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Religione e filosofia dello yoga
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E-book302 pagine4 ore

Religione e filosofia dello yoga

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Nel libro Religione e Filosofia dello Yoga di Surendranath Dasgupta il fondamento delle pratiche yoga viene analizzato e messo a confronto con altre pratiche e sistemi di pensiero. L’essenza dello yoga è la stabilità della mente accompagnata dalla soppressione delle modificazioni mentali a favore di una particolare condizione spirituale che conduce progressivamente alla realizzazione del Sé. Il più antico esponente di questo sistema chiamato Rājayoga, il più elevato di tutti gli Yoga e distinto dallo Haṭhayoga e dal Mantrayoga, fu Patañjali, che nel 150 a. C. scrisse gli Yoga-Sūtra.
Nel saggio Religione e Filosofia dello Yoga viene esposto il sistema del Rājayoga secondo le formulazioni di Patañjali e i commenti di Vyāsa, Vācaspati, Vijñānabhikshu e altri Maestri spirituali. L'analisi si sofferma sul fondamento delle pratiche yoghiche, vale a dire sulla sua dottrina filosofica, psicologica, cosmologica, etica e religiosa. Gli aspetti principali dello Yoga sono messi a confronto con altri sistemi di pensiero filosofico e si stabilisce, in particolare, la sua affinità con il sistema del Sāṁkhya.
L’opera si compone di quindici capitoli suddivisi in due parti. La prima parte affronta la metafisica dello yoga, descrivendo soprattutto le caratteristiche e le funzioni di Prakṛti e Puruṣha, la realtà del mondo esterno e il processo di trasfigurazione spirituale.
Nella seconda parte si espone la pratica dello Yoga, ponendo l’accento sul suo metodo, sulle fasi del samādhi e sulle tecniche Yoga. Arricchisce il volume un’appendice sullo sphoṭa, la scienza che studia il contesto spirituale che sostanzia la relazione delle parole con le idee e gli oggetti.

INDICE LIBRO
Introduzione di Nuccio D'Anna
Prefazione
PARTE PRIMA - LA METAFISICA DELLO YOGA
La Prakrti
Il Purusha
La realtà del mondo esterno
Il processo di evoluzione
L'evoluzione delle categorie
Evoluzione e mutamento delle qualità
Evoluzione e Dio
PARTE SECONDA - L'ETICA E LA PRATICA
La mente e le qualità morali
La teoria del Karma
Il problema etico
La pratica dello Yoga
Gli yogānga
Le fasi del samādhi
Dio nello Yoga
Materia e mente
Appendice Sphotavāda
Indice analitico
LinguaItaliano
Data di uscita23 lug 2019
ISBN9788827229361
Religione e filosofia dello yoga
Autore

Surendranath Dasgupta

Surendranath Dasgupta ha avuto un ruolo speciale nella costellazione dei filosofi indiani dell’età contemporanea. Ha ottenuto i più alti riconoscimenti accademici presso le Università di Cambridge, Roma e Calcutta. Ha insegnato nell’Università di Cambridge, a Rajshahi e Chittagong (Bangladesh), ed è stato professore di filosofia nel Presidency College di Calcutta dove è diventato anche preside del prestigioso Sanskrit College. È stato il vero maestro di sanscrito e di yoga di Mircea Eliade ed un prolifico autore di libri, saggi e studi vari sia in bengali che in inglese. La sua opera principale, la monumentale A History of Indian Philosophy, in cinque volumi, è ormai diventata un classico.

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    Anteprima del libro

    Religione e filosofia dello yoga - Surendranath Dasgupta

    Introduzione

    di

    Nuccio D’Anna

    1. Vita di un paṇḍit

    Surendranath Dasgupta nacque nell’ottobre del 1887 nel villaggio di Goila, appartenente al distretto di Kusthia nel Bengala orientale (attuale Bangladesh), in una famiglia molto nota per il solido radicamento tradizionale e la profonda conoscenza della lingua sanscrita. Morì a Lucknow il 18 dicembre del 1952. È stato senza alcun dubbio lo studioso che più e meglio di tutti ha saputo interpretare l’immenso patrimonio della filosofia indiana e, pur facendo uso anche delle modalità espressive della filosofia occidentale, non ha mai abbandonato le categorie classiche che hanno alimentato da sempre l’insegnamento delle scuole tradizionali brahmane.

    Nel 1908 cominciò a studiare organicamente le dottrine spirituali indiane presso il Sanskrit College di Calcutta dove apprese, fra l’altro, le sofisticate forme espressive contenute nella lingua sanscrita approfondendo anche la filosofia grammaticale di Pānini. Fra i suoi maestri si ricorda anche Maramāho-pandhyāya H.P. Shastri, allora onorato come uno dei maggiori esponenti del darṣana Nyāya, propriamente la logica che dal punto di vista delle tradizionali dottrine indù studia gli oggetti di prova ricondotti sempre e comunque alla loro radice universale o metafisica¹. Contemporaneamente ampliava le sue conoscenze spirituali, dottrinali e operative dello yoga frequentando gli ashrama di alcuni celebri maestri bengalesi fra cui Srimat Bijay Krishna Goswam, Prabu Jagat Bandu e Śivaranyan Paramhaṃsa.

    Durante i corsi universitari a Calcutta ebbe modo di partecipare anche agli incontri periodici organizzati dalla locale Theosophical Society. Le dotte relazioni di quello che fin da allora veniva soprannominato Khoka Bhagawan (Fanciullo Divino) furono poi pubblicate in inglese e in bengali nella locale stampa. Nel 1916 fu insignito col Griffith Prize e nel 1920 conseguì finalmente il dottorato in filosofia. Completati gli studi in India, ottenne una borsa elargita dal Mahārāja Sir Manindra Chandra Nandi di Kassimbazar che gli permise di recarsi in Inghilterra per frequentare a Cambridge i corsi di filosofia del triennio 1920-22 tenuti dai professori James Ward (filosofo della psicologia e studioso di parapsicologia) e John Ellis McTaggart (filosofo della religione, metafisico realista e seguace dell’idealismo). Ammirati dalle sue vastissime conoscenze filosofiche, i due celebri cattedratici inglesi arrivarono a considerarlo non come uno dei soliti studenti eruditi, ma come un loro collega.

    La sua lunga carriera accademica a Calcutta in qualità di professore di filosofia presso il Presidency College, il Rajshashi e il Chittagong College (dove insegnò nel periodo 1911-1920 e 1922-1924), è stata sovente interrotta dai numerosi corsi tenuti a Cambridge e dai frequenti seminari chiamato a condurre, anche in età avanzata, in una varietà incredibile di sedi accademiche d’Europa e d’America: Roma, Napoli e Milano in Italia; alla Norman Wait Harris Foundation di Chicago e in una dozzina di altre importanti Università degli Stati Uniti; Breslau, Konigsberg, Berlino, Bonn, Köln, in Germania; e poi Parigi, Londra, Varsavia eccetera. In Italia già nel 1924 era stato invitato per partecipare a Napoli al Primo Congresso internazionale di Filosofia come rappresentante del Bengal Education Department. All’Università di Calcutta ottenne anche l’incarico di Professore di Etica e quello di Direttore del prestigioso Sanskrit College che in gioventù lo aveva accolto come brillante allievo. Eletto nel 1932 Presidente dell’Induism Philosophical Congress, fu inviato come rappresentante dell’India prima nel 1936 a Londra in occasione dell’International Congress of Religions, e poi di nuovo nella successiva seduta celebrata a Parigi del 1939. Ritornò in Italia in occasione del Secondo Congresso Internazionale di Filosofia tenuto a Napoli dove discusse una memorabile relazione su Benedetto Croce e il Buddhismo.

    Finita la guerra, nel dicembre del 1945 fu invitato ancora una volta a Cambridge al Trinity College come insegnante di sanscrito ed esperto di Induismo. Vi si trattenne cinque anni, fino al 1950. Fra i libri pubblicati in questa sua ultima stagione inglese si ricorda anche uno studio sull’arte tradizionale del Bengala il cui fine era quello di fare emergere una sofisticata corrente artistica che la sua stessa marginalità geografica sembrava condannare all’oblio. Come spiegò Giuseppe Tucci, già suo ospite nella casa di Calcutta, ammiratore del valore scientifico dello studioso bengalese e promotore di un importante riconoscimento conferitogli dal prestigioso ISMEO di Roma, Surendranath Dasgupta deve essere considerato uno dei rappresentanti più significativi della cultura indiana del Novecento per quella sua capacità di coniugare temi tipici e irrinunciabili appartenenti al patrimonio tradizionale del suo Paese, con le esigenze culturali ed espositive di una grande Nazione affacciatasi finalmente alla storia mondiale.

    La sua opera principale, vera e propria summa inimitabile che resterà come una pietra miliare negli studi di indianistica, è la monumentale History of Indian Philosophy², iniziata quando ancora le ri­cer­che sulle forme speculative dell’autentico pensiero indù erano oppresse dalla predominanza dello storicismo e del positivismo occidentale. D’altronde, proprio a causa della loro stessa formazione mentale, gli studiosi estranei alla cultura indù non riuscivano in nessun modo ad andare oltre la lettera dei documenti che esaminavano e si limitavano alle apparenze esteriori di una filosofia considerata altezzosamente primitiva e rozza.

    Il primo volume di questa straordinaria History venne pubblicato quando Dasgupta aveva appena cominciato i suoi studi a Cambridge e comprende non solo l’analisi dei tradizionali darṣana (rad. dṛś, vedere, contemplare), ma anche due corposi capitoli nei quali vengono esposti i fondamenti dottrinali del Buddhismo e del Giainismo. La complessità del suo pensiero, e la stessa ampiezza delle fonti documentarie, hanno fatto concludere troppo frettolosamente all’editor del breve profilo apparso nella Encyclopaedia Britannica, che nelle sue opere possa essersi realizzata una sintesi di dottrine del Vedānta con aspetti significativi della religione dei Giaina, idee filosofiche occidentali sull’evoluzione creatrice e il neo-realismo. In realtà, si tratta di un’asserzione che non corrisponde in nessun modo ai fondamenti testuali e alle realtà dei molti libri scritti dallo studioso bengalese. Le sue opere, infatti, si alimentavano non solo con lo studio dei molti maestri indiani poco noti o addirittura sconosciuti ai critici occidentali, ma anche con l’analisi di una quantità stupefacente di documenti in sanscrito, bengali, pāli e prakrito ancora manoscritti e perciò ignorati o considerati dalla critica europea irrilevanti. Ma le tesi del compilatore di questa voce sono assolutamente lontane dalle posizioni filosofiche e dai fondamenti tradizionali che hanno arricchito tutte le variegate ricerche dello studioso indiano. Fra l’altro, sembra ignorare totalmente l’importanza sia dell’educazione rigidamente tradizionale impartita dalla famiglia che la stessa funzione formativa dell’ambiente presso cui aveva vissuto e studiato il giovane Dasgupta. Il suo bisnonno, per esempio, era ben conosciuto in tutto il Bengala orientale per le sue profonde conoscenze di medicina āyurvedica – che, come è ben noto a tutti, è impensabile senza considerare i suoi strettissimi legami, anche operativi, con i fondamenti della spiritualità indù – ed era stato soprannominato Kovīnda per essere stato uno dei maggiori sostenitori del Kovīnda College dove, seguendo strettamente la struttura formativa delle scuole tradizionali brahmane, si continuava a insegnare Kāvya [la sofisticata poesia classica di corte le cui origini si facevano risalire al VII secolo], il Nyāya, il Vedānta e, appunto, la medicina āyurvedica.

    Ma la tesi dell’editor inglese non è solo superficiale, e risulta confutabile persino con la semplice lettura, anche affrettata, già del I volume della monumentale History of Indian Philosophy. Se poi si scorrono gli ultimi studi di Dasgupta pubblicati a Cambridge prima del suo ritorno in India sui rapporti fra scienza naturale e pensiero indù³, oppure quell’altro nel quale si analizza il rapporto fra le semplicistiche prospettive razionali e la religione⁴, ci si accorge della lontananza abissale che separa la dottrina dello studioso indù dalle abituali asserzioni concettuali fiorenti in Occidente. Ed è interessante annotare che il primo di questi libri contiene anche un’importante Appendice intesa a mostrare la superiorità dei princìpi primi o elementi sottili che sostanziano l’impianto cosmologico del sistema Sāṇkhya, i cosiddetti tanmātra (da tad, ciò, e matra, misura), nei confronti delle teorie scientifiche moderne, mentre il secondo si conclude con un excursus (cap. 7) sul valore fondamentale della religione e della diretta esperienza spirituale. Come si vede, si tratta di riflessioni perfettamente coerenti con il fondamento antimoderno di tutto il tradizionale pensiero indù.

    D’altronde, sia la filosofia sull’evoluzione creatrice che le altre speculazioni che hanno alimentato il neorealismo⁵, dal punto di vista della autentica religiosità indù possono essere considerate soltanto come pure produzioni cerebrali, assolutamente non raffrontabili con i fondamenti spirituali che da sempre hanno alimentato i sei darṣana tradizionali. Per ogni studioso indù, infatti, ogni darṣana scaturisce da una realtà sovrannaturale, e tutti insieme vanno a costituire gli aspetti di una vera e propria tradizione o rivelazione o conoscenza sacra (śruti) di origine non-umana. Si tratta di punti di vista rituali non comparabili in nessun modo con qualsiasi forma di costruzione mentale per quanto sofisticata, la quale, proprio in virtù di questa sua irrinunciabile caratteristica umana, resta legata a singole individualità, transeunte, oggettivamente astratta e in se stessa irreale.

    Risulterebbe poi assolutamente impossibile per un indù di antica tradizione – come senza dubbio era il caso dell’intera famiglia Dasgupta, che persino nelle foto di famiglia usava farsi ritrarre accanto all’immagine del dio Ganesha Ganapāthya (Colui che ha la forma di Oṃ) – considerare il Giainismo come un riferimento intellettuale tanto importante da essere paragonato addirittura al Vedānta. Il Giainismo, infatti, resta inappellabilmente un’eresia sempre riconosciuta come tale, speculativamente modesta, patrimonio di una ristretta élite confinata solo in strati della popolazione indiana che non sono mai riusciti a esercitare una vera autorità spirituale, dai fortissimi limiti dottrinali fatti risalire a una antichità pre-vedica simboleggiata dai ventitré Tīrthaṅkara precedenti il Jina storico. In realtà, si dimentica troppo spesso che con i suoi cinque Jagad-guru (Maestri Universali, eredi diretti di Śaṅkarāchārya, i quali risiedono nei cinque Maṭha, i luoghi sacri fondati dal grande Maestro dell’Advaita Vedānta nei punti estremi di una simbolica geografia sacra dell’India⁶), il Vedānta mostra di non esaurire affatto la propria presenza su un piano solamente speculativo o dottrinale, per quanto elevato possa essere, ma di assolvere una funzione assiale che tocca i fondamenti stessi delle forme spirituali del sub-continente, preservando e custodendo l’intero patrimonio tradizionale indù. Si tratta di una funzione universale che ha solide relazioni con la dottrina pan-indiana del Sanātana Dharma⁷ (हिनदू धरम) e, comunque, resta assolutamente senza paragoni possibili con il pur rilevante ruolo coperto dagli altri darṣana.

    2. La riflessione dottrinale

    I libri di Dasgupta più in diretto rapporto con il complesso delle forme spirituali indù sono cinque, tutti apparsi fra il 1920 e il 1933: A Study of Patañjali, 1920; Hindu Mysticism, 1923; Yoga as Philosophy and Religion, 1924; Yoga Philosophy in Relation to Other Systems of Indian Thought, 1930; Indian Idealism, 1933. In realtà, a questi celebri testi bisogna aggiungere anche la raccolta postuma apparsa col titolo Philosophical Essays che accoglie studi compilati essenzialmente a partire dal 1941, ma comprende anche qualche relazione precedente (quella su Benedetto Croce, per esempio). Si tratta di sedici articoli che per la loro specificità assumono un importante rilievo dottrinale. Sette capitoli ritornano ad analizzare aspetti caratteristici della spiritualità indù (Vedānta, Tantra, yoga, funzione della māyā prima nel sistema di Śāṅkara e poi in quelli dei suoi discepoli eccetera), quattro studiano elementi vari del Buddhismo e della sua raffinata logica che per ogni seguace del Vedānta costituiscono da sempre riferimenti obbligati di studio e di confronto critico, uno addirittura approfondisce l’idealismo di Giovanni Gentile e un altro ancora si sofferma sulle eventuali presenze del Buddhismo nel pensiero di Benedetto Croce. Come si vede, si tratta di un corpus di scritti ordinato complessivamente attorno alla spiritualità tradizionale dell’India, studiata sempre con grande erudizione e profondità da Dasgupta, il quale coniuga impeccabilmente le analisi del Vedānta con riflessioni sul valore pan-indiano di alcune forme di misticismo e con la presenza trasfigurante dello yoga in tutta la cultura del sub-continente. Riesce così a far emergere non solo il sostrato metafisico che sostanzia e alimenta le molteplici forme dottrinali fiorite in India, ma persino nelle sue apparentemente laiche e secondarie analisi del pensiero di Gentile e di Croce trova il modo di esaltare addirittura la funzione dei tanmātra, i princìpi cosmologici che hanno alimentato sia la dottrina del Sāṇkhya che lo stesso darṣana yoga, valutati dagli studiosi Occidentali suoi contemporanei come la povera e residuale sopravvivenza di un pensiero primitivo.

    In Hindu mysticism⁸, invece, presenta una breve panoramica di quello che seguendo le abitudini del tempo l’Autore definisce, appunto, misticismo indù. I sei capitoli del libro riprendono le lezioni tenute alla Northwestern University, quando fu chiamato all’incarico di lettore presso la Norman Wait Harris Foundation di Chicago. Toccano via via il "misticismo sacrificale" vedico [basterebbe questa sola definizione ad annullare la pretesa di alcuni Orientalisti che consideravano il sacrificio vedico come una semplice superstizione naturalistica], le "Upanishad e la dottrina dell’‘intuizione superiore’, assieme a quella che Dasgupta chiama l’essenza immortale afferrabile [solo] dall’intelletto, poi il misticismo dello yoga, quello buddhista, cui seguono le forme classiche del misticismo devozionale e, infine, il misticismo devozionale popolare". Quest’ultimo capitolo, già una novità rispetto agli usuali manuali di spiritualità o di filosofia indiana, comprende anche le forme religiose dell’India tamil con le sue articolatissime scuole bhakti, e un breve profilo di personalità come Nadev, Tukaram, Kabir, Mira Bai e Tulsidas, allora quasi totalmente ignorate dai molti ricercatori occidentali suoi contemporanei.

    Ai libri fin qui menzionati, sempre attenti allo sterminato patrimonio spirituale e speculativo dell’India classica, bisogna aggiungere anche il monumentale profilo storico della letteratura sanscrita⁹. È stato pubblicato solo il primo volume dell’opera, poco meno di mille pagine concepite come ausilio per gli studenti dei corsi tenuti nelle tante Università in cui aveva insegnato. Si tratta di un imponente manuale composto con una serie di princìpi descrittivi radicati, come era frequente nell’India classica, anche nella ricchissima tradizione riconducibile a quella che il professore bengalese chiamava la filosofia grammaticale del grande Pāṇini. Ed è interessante annotare come secondo Dasgupta, che fin dai suoi studi universitari aveva mostrato di essere un profondo conoscitore della vastissima letteratura indiana sulla grammatica sanscrita e sulle sue sofisticate implicazioni simbolico-sacrali, proprio il celeberrimo Patañjali, il compilatore degli Yoga-sūtra, deve essere identificato con l’altro Patañjali, l’autore del Mahābhāṣya, un commentario ai sūtra di Pāṇini nel cui Pāṇinidarṣana si trova menzionato lo sphoṭāyana (VI, 1, 123).

    Se si accetta questa identificazione, e si segue l’attenta critica morfologica, grammaticale, storica e dottrinale che ne sostanzia l’identificazione, il celeberrimo testo degli Yoga-sūtra potrebbe farsi risalire addirittura al II secolo. L’elemento decisivo che convinse Dasgupta a propendere per l’accettazione di una tale identificazione sarebbe stata la "teoria dello sphoṭa" (sphoṭavāda), ossia la cosiddetta qualità invariabile del linguaggio, quasi completamente assente nelle altre scuole filosofiche indiane e considerata poco più di una curiosità da parte degli studiosi europei suoi contemporanei. E tuttavia, questa "teoria dello sphoṭa" che altrove sembra avere un rilievo secondario, assume invece un rilevante ruolo dottrinale e compositivo solamente nel Mahābhāṣya e negli Yoga-sūtra, ossia proprio negli scritti attribuiti dalla tradizione ai due Patañjali, il grammatico e il maestro di yoga. Anche Bhoja, il re diventato celebre per il suo commento scritto nel IX secolo agli Yoga-sūtra, considera sicura l’identificazione dei due personaggi e perciò nel suo Rājamārtānḍa ricorda significativamente che le proprie opere di grammatica, yoga e medicina come Patañjali, hanno eliminato le corruzioni del linguaggio, della mente e del corpo.

    Questa arcaica teoria del linguaggio, d’altronde ampiamente presupposta nelle ripetizioni rituali dei mantra dello yoga darṣana, concepisce lo sphoṭa come la dimensione inalterabile immanente al suono, un suono-essenza che si presenta come la sostanza segreta e più profonda di ogni essere, la realtà sonora o archetipo-mediatore fra l’esistente e il suo significato non transeunte, anteriore a ogni formulazione della parola o dei suoi singoli fonemi, un vero e proprio verbum eterno, inudibile e inalterabile. È la realtà sonora che Pio Filippani Ronconi ha definito come "‘Vocalità totale’ (parāvāk) che, nella fase anteriore a qualsiasi determinazione, riposa (śakti) nella propria incontaminata essenza"¹⁰. E tuttavia, proprio da questo indefettibile e principiale suono-essenza deriva ogni suono udibile, pur restando lo sphoṭa sempre altro rispetto alla parola percepibile e formulata che, co­mun­que, resta in permanente relazione con la radice principiale e originaria dalla quale riceve consistenza ogni suono o parola articolata. Come ha spiegato Harold G. Coward¹¹, forse il più autorevole studioso moderno di questa dottrina del linguaggio, con ogni evidenza siamo davanti alla forma primitiva di una teoria del suono che per le sue specificità rituali sembra potersi ricondurre persino alle origini vediche. È anche molto probabile che da questo sostrato sonoro originario così vicino alle modalità rituali richieste dai canti e dagli inni vedici si sia sviluppata l’ampia corrente dottrinale conosciuta come Mantra-śāstra¹² che ha pervaso intimamente tutto il pensiero religioso indiano, molte forme rituali o tecnico-meditative dello stesso yoga ed è diventata una sofisticata componente fondamentale in tutti i movimenti tantrici.

    Non solo, ma sembrerebbe riconducibile a questa ambientazione rituale che da sempre alimenta gli Inni sacri, persino la gāyatri, il metro vedico più diffuso composto da tre versetti di otto sillabe che formano il cosiddetto tṛca. In quanto sāvitrī è il sacro ṛc elevato all’alba di ogni giorno al dio Sūrya (da svar, luce)¹³ dai dvija, i due volte nati: "Meditiamo su questo splendore celeste di Savitṛ; possa egli ispirare i nostri pensieri perché diventino visioni illuminate della Verità" (RV, III, 62, 10).

    Si tratta di un insieme di inni, lodi e canti sacri che in epoca vedica non venivano solamente elevati per onorare gli dèi, ma percepiti e vissuti dai kavi e dai ṛṣi (= veggenti e vati) come vere e proprie condizioni spirituali, visioni la cui recitazione intendeva ordinare il cosmo e indicare una realtà definibile, secondo Jan Gonda, come ‘Onniscienza visiva’, l’attributo specifico […] di quegli dèi che sono in qualche modo connessi con i regni celesti della luce¹⁴. Come si vede, davanti allo spettacolo del cosmo il kavi vedico si poneva misticamente da un lato come il cantore-interprete del fondamento sonoro e persino musicale che alimenta i ritmi celesti, e dall’altro come un veggente che ne coglie la dimensione divina e la perenne ierofania. È nell’ambito di questa speciale forma di luce e suono, a un tempo trionfale e vittoriale, che si distendono abitualmente i due valori assolutamente preminenti del mondo vedico, satya e ṛta, la Verità e l’Ordine¹⁵. Anche per questi aspetti cosmogonici, nel Ṛgveda (III, 38, 1) è usuale comparare il canto dei kavi e dei ṛṣi con l’attività del maestro d’ascia (taṣṭr) che costruisce il carro (ratha) – simbolo vedico del retto pensiero che, come nella disciplina yogica, fa attraversare il divenire e propizia il raggiungimento dei regni sovrasensibili (pārāya). Per riprendere ancora alcune giuste osservazioni del professor Jan Gonda, per il veggente vedico il pensiero è diventato un potere di visione che va molto oltre il semplice livello di un’astrazione logico-razionale e si collega, invece, direttamente al ṛta, l’Ordine cosmico, la norma o regola morale su cui si regge non solo la condotta dei singoli, ma la stessa intera vita rituale. Perciò, canta il RV (VIII, 31, 1), "fluisca la preghiera dalla dimora della Verità (ṛta)".

    Un’altra sua monografia (Rabindranath: the Poet and the Philosopher, 1948) fu scritta da Dasgupta a Cambridge in un momento storico specialissimo per ogni Indiano. Era stata appena proclamata l’indipendenza dell’India e si rendevano necessari riferimenti adeguati per cementare il sentimento unitario e l’orgoglio nazionale delle diversissime popolazioni del sub-continente. Ma forse intendeva mostrare anche agli stessi Inglesi che l’India era ormai sufficientemente pronta per un proprio governo libero e indipendente.

    Il libro segue la scia degli ormai classici e continui omaggi che gli uomini di cultura indiani usavano abitualmente tributare al grande poeta, un vero e proprio pellegrinaggio ideale e persino fisico al quale avevano fin qui partecipato tutti i più eminenti personaggi del Paese, anche studiosi di formazione tradizionale come Ānanda Kentish Coomaraswamy¹⁶. Dasgupta non solo accentua gli omaggi, ma sostanzialmente celebra un tributo nei confronti del valore creativo e persino filosofico di Tagore, e già a partire dal primo capitolo (Unity of genius of Rabindranath) mostra di considerarlo una gloria nazionale che sintetizza ed esprime al meglio le grandi eredità della tradizione. La figura di Tagore emerge con la sua poliedrica complessità e viene tratteggiata non solo come quella del grande poeta-vate nazionale che aveva meritato il riconoscimento del Nobel per la profondità della sua opera complessiva, ma soprattutto come il simbolo stesso della nuova India. Tagore diventa il riferimento pedagogico e culturale obbligato, ricco di valenze filosofiche, speculative e poetiche in grado di indicare ai giovani studiosi di un Paese finalmente indipendente, non astratte filosofie straniere sovrapposte al retaggio tradizionale dell’India, ma gli innumerevoli tesori culturali, artistici e spirituali donati dagli Indù nel corso dei millenni all’intera umanità.

    3. I libri sullo yoga

    Gli scritti di Dasgupta sullo yoga darṣana formano complessivamente un corpus dottrinale molto articolato che fa pensare a un organico progetto originario. Alla sua formulazione hanno concorso non solo i testi allora noti agli studiosi occidentali, ma anche manoscritti conservati in circoli ristrettissimi e rimasti inaccessibili ai semplici ricercatori. La vastità senza eguali del materiale raccolto e il ruolo fondamentale che nella sua ricerca assumono tutti i commenti tradizionali dello Yoga-śāstra – compresi quelli altrove semplicemente menzionati perché considerati minori e conservati nei tanti e variegati ashrama di onoratissimi maestri poco noti al pubblico occidentale – mostra un’ade­sione alla realtà rituale e alla autentica vita spirituale

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