Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Introduzione all'Induismo: Non volevo mangiare cibo speziato e ora non ne posso fare a meno
Introduzione all'Induismo: Non volevo mangiare cibo speziato e ora non ne posso fare a meno
Introduzione all'Induismo: Non volevo mangiare cibo speziato e ora non ne posso fare a meno
E-book240 pagine3 ore

Introduzione all'Induismo: Non volevo mangiare cibo speziato e ora non ne posso fare a meno

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Andrea Berton una sera si trova con una amica a cenare in un ristorante indiano, ed è una assoluta novità. Non conoscendo la varietà del cibo indiano, ne rimane stupefatto e incuriosito: qui inizia una ricerca di tutto quel che vuol dire "induismo". Da qui nasce questo saggio, ben scritto e pieno di curiosità, che accompagna il lettore a conoscere leggende, divinità e modi di vivere della comunità indiana in Italia e nel mondo. Un libro pensato per chi desidera esplorare il mondo induista e le sue caratteristiche principali, sia dal punto di vista religioso che da quello della vita quotidiana, ma sempre con uno stile divulgativo e accessibile a tutti, con l'intento di fraternizzare con una cultura sì distante dalla nostra ma improntata alla pace e alla convivialità.
LinguaItaliano
Data di uscita27 feb 2020
ISBN9788893781817
Introduzione all'Induismo: Non volevo mangiare cibo speziato e ora non ne posso fare a meno

Correlato a Introduzione all'Induismo

Ebook correlati

Induismo per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Introduzione all'Induismo

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Introduzione all'Induismo - Andrea Berton

    Introduzione

    all’Induismo

    Non volevo mangiare cibo speziato

    e ora non ne posso fare a meno

    di Andrea Berton

    Panda Edizioni

    ISBN 9788893781817

    © 2020 Panda Edizioni

    www.pandaedizioni.it

    info@pandaedizioni.it

    Proprietà riservata. Nessuna parte del presente libro può essere riprodotta, memorizzata, fotocopiata o riprodotta altrimenti senza il consenso scritto dell’editore.

    1. Quella sera al ristorante indiano. Il primo incontro con l’India

    Già il nome del ristorante mi aveva messo in difficoltà: Maharani. Per non parlare della discutibile cucina proposta: la cucina indiana. Ero stato invitato a cena da una mia amica del liceo, Mariaelena. Da tempo mi parlava di questo ristorante etnico che l’aveva tanto colpita. Ci era già stata con sua sorella e, quella sera, volevano portare anche me. Come avrei dovuto comportarmi? Non potevo certo fare la figura del solito ragazzo di provincia e declinare l’invito, mostrandomi poco aperto alle altre culture! Dovevo proprio andare e, nella peggiore delle ipotesi, non avrei toccato nulla di quello che mi avrebbero messo sul piatto.

    Cucina indiana?! Ma con tutte le specialità gastronomiche regionali che abbiamo in Italia, perché dobbiamo complicarci la vita mangiando cibi che non sono nostri? E poi, perché proprio la cucina dell’India? Perché rischiare di star male per niente? Non sarebbe stato meglio un buon piatto di patatine fritte se proprio era necessario mangiare qualcosa di internazionale? Tutte queste domande continuavano a mulinare nella mia mente. Inoltre, cosa sapevo io dell’India? Probabilmente avevo studiato le sue tradizioni religiose durante l’ora di religione alle scuole medie. Qualcosa conoscevo dai programmi televisivi e dal cinema, infatti mi vennero in mente subito Sandokan, Il libro della giungla e i balli di Bollywood. In realtà, andando a scavare un po’ più seriamente nei miei ricordi, un primo approccio con l’India lo avevo avuto durante le lezioni di catechismo nella parrocchia di Santa Maria Assunta a Valdobbiadene… Un giorno venne a parlarci un sacerdote di origini indiane. Questo mite prelato si occupava di missioni e ci raccontò di un piccolo villaggio indiano dove la popolazione soffriva per la mancanza d’acqua. Ero solo un bambino ma mi colpirono molto le foto di alcuni ragazzini indiani che don Antonio, così si chiamava il sacerdote, ci mostrò. La nostra comunità parrocchiale avrebbe dovuto aiutarli e rammento che riuscimmo nell’impresa, arrivando a raccogliere una somma sufficiente per costruire un pozzo e, l’anno successivo, per comprare un trattore. Il ricordo che per tanto tempo rimase impresso nella mia mente fu quello di un Paese poverissimo, dove i bambini non avevano nulla e dove si moriva ancora di fame. Non parliamo della cultura poi! Cosa poteva avere di importante, dal punto di vista artistico e culturale, un Paese dove tanta gente viveva ancora nei villaggi in mezzo alle foreste?

    A infarcire ancor di più la mia mente di terribili conseguenze negative, legate alla mia scellerata decisione di accettare l’invito di Mariaelena, ci si era messa anche mia madre. Aveva paura che potessi contrarre qualche patologia particolare e sconosciuta soltanto superando la soglia dell’entrata del ristorante. Stai attento Andrea! mi disse con grande preoccupazione. Non toccare nulla sai! Rispetteranno le regole minime sull’igiene del locale? aggiunse come se fosse un’esperta infettivologa. Insomma, ancora prima di entrare ero tutto sudato, ed ero molto preoccupato e decisamente convinto che mi sarei pentito di quella risposta, forse troppo affrettata, che avevo dato alla mia compagna di classe.

    Non ricordo con precisione il periodo, probabilmente si trattava di una serata di fine maggio o di inizio giugno. Era molto caldo e partimmo alla volta di Mestre, dove si trovava questo fantomatico ristorante indiano. In macchina c’eravamo io (o quello che rimaneva di me, visto che mi stavo consumando a causa del caldo e dei pensieri negativi), Mariaelena e sua sorella Francesca. Durante il tragitto Mariaelena e Francesca mi raccontarono di quanto fossero belle le sedie del ristorante, che provenivano direttamente dall’India. Probabilmente mia mamma mi avrebbe detto che, se venivano dall’India, sarebbero state sicuramente delle sedie contaminate e quindi i racconti delle ragazze non facevano che aggiungere agitazione su agitazione al mio organismo già seriamente provato.

    Dopo circa un’oretta di viaggio arrivammo nella multiculturale Mestre: era arrivato il momento! Stavo per avere il mio primo impatto con quella cucina e con quei cibi che mai avevo mangiato nella mia vita, visto che in famiglia non amavamo i prodotti etnici. Arrivammo in via Giuseppe Verdi e, appena uscito dall’auto, una scia profumata sconvolse il mio olfatto. Probabilmente si trattava delle mitiche spezie del subcontinente indiano. Gusti e sapori sconosciuti che mi avrebbero travolto e sconvolto di lì a poco.

    Entrammo nel ristorante e trovammo diversi clienti indiani seduti al loro tavolo a mangiare. Mi raccontarono che questo era un buon segno, perché dimostrava la genuinità della cucina e il rispetto della tradizione gastronomica indiana nella preparazione delle pietanze.

    Parlare di tradizione gastronomica indiana oggi mi fa sorridere. Ogni stato dell’India ha una sua tradizione culinaria e un suo piatto forte (anzi, sicuramente più di uno). Quando ragioniamo sull’India, dobbiamo pensare a un continente più che a uno Stato, senza dimenticare i suoi legami con il Pakistan e il Bangladesh, dove possiamo trovare alcuni piatti in comune o, comunque, molto simili a quelli indiani. Il Nord dell’India ha piatti molto differenti rispetto a quelli del Sud, per non parlare delle specificità culinarie delle città che si affacciano sul mare o delle peculiarità gastronomiche legate al credo religioso di appartenenza di chi prepara il cibo, visto che in India abbiamo una vera e propria esplosione di fedi e religioni molto diverse le une dalle altre. Per esempio, i brahmani non dovrebbero mangiare carne e pesce (ma quelli del Bengala mangiano il pesce, considerato un frutto del mare), i giainisti non toccano l’aglio, per i musulmani è vietato il maiale e la lista potrebbe essere davvero molto lunga. Si può ricostruire la storia dei vari stati dell’India partendo dal cibo servito a tavola! Ogni evoluzione sociale, ogni nuova migrazione, violenta o pacifica che sia stata, ha arricchito il bagaglio di ricette dell’India e il cambiamento è ancora in corso. La pasta, per esempio, che fino a qualche anno fa non era molto diffusa, è entrata nelle cucine della classe media delle grandi città (nel corso dell’indianizzazione è diventata Indian Pasta, con tanto sugo e spezie in abbondanza). Però, nonostante l’enorme varietà e ricchezza dei piatti, quando all’estero si pensa al cibo indiano, ci si riferisce solitamente a una specifica tradizione culinaria: quella diffusa nel Nord dell’India con influenza Moghul (detta mughlai). In Italia la propongono i ristoranti indiani e si trova in tutti i locali che vogliono attirare degli ignari turisti.

    È opportuno fare un po’ di giustizia alla varietà gastronomica indiana per segnalare che c’è un universo di sapori oltre il tandoori, fermo restando che il naan è molto buono. Se dovessimo concentrarci sul cibo dell’India meridionale e di stati come Andhra Pradesh, Karnataka, Kerala e Tamil Nadu (che comunque sono realtà molto diverse tra di loro) potremmo affermare la predilezione per un cibo poco calorico, l’uso del cocco e dell’onnipresente riso. È incredibile la quantità di forme che il riso può assumere! Il pasto tradizionale è servito su foglie di banano e si mangia con le mani. Le pietanze sono più liquide e cremose rispetto al nord (dove si mangia con il pane). Tra le spezie maggiormente utilizzate ci sono i semi di sesamo, il tamarindo e le foglie di curry.

    I bengalesi invece sono famosi, quasi quanto noi italiani, per l’amore per il cibo e per essere portatori di un misterioso gene che li fa morire se non mangiano almeno un pesce al giorno (per fortuna abitano tra estuari e mare, quindi non rischiano l’estinzione). Il cibo bengalese fa uso di cinque spezie preferenziali dette panch phoron e amalgama perfettamente il dolce con il piccante. Abbonda il riso e il latte si frigge nell’olio di sesamo. I dolci sono i più famosi dell’India.

    In Gujarat prevale il vegetarianesimo e il famoso piatto unico, il gujarati thali, che vi viene riempito fino a sazietà, presenta una bilanciata varietà di verdure e legumi per mantenere le persone in salute anche senza le proteine della carne. Variano molto i sapori delle portate, grazie a diverse miscele di spezie e di tecniche di cottura. Solitamente le verdure sono bollite e poi saltate con un mix di spezie sterilizzate nell’olio bollente. I gujarati sono anche famosi per l’attenzione all’igiene in cucina. Predomina il sapore dolce sul salato e piccante ma, nella stagione calda, abbondano sale, pomodori e limoni per prevenire la disidratazione quando la temperatura sale alle stelle.

    Il cibo mughlai deriva da una delle cucine più popolari ed è tra quelle sicuramente più raffinate. Nacque nei palazzi degli imperatori Moghul che hanno portato in India la sofisticazione dei gusti e le influenze centro asiatiche. Un piatto moghul stuzzica l’appetito grazie al profumo delle spezie e accontenta anche l’occhio: molta cura è data alla presentazione delle pietanze. Predominano il burro e le creme, con spezie esotiche che sposano frutta secca e noci indiane. Il cibo non è mai stracotto e si cucina a fuoco basso.

    Per quanto riguarda il Kashmir, che sicuramente ci fa pensare all’Islam, la sua cucina è nata dalla tradizione gastronomica dei pundit, i sacerdoti hindu, e ha amalgamato ricette provenienti dall’Asia centrale, dalla Persia e dall’Afghanistan. Si usano molto lo yogurt, la curcuma, lo zenzero (che questo stato coltiva ed esporta in tutto il mondo) e la carne, ma non quella bovina. Meno abbondanti che altrove le cipolle e l’aglio. Le pietanze sono generalmente cremose e contengono spesso frutta secca.

    Tornando alla nostra storia, ricordo che Mariaelena fosse dispiaciuta perché l’arredo interno del locale era stato modificato: non c’erano più le famose sedie, che erano state sostituite con delle anonime poltroncine in stile occidentale. Probabilmente, pensai con un po’ di malizia, erano state attaccate da qualche pericolosissimo insetto orientale, importato durante il viaggio dall’India in Italia, che le aveva consumate tutte in modo impietoso. Mi rincuorò il fatto che ci fossero le posate sul tavolo: almeno non avremmo mangiato con le mani. Un cameriere indiano sulla quarantina ci fece accomodare e ci portò i listini con il menù. Intanto mi stavo guardando intorno. Alcuni indiani, soprattutto le donne, erano vestiti con i loro abiti tradizionali dai colori sgargianti. Mi colpì una signora anziana con una veste che le lasciava scoperta la pancia: cosa insolita, da noi, per una signora della sua età. Tempo fa ho letto che le parti del corpo che sono un vero e proprio tabù per le donne indiane, e che quindi non possono essere mostrate in pubblico, sono le spalle e le gambe. In realtà, le nuove generazioni non seguono più questi divieti che permangono solamente nella mentalità delle donne più anziane o meno istruite ed emancipate.

    Sulle pareti c’erano quadri e arazzi colorati che raffiguravano strani personaggi che non conoscevo. Non capivo se si trattasse di divinità, di uomini, di donne, di animali o di creature fantastiche. Dentro la mia testa si alternavano pensieri differenti. Provavo contemporaneamente un senso di repulsione e di attrazione per tutto quello che stavo vedendo. C’era un’atmosfera strana e provavo delle emozioni molto contrastanti fra di loro. Non feci trasparire nulla all’ignara compagnia ma, dentro di me, c’era un vero e proprio sconvolgimento in atto. Mi sembrava di essere già stato in quel luogo, di conoscere quella gente e di sapere chi fossero quelle figure rappresentate nei quadri appesi alle pareti. Si trattava solo di rimuovere quello strato di polvere che aveva coperto per così tanto tempo qualcosa che mi apparteneva e al quale, non chiedetemi perché, ero visceralmente legato.

    Iniziai a consultare in autonomia il menù alla carta. I nomi che leggevo non mi dicevano niente: samosa, pakora mix, cheese naan, jhinga biryani, palak paneer, lamb vindaloo… Forse sarebbe stato meglio leggere gli ingredienti! Il cheese naan non doveva essere malvagio visto che si trattava di un semplice pezzo di pane con ripieno di formaggio. Mariaelena, quando indicai la pietanza, mi fece un cenno di approvazione con il capo, dicendomi che era davvero un’ottima scelta. Orgoglioso del mio intuito gastronomico, optai per altri piatti vegetariani come il daal maharani (lenticchie) e il riso basmati con verdure e zenzero. Mariaelena mi consigliò il mango lassi (succo al mango con yogurt) da bere: mi avrebbe aiutato a combattere il caldo, avrebbe contrastato gli incendi orali legati all’attacco delle spezie e, a suo parere, era molto gustoso. La prima prova era stata superata senza troppi intoppi. Appena il cameriere se ne andò con le ordinazioni, dopo aver ripetuto più volte il mantra vuole piccante o poco piccante?, mi accorsi che qualcosa mi stava fissando. In realtà si trattava solo di una grande statua di bronzo che raffigurava uno strano personaggio in carne con la testa da elefante. Probabilmente si trattava di una delle tante stranissime divinità del pantheon induista. Dopo una manciata di minuti si ripresentò il solito cameriere con delle scodelline contenenti varie salsine colorate e una specie di cracker rotondo e sottile (pappad). Ci spiegò che una scodellina conteneva una salsina piccante, un’altra conteneva una salsina al tamarindo e la terza era al sapore di yogurt e cetrioli. Le salsine non piccanti erano letteralmente favolose e piacevolmente fresche. Il contatto della mia lingua con queste leccornie evocò in me immagini di paesi lontani

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1