i vecchi amori e le amicizie, dentro di essi destavano vecchie gioie e antichi dolori, verso cui sorridere o versar lacrime. Alcuni si abbandonavano a tutto questo e chiudevano gli occhi, altri battevano i pugni sul tavolo. Di tanto in tanto uno saltava su con un grido e chiedeva che venisse eseguita la tale canzone o quell’altra; e così il fuoco negli occhi di Tamoszius si attizzava ancora di più, diventava più luminoso, e lui afferrava il suo violino e urlava ai suoi compagni dando così l’abbrivio a una folle melodia a cui il pubblico rispondeva con cori, grida di uomini e donne che sembravano tutti indemoniati. Qualcuno balzava su all’improvviso e pestava i piedi sul pavimento, levando i bicchieri al cielo e scambiando brindisi con chi gli stava accanto. In breve accadeva che qualcun altro richiedeva una vecchia nenia di nozze, che magari celebrava la bellezza della sposa e le gioie dell’amore, e così nell’emozione di quel capolavoro Tamoszius iniziava a bordeggiare tra i tavoli e a farsi strada verso il centro della sala dove sedeva la sposa. Non vi era che un centimetro tra le sedie accostate degli ospiti, e Tamoszius, che pure era così minuto, non poteva evitare di urtare con il suo archetto chi gli stava attorno ogni volta che raggiungeva una nota bassa, ma neppure quello era importante, neppure di inezie come quelle gli importava, pensando solo e soltanto ad insistere senza sosta e a ordinare ai suoi compagni di seguirlo. Durante quella loro marcia in mezzo ai tavoli, manco a dirlo, i suoni del violoncello finivano per oscurarsi del tutto. Alla fine tutti e tre si ritrovavano alla testa della tavolata e Tamoszius prendeva il suo posto alla destra della sposa e cominciava a riversare la sua anima in delle specie di fusa musicali. La piccola Ona, dal canto suo, era davvero troppo eccitata per mangiare. Di tanto in tanto spiluzzicava un po’ di qualcosa, proprio quando sua cugina Marija le pizzicava il gomito e glielo ricordava, ma, per la maggior parte del tempo, rimaneva seduta a guardare con gli stessi occhi timorosi di meraviglia.

    Teta Elzbieta, al contrario, era tutto un frullo d’ali, un colibrì. Le sue sorelle continuavano a correrle dietro sussurrandole qualcosa ormai prive di fiato. Ona sembrava non accorgersi della loro presenza. Era solo la musica che pareva chiamarla. Il suo sguardo continuava ad essere vacuo e a un certo punto si sedette con le mani congiunte sul cuore. Poi le lacrime iniziarono a velarle gli occhi, e siccome si vergognava tanto di asciugarle quanto di lasciarle scorrere sulle guance, si girò e scosse un po’ la testa, e vampate di rosso la invasero nel momento in cui si accorse che Jurgis la stava guardando.

    Quando Tamoszius Kuszleika le si sedette accanto, e agitò l’archetto magico sopra di lei, le sue guance divennero scarlatte e sembrò che volesse alzarsi e fuggire via. Da quella impasse fu fortunatamente salvata da Marija Berczynskas, anche lei posseduta dalle Muse. Marija era appassionata di una canzone in particolare, una canzone d’addio tra amanti, e la voleva sentire. Poiché i musicisti non la conoscevano, d’improvviso si impennò in piedi e iniziò ad insegnargliela. Era piccola ma potente di costituzione. Lavorava in una fabbrica di conserve e tutto il giorno aveva a che fare con latte di carne di manzo che pesavano anche sette chili. Aveva una bella faccia larga da slava, con prominenti guance rosse. Quando apriva la bocca i suoi lineamenti diventavano tragici, ma non si poteva fare a meno di pensare anche a un cavallo. Indossava una camicia di flanella blu, con le maniche ravvolte che rivelavano le sue braccia muscolose. Teneva in mano un forchettone con il quale si mise a disegnare ghirighori nell’aria dettando il tempo all’orchestra. Mentre ruggiva la sua canzone, la sua voce basti dire che non risparmiava nessun angolo della sala. I tre musicisti la seguivano come potevano, faticosamente, nota per nota, ma in sostanza rimanevano sempre di una nota indietro e allora si sforzavano e sudavano strofa dopo strofa per tutta la canzone, che era per l’appunto il pianto di quel giovane contadino innamorato.

    ‘‘Sudiev’ kvietkeli, tu brangiausis; Sudiev’ ir laime, man biednam, Matau – paskyre teip Aukszcziausis, Jog vufgt ant svieto reik vienam!’’.

    Quando la canzone finì, fu tempo per il discorso. Il vecchio Dede Antanas – il nonno Antonio, il padre di Jurgis – si alzò in piedi. Non aveva più di sessant’anni, sebbene si poteva pensare che ne avesse ottanta. Si trovava lì in America da soli sei mesi, però il cambiamento non gli aveva fatto granché bene. Da giovane aveva lavorato in un cotonificio, gli era venuta la tosse e aveva dovuto lasciare. In campagna il problema era scomparso ma qui in America, dacché lavorava nientemeno che negli stanzoni della salamoia della Durham, con il respirare freddo e l’aria umida per tutta la giornata, la tosse gli era ritornata.

    Appena si alzò per pronunciare il discorso fu colto da un attacco di tosse e fu costretto ad abbracciare la sedia e ad allontanarsi con il volto pallido e malconcio, finché non gli passò. In genere, era consuetudine per il discorso della veselija di trarre spunto da uno dei libri e imparare le parole a memoria. Però nella sua giovinezza Dede Antanas era stato uno studioso e davvero aveva scritto di suo pugno le lettere d’amore dei suoi amici. E così si capisce che aveva composto un discorso originale di congratulazioni e di benedizione per gli sposi, e quello infatti era uno degli eventi della festa. Persino i ragazzi, occupati a fare i rompiscatole per la stanza, si avvicinarono e ascoltarono, e alcune delle donne si misero a singhiozzare asciugandosi gli occhi nei grembiuli. Il momento fu molto solenne perché, tra l’altro, Antanas Rudkus, da quando era venuto in America, aveva finito col fissarsi sull’idea che non gli sarebbe stato concesso poi tanto tempo per vivere accanto ai figli. Così il suo discorso li lasciò tutti così commossi e pieni di lacrime che uno degli ospiti, Jokubas Szedvilas, che teneva un negozio di specialità gastronomiche su Halsted Street, ed era un personaggio grasso e cordiale, fu spinto ad alzarsi in piedi anche lui ed assicurare che le cose dopotutto potevano essere non così gravi come si pensava, continuando poi con un piccolo discorso di sua invenzione in cui rivolse congratulazioni e profezie di felicità alla volta della sposa e dello sposo, per soffermarsi infine su certi particolari che fanno molto piacere ai giovani, ma che causarono in Ona un arrossimento più furioso che mai. Jokubas possedeva d’altro canto ciò che sua moglie amava descrivere con compiacenza come ‘‘poetiszka vaidintuve’’, ovvero un’immaginazione poetica.

    Giunti a quel punto della serata, un buon numero di ospiti aveva ormai finito di mangiare e, poiché non vi era alcuna pretesa di ufficialità, il banchetto cominciò a sciogliersi e alcuni degli uomini si riunirono davanti al bar mentre altri andarono a fare una passeggiata, ridendo e cantando; qui e là si formarono gruppetti che intonarono allegri canti e tutto nella più sublime indifferenza per gli altri ospiti e pure nei confronti dell’orchestra stessa.

    Il fatto era che tutti, chi più chi meno, erano inquieti – pareva che qualcosa li pungolasse nel pensiero. E lo dimostravano. Gli ultimi ritardatari ebbero appena il tempo di finire di mangiare che già i tavoli e i resti del banchetto furono spinti in un angolo e le sedie e i bambini vennero ammassati da parte e la vera festa ebbe inizio. Tamoszius Kuszleika, dopo aver mandato giù l’ultimo boccale di birra, tornò sul palco e, ritto in piedi, sciabolò con lo sguardo attento l’intera scena, autorevolmente tamburellò con le dita sul lato del suo violino, se lo sistemò attentamente sotto il mento e infine diede avvio con l’archetto a un elaborato fioretto. Colpiva le corde e socchiudeva gli occhi, e parve fluttuare via come uno spirito sulle ali di un valzer sognante. I suoi compagni gli diedero man forte, ma con gli occhi aperti, guardando dove la strada li dirigeva, per così dire, e infine Valentinavyczia, dopo aver atteso per un po’ battendo con il piede il tempo, levò gli occhi al soffitto e cominciò a segare brum! brum! brum!

    Le coppie al ballo si formarono velocemente. L’intera sala si mise subito in movimento. Apparentemente nessuno sapeva come ballare un valzer, ma questo non ebbe nessunissima importanza: c’era la musica, e quindi si ballava, ognuno come preferiva, proprio come prima si era cantato.

    La maggior parte di loro preferiva il ‘‘passo doppio’’, in particolar modo i giovani presso i quali era di moda. Le persone anziane invece danzarono i loro balli di casa, strani e complicati, eseguiti con grave solennità. Alcuni non ballarono proprio niente, semplicemente si tenevano per mano e permettevano alla gioia indisciplinata di esprimersi attraverso il movimento dei piedi. Tra questi c’erano Jokubas Szedvilas e sua moglie, Lucija, che insieme gestivano il negozio di specialità gastronomiche e consumavano quasi quanto vendevano: erano troppo grassi per ballare, ma si distinguevano al centro della sala tenendosi stretti e dondolando lentamente da destra a sinistra mentre sorridevano seraficamente... una fotografia di estasi sdentata e sudaticcia.

    Tra queste persone anziane ve n’erano molte che indossavano abiti che ricordavano un qualche dettaglio del proprio paese (un gilet ricamato, un panciotto, un fazzoletto variopinto, un cappotto con polsini e grandi bottoni fantasia...). Tutte quelle cose erano accuratamente evitate dai giovani, la maggior parte dei quali aveva imparato a parlare l’inglese e sfoggiava l’ultimo vestito alla moda. Le ragazze esibivano abiti confezionati, o camicette, e alcune di loro sembravano davvero attraenti. Qualcuno tra i giovani l’avresti potuto scambiare tranquillamente per un americano, del tipo di un impiegato, se solo non si fosse tenuto calcato sulla testa il cappello dentro la sala. Ciascuna delle coppie più giovani ballava con uno stile tutto suo. Certe si tenevano abbracciate strette, altre se ne stavano pudicamente a distanza. Alcune muovevano rigidamente le mani, altre lasciavano cadere mollemente le braccia lungo i fianchi. Certe volteggiavano in un qualche modo snodato, come planassero dolcemente; altre si muovevano con dignità grave. Ce n’erano alcune chiassose, che solcavano selvaggiamente la sala urtando bruscamente gli altri, e ce n’erano delle altre alquanto nervose che, spaventate, gridavano: ‘‘Nustok! Kas yra?’’ quando venivano urtate. Ogni coppia, comunque, rimaneva fissa per l’intera serata e non si sarebbe mai potuto vederle cambiare. Alena Jasaityte, per esempio, stava ballando senza interruzione da ore con Juozas Raczius, il suo fidanzato. Alena era la bellezza della serata, e sarebbe stata veramente bella se solo non fosse stata così altezzosa. Indossava una camicetta bianca che valeva, forse, una mezza settimana di lavoro di tinteggiatura di lattine alla fabbrica in cui lavorava. Sorreggeva la sua gonna con la mano mentre danzava, con una precisione signorile alla maniera delle grandi dame. Juozas guidava uno dei carri della Durham, e stava facendo carriera, guadagnava bene. Sicché ostentava un aspetto da duro, indossava il suo cappello di sgimbescio e teneva una sigaretta in bocca tutto il tempo. Ma c’era anche Jadvyga Marcinkus, che era altrettanto bella, ma, al contrario di Alena, umile. Anche lei verniciava lattine alla fabbrica, però la differenza con Alena consisteva nel fatto che lei aveva una madre invalida e tre sorelline da mantenere, e così non spendeva certo il suo salario per belle camicette. Jadvyga era piccola e delicata, con grandi occhi neri e capelli corvini, raccolti in una piccola crocchia sulla sommità del capo. Era fasciata in un vecchio abitino bianco che lei stessa si era ricamato, cinque anni prima, e che indossava sempre a tutte le feste. L’abito era a vita alta, le arrivava quasi fin sotto le ascelle, e non le stava tanto bene seppure la cosa non la disturbasse affatto, in quanto l’unica cosa che contava era ballare con il suo Mikolas. Se lei era minuta, il ragazzo era grande e grosso e possente, ed era come se Jadvyga si annidasse tra le sue braccia e volesse nascondersi alla vista di tutti. Appoggiava la testa sulla sua spalla, mentre lui, a sua volta, la teneva avvinghiata come volesse trascinarla via. Così ballavano e ballavano, tutta la sera, e ballavano sempre in un’estasi di felicità. Si sarebbe potuto sorridere, forse, nel vederli, ma non lo avreste fatto se foste stati a conoscenza di tutta la storia. Quello infatti era il quinto anno che Jadvyga era fidanzata con Mikolas, e il suo cuore era triste. Avrebbero voluto sposarsi sin da subito, ma Mikolas aveva un padre che si beveva ogni spicciolo ed era ubriaco da mattina a sera, e così il peso della grande famiglia ricadeva interamente sulle spalle del giovane. C’è da dire che anche in quelle condizioni Mikolas, che era un operaio specializzato, avrebbe potuto farcela a sposarsi, però, per via di alcuni crudeli incidenti che gli erano capitati, era stato costretto a riversare tutto se stesso e ogni sua forza nel tener botta. Il suo compito era quello del disossatore di manzi, e si tratta di un mestiere pericoloso, soprattutto quando si lavora a cottimo e si cerca di guadagnare una sposa. Le tue mani sono scivolose tutto il tempo, il coltello è scivoloso, e comunque si deve faticare come matti. Quando qualcuno ti rivolge la parola o ti capita di colpire un osso, la mano scivola sulla lama e ti procuri una ferita terribile. Questo non sarebbe poi così tanto grave se la ferita non finisse per infettarsi mortalmente. Il taglio può guarire, però può anche non farlo, non si può mai dire. Due volte negli ultimi tre anni Mikolas era rimasto a casa mezzo morto a causa di un avvelenamento del sangue: l’ultima volta per tre mesi, la volta prima per quasi sette. L’ultima volta aveva perso il lavoro, e ciò aveva comportato altre sei settimane di fila alle porte delle industrie conserviere per farsi riassumere, dalle prime ore di quelle terribili mattine di gelo invernale con i piedi immersi nella neve mentre molta altra turbinava dal cielo. Ci sono persone colte che possono snocciolarvi delle statistiche sui disossatori di bovini, e farvi notare che questi operai guadagnano fino a quaranta centesimi l’ora, ma probabilmente nessuno di questi signori ha mai guardato con attenzione una mano di un disossatore.

    Quando Tamoszius e i suoi compagni musicisti si fermavano per una pausa, perché dovevano farlo per forza, di tanto in tanto anche i ballerini si fermavano lì dove si trovavano e attendevano con pazienza. Non sembravano mai stancarsi, e del resto non ci sarebbe stato posto per sedersi, anche se lo avessero desiderato. In ogni caso si trattava solo di un minuto perché subito il capo orchestra ripartiva nonostante tutte le proteste degli altri due colleghi. In quel caso si cominciò un altro tipo di ballo, un ballo lituano. Coloro che avrebbero preferito continuare con il passo doppio se ne andarono, abbandonarono la pista, ma la maggior parte rimase e iniziò una serie intricata di movimenti che assomigliavano più che a una danza a una specie di pattinaggio di fantasia. Il culmine fu un furioso prestissimo che le coppie accolsero con un congiungere di mani e un turbinio folle. Lo spettacolo era davvero irresistibile e tutti nella stanza si unirono fino a quando il luogo divenne una specie di labirinto di gonne che volavano e una baraonda eccezionale che riempiva gli occhi. Ma il vero spettacolo era ancora lui, Tamoszius Kuszleika. Lo scricchiolio del suo vecchio violino e i suoi gemiti di protesta non lo muovevano a compassione. Il sudore iniziò a colargli dalla fronte, lui arcuò la schiena come un ciclista all’ultimo tornante di una gara, il suo corpo tremò e pulsò come un motore a vapore in fuga, e l’orecchio non poteva seguire il caracollare e il sovrapporsi delle sue note; calò come una sorta di nebbiolina azzurra in mezzo alla quale il suo braccio che andava avanti e indietro si smarriva. Con una corsa a capicollo, un a lungo meraviglioso, il musicista arrivò alla fine del brano, e allora abbandonò le mani e barcollò indietro esausto. Con un gemito finale deliziò i ballerini e li congedò ed essi volarono così da una parte all’altra della sala, si spostarono verso le pareti e, dopo questo, cominciò a scorrere birra a fiumi per tutti, compresi i musicisti, e la festa trasse un profondo respiro e si preparò per il grande evento della serata, che era la acziavimas. L’‘‘acziavimas’’ è una cerimonia che, una volta iniziata, si protrae per tre o quattro ore, e si concretizza in una danza ininterrotta. Gli ospiti formano un grande anello tenendosi per mano e, quando la musica si avvia, iniziano a muoversi in un cerchio. Al centro si erge la sposa e, uno a uno, gli uomini entrano nel cerchio e danzano con lei. Ognuno balla per diversi minuti finché gli pare e piace, ma è un procedimento molto allegro, con risate e canti, e non appena il ballerino ha finito, si ritrova faccia a faccia con Teta Elzbieta che gli porge il cappello. Dentro il cappello il ballerino lascia cadere una somma di denaro, un dollaro, o forse cinque, a seconda di quanto può, ma anche in base al valore che attribuisce al privilegio di aver ballato con la sposa. Tutti gli ospiti sono tenuti a pagare per questo spettacolo; se sono proprio ospiti dignitosi, si vedrà cadere nel cappello una somma di tutto rispetto, affinché la sposa e lo sposo possano iniziare la loro vita insieme come si deve. Del resto, le somme che se ne vanno via per organizzare una festa del genere non sono uno scherzo. Ammontano certamente a più di duecento dollari e forse anche trecento, e trecento dollari è più di quanto in un anno percepisca la maggior parte di queste persone presenti nella sala. Ci sono uomini che lavorano dalla mattina presto fino a tarda notte in cantine gelide dove ci sono due centimetri di acqua sul pavimento; uomini che per sei o sette mesi all’anno non vedono mai la luce del sole dalla domenica pomeriggio fino al mattino della domenica seguente, e che non arrivano a guadagnare nonostante questo trecento dollari in un anno. Ci sono bambini che a malapena arrivano a toccare la parte superiore dei banchi di lavoro, i cui genitori hanno mentito sulla loro età per farli lavorare, e che non fanno nemmeno la metà di trecento dollari l’anno, e forse neanche un terzo per la verità. Eppure questa gente spende una tale somma, tutta in un solo giorno, per una festa di nozze! (Perché, ovviamente, è la stessa cosa in fondo che la si spenda in una sola volta, per il tuo matrimonio, o in un tempo più lungo per il matrimonio di tutti i tuoi amici). È una cosa alquanto imprudente, persino tragica... ma, dio del cielo! È così bella! A poco a poco questa povera gente ha dovuto rinunciare a tutto il resto, ma a questa faccenda della festa di nozze non rinuncia affatto, ci si è aggrappata con tutta la potenza della propria anima... non si può rinunciare alla veselija! Farlo significherebbe non solo darsi per vinti, ma riconoscere la sconfitta, e la differenza tra queste due cose è ciò che mantiene in vita il mondo.

    La veselija è giunta fino a loro da un tempo lontano, e il suo significato era che si poteva abitare anche in una grotta, con lo sguardo immerso nell’ombra, senza luce, alla sola condizione che una volta nella propria vita si dovessero spezzare le catene, prendere il volo e volgere lo sguardo al sole, a condizione che una sola volta nella vita si sarebbe potuto testimoniare il fatto che la vita stessa, con tutte le sue preoccupazioni e le sue paure, non è una cosa poi così grave e impietosa, bensì una bolla sulla superficie di un fiume, una cosa che si può prendere tra le mani e scagliare in aria per gioco, come un giocoliere lancia in aria le sue palle dorate, una cosa che si può tracannare come un calice di prezioso vino rosso. Avendo così riconosciuto se stessi come padroni della vita, gli uomini possono tornare al proprio duro lavoro e godere di quel ricordo di onnipotenza per il resto dei loro giorni.

    I ballerini volteggiavano nella sala, convulsamente, e quando venivano presi da capogiro volteggiavano nel senso opposto. Ora dopo ora la festa continuava, scese l’oscurità e la sala divenne semioscura a causa del fatto che solo due lampade ad olio emanavano una fioca luce. I musicisti ormai avevano consumato tutta la loro folle frenesia. Si gingillavano con un’unica melodia, stancamente. Il motivetto prevedeva una ventina di battute e, quando arrivavano alla fine, attaccavano daccapo. Una volta ogni dieci minuti si fermavano e non riuscivano a ripartire se non dopo esser ricaduti esausti sulle seggiole. La scena che seguiva era piuttosto penosa e poco edificante, tanto che anche il grasso poliziotto sogguardava a disagio dal suo angolino dietro la porta. Era tutta colpa di Marija Berczynskas. Marija era una di quelle anime affamate che si aggrappano con disperazione alla gonna delle Muse quando esse si ritirano. Per tutta la giornata Marija si era mossa in preda a una meravigliosa esaltazione. Ora che ne veniva abbandonata non voleva rassegnarsi a lasciarla andare. La sua anima gridava con le parole di Faust ‘‘Fermati istante, sei così bello!’’. Che si trattasse della birra, o di urla, o di musica, o di movimento, ella si aggrappava a ogni cosa pur di non lasciarlo andare. Andava a caccia di esso, non appena il suo carro veniva buttato fuori pista, per così dire, dalla stupidità di quei maledetti tre musicisti. Ogni volta gli lanciava contro un urlo e volava verso di loro, agitandogli i pugni in faccia, battendo sul pavimento, rossa e pazza di rabbia. Invano il povero Tamoszius, spaventato, cercava di rabbonirla, di far valere i limiti della carne; invano Ponas Jokubas sbuffava, senza fiato; invano Teta Elzbieta la implorava.

    «Szalin!» si sgolava Marija. «Palauk! Kelio isz! Cosa vi abbiamo pagati a fare? Possiate bruciate all’inferno!»

    E così, con puro terrore, l’orchestra si rimetteva in moto, e lei tornava al suo posto e riprendeva a svolgere i suoi compiti. Portava tutto il peso dei festeggiamenti sulle sue spalle, ora, più che mai. Ona era mantenuta solo dall’eccitazione che ancora la pervadeva, ma tutte le donne e la maggior parte degli uomini erano sfiniti... l’anima sola di Marija era invitta! Lei sollecitava ancora i ballerini (quello che era stato prima l’anello era ormai divenuto la forma di una pera, con Marija a monte che tirava da una parte e spingeva dall’altra, gridando, battendo il ritmo, cantando — un vero e proprio vulcano in eruzione). Di tanto in tanto qualcuno veniva dentro o usciva fuori lasciando la porta aperta, e siccome l’aria della notte era molto fredda, Marija passandovi davanti assestava alla maniglia un calcione e la porta faceva slam e batteva. Prima questa procedura era stata la causa di una piccola tragedia di cui Sebastijonas Szedvilas era stata la vittima sventurata. Il piccolo Sebastijonas, di tre anni, stava gironzolando senza badare a nulla per la sala, tenendo alzato sulla bocca il boccaglio di una bottiglia di una bibita conosciuta come ‘‘pop’’, di colore rosato, ghiacciata, deliziosa. Era passato davanti alla porta e questa lo aveva colpito in pieno, facendogli uscire dalla bocca un grido tremendo che aveva interrotto di botto le danze. Marija, che solitamente minacciava di morte orribile chiunque, un centinaio di volte al giorno, ma che poi piangeva anche per l’uccisione di una mosca, aveva afferrato il piccolo Sebastijonas e lo aveva soffocato di baci. Per quella spiacevole circostanza l’orchestrra si era potuta godere per lo meno un lungo riposo, e un nuovo giro di bevande, mentre Marija faceva la sua pace con la piccola vittima, dopo averla messa seduta sul bancone del bar, e, in piedi le aveva portato alle labbra un bicchiere schiumoso di birra.

    Ma nel frattempo, in un altro angolo della sala, si teneva un ansioso conciliabolo tra Teta Elzbieta e Dede Antanas, con alcuni amici intimi di famiglia. C’era un problema. La veselija, si sa, è un accordo, un accordo non espresso, implicito, ma proprio per questo assai più vincolante per tutti. Ognuno vi contribuisce in maniera diversa, anche se tutti sanno perfettamente qual è la propria parte, e si sforzano sempre di darne un po’ di più. Ora, però, dal momento che erano venuti in quel nuovo paese, tutto questo era cambiato, sembrava che vi fosse un qualche sottile veleno nell’aria che si respirava in America, e che esso avesse avvelenato soprattutto i giovani, in una sola volta.

    Venivano a frotte alle feste e si rimpinzavano per bene con una bella cena, e poi sgattaiolavano via. Magari lanciavano fuori dalla finestra il cappello di qualcuno, e così l’uno e l’altro uscivano insieme adducendo che sarebbero andati a cercarlo, però poi non si vedevano più. Oppure una mezza dozzina di loro si ritrovava e si parava davanti alla porta, ti guardava, si prendeva gioco di te fino a quando non li lasciavi entrare. Altri ancora, ed erano i peggiori di tutti, si ammassavano davanti al bar, si ubriacavano a dovere alle spalle del connazionale ospitante, bevevano soltanto, non prestavano attenzione a niente e nessuno, e lasciavano pensare di aver già ballato con la sposa, o di volerlo fare in seguito. Ciascuna di queste situazioni si era verificata, e la famiglia si ritrovava impotente e piena di sgomento. Così tanto avevano faticato, ed eccoli lì con un tale esborso da pagare! Ona se ne stava paralizzata con gli occhi spalancati di terrore. I conti per le spese della festa erano spaventosi, l’avevano già perseguitata nei giorni precedenti; ogni singola voce di spesa le aveva roso l’anima tenendola sveglia tutto il giorno e rovinandole anche il sonno. Quante volte li aveva ripetuti quei conti, uno a uno, e quanto ci aveva rimuginato su mentre andava al lavoro: quindici dollari per la sala, ventidue dollari e un quarto per le anatre, dodici dollari per i musicisti, cinque dollari la chiesa, la benedizione della Vergine, e così via senza fine... Ma peggiore di tutto era il conto terribile che ancora doveva arrivare: ovvero quello che gli avrebbe presentato Graiczunas per la birra e i liquori. Uno non poteva mai sapere, o arrivare a prevedere in anticipo, quello che un oste avrebbe potuto chiedere. Perché quando veniva il momento, ti si presentava sempre davanti grattandosi la testa e diceva che i conti che aveva fatto prima della festa erano troppo bassi, che aveva fatto del suo meglio ma i tuoi ospiti ci avevano dato giù un bel po’.

    Con lui si poteva essere sicuri di essere truffati senza pietà, anche se ti stimavi il più caro tra le centinaia di amici che aveva. Avrebbe cominciato a servire i tuoi ospiti da un barile che era mezzo pieno, e sul finire delle serata gli sarebbe rimasto un barile mezzo vuoto, ma ugualmente lui avrebbe conteggiato due fusti di birra. Aveva accettato di servire una certa qualità di birra e a un certo prezzo concordato, ma quando veniva il momento tu e i tuoi amici avreste bevuto un veleno terribile che non può essere nemmeno descritto. Avresti potuto lamentarti, ma non sarebbe servito a nulla, non ti avrebbe risarcito la figuraccia né la serata rovinata, mentre, se volevi rivolgerti alla legge, be’, potevi anche andare in paradiso e far ritorno. L’oste infatti aveva agganci con tutti i grandi uomini politici del distretto, e, se solo una volta ti era capitato di capire cosa significa mettersi nei guai con quel genere di persone, ciò era sufficiente a persuaderti che era meglio pagare ciò che l’oste pretendeva e stare zitto.

    Ora, ciò che rendeva la situazione dei lituani ancora più dolorosa era che quell’imprevedibile esborso sarebbe ricaduto proprio sulle spalle di quelle poche persone che avevano già veramente fatto del loro meglio. Il povero vecchio Ponas Jokubas, per esempio, da parte sua aveva già donato cinque dollari, e tutti sapevano che aveva appena ipotecato il suo negozio di specialità gastronomiche per duecento dollari per pagare l’affitto scaduto da diversi mesi. E anche l’avvizzita vecchia Poni Aniele, che era vedova, aveva tre figli e un bel po’ di reumatismi, e faceva il bucato per i commercianti di Halsted Street per un compenso che al solo nominarlo spezzerebbe il cuore, aveva fatto quanto era in suo potere. Aniele aveva offerto l’intero ricavato di diversi mesi dei suoi polli. Ne possedeva otto, e li teneva chiusi in un piccolo recinto sotto la scala di servizio di casa sua. Per tutto il giorno i figli rastrellavano nella discarica alla ricerca di cibo per questi polli, e talvolta, quando la competizione in quel posto era troppo forte, si poteva vederli girovagare anche su Halsted Street, mentre camminavano a piedi nudi vicino le grondaie, con la loro madre che li seguiva per vedere che nessuno li derubasse dei rifiuti che avevano raccattato. Il denaro potrebbe non esprimere al meglio il valore che questi polli avevano per la vecchia signora Jukniene. Lei li valutava infatti in maniera diversa, in quanto aveva come la sensazione di ricevere da essi qualcosa in cambio di nulla, e che grazie a loro otteneva il meglio da un mondo che si stava prendendo il meglio da lei in tanti altri modi. E così li sorvegliava incessantemente, ad ogni ora del giorno, e aveva imparato a vedere come un gufo durante la notte per sorvegliarli ancora meglio. Uno dei polli però gli era stato rubato qualche tempo prima, e non era passato un mese che qualcuno ci aveva provato di nuovo con un altro. Poiché cercare di sventare un furto autentico comporta sempre come minimo una ventina di falsi allarmi, si comprende bene che tipo di contributo la vecchia signora Jukniene poteva offrire alla festa, per riconoscenza a Teta Elzbieta che una volta le aveva prestato dei soldi per un paio di giorni e l’aveva salvata così dallo sfratto.

    Sempre più amici si riunivano attorno alla famiglia, mentre il lamento per il terribile debito contratto continuava. Anche qualcuno che era tra i colpevoli si avvicinava sperando di origliare la conversazione, e questo era davvero una cosa che metteva a dura prova la pazienza di un santo. Ad un certo punto si mandò a chiamare Jurgis e il problema venne spiegato anche a lui. Jurgis ascoltò in silenzio, con le grosse sopracciglia nere che rabbuiavano ancor di più il suo viso. Di tanto in tanto da sotto ne usciva un barlume e lui si metteva a guardare attorno. Con ogni probabilità il suo desiderio sarebbe stato quello di avvicinarsi a qualcuno di quegli scrocconi e piazzargli in faccia uno dei suoi poderosi pugni, ma, senza dubbio, si rese conto di quanto poco ne avrebbe ricavato. Nessuno di quei conti si

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