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L'Ombra alle Porte: Trilogia di Tormay
L'Ombra alle Porte: Trilogia di Tormay
L'Ombra alle Porte: Trilogia di Tormay
E-book701 pagine10 ore

L'Ombra alle Porte: Trilogia di Tormay

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Info su questo ebook

Il secondo volume della saga epic fantasy, cominciata con "Il Ragazzo e il Falco", ci riporta alla storia del ladro Jute. Gli emissari dell'Oscurità si sono infiltrati nella città di Hearne alla sua ricerca. Costretto a scappare, il ragazzo fugge dalla città e si dirige nelle regioni del nord. Ma i fantasmi del passato hanno altri piani per lui, e presto Jute e i suoi amici dovranno scegliere tra le loro morti o la distruzione dell'intero regno. Nel frattemo, la misteriosa Lady Levoreth inizia una corsa contro il tempo per scoprire chi c'è dietro i progetti dell'Oscurità.

LinguaItaliano
Data di uscita2 giu 2020
ISBN9781071548929
L'Ombra alle Porte: Trilogia di Tormay

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    Anteprima del libro

    L'Ombra alle Porte - Christopher Bunn

    L’OMBRA ALLE PORTE

    Libro secondo della Trilogia di Tormay

    Di Christopher Bunn

    Libri di Christopher Bunn

    La Trilogia di Tormay

    Il Ragazzo e il Falco

    L’Ombra alle Porte

    Il Giorno Maledetto

    Una Tempesta a Tormay: la trilogia completa di Tormay

    I Racconti di Tormay

    La Ragazza d’Argento

    Il Fischio del Sigillo

    L’Orologio della Furia

    Amanti e Lunatici

    L’Universo Modello e altri racconti

    I Casi di Mike Murphy e altri racconti

    Ghiaccio e Fuoco

    Polly Inch

    L’Oceano non brucerà

    La Ragazza della porta accanto

    Rosamunda. La vera storia della bella addormentata

    La Truffa di Natale

    Per David e Michael

    L’OMBRA ALLE PORTE

    CAPITOLO UNO

    UNA DEGRADAZIONE IMPROVVISA

    Il Coltello sprofondò in una sedia dietro la Locanda del Corvo di Pietra dopo una colazione a base di funghi fritti, salsicce e uova. Inclinò la sedia all’indietro contro il muro. La vista non era delle migliori, ma era piacevole. Diversi cavalli lo guardavano solennemente da oltre la staccionata della stalla. Poteva sentire l’odore di fieno e letame e il denso, caldo sentore che era di cavallo. La luce del sole mattutino era del colore del miele. Serrò gli occhi. Un ricordo galleggiò nella sua mente, di sua madre che lo paragonava ad un gatto pigro che cercava sempre la luce del sole sotto cui dormire. Un sorriso riluttante gli attraversò la faccia. Era da tempo che non pensava a sua madre.

    Se qualcuno non si fosse schiarito la gola lì vicino, Ronan si sarebbe addormentato. Fu una specie di suono garbato, contrito. Poco lontano dalla portata di uno stivale, rifletté tra sé. Peccato. Aprì un occhio. Smede fece un passo indietro.

    Ronan sospirò. «Non si può aspettare fino al mese prossimo?»

    «Il sole sarà qui un altro giorno» disse Smede.

    «Ma forse io no. Vai via. Importuni la mia digestione. Se fossi io il reggente, ci sarebbero meno Smede in questa città.»

    «Uno Smede sarà sufficiente» ribatté questi. «Tuttavia, per quanto siamo entrambi affascinati da me, non c’è tempo per le stupidaggini. L’Uomomuto richiede l’onore della tua presenza. Non appena ti sarà possibile, cioè...»

    «Subito, immagino?» finì Ronan.

    «Certamente» disse Smede. Il contabile lo seguì dal cortile, sorridendo e strofinandosi le mani. I cavalli li guardarono andare via con occhi placidi.

    Ronan aveva indovinato il motivo. Smede non usciva mai alla luce del sole, a meno che non fosse stato per una questione seria. Siccome custodiva i libri per la Gilda, lui era uno dei pochi membri della Gilda che conosceva – così almeno si diceva – la vera identità dell’Uomomuto. L’Uomomuto spesso lo usava come messaggero quando qualcosa di importante bolliva in pentola.

    «Lo so dove sto andando, Smede» disse Ronan accelerando il passo. «Perché non trotti dai tuoi numeri? Venire visto assieme a te non farà alcun bene alla mia reputazione. Non sei un compagno adatto per il temibile Coltello.»

    «No, no. Non mi dispiace una bella passeggiata vivace» disse Smede, le cui abitudini raramente gli richiedevano qualcosa in più di alzare la sua penna dalla boccetta d’inchiostro. «L’esercizio dovrebbe promuovere salute e lunga vita, così ho letto. Io stesso trovo che un’attività rigorosa purifica il fegato e lima le facoltà mentali così tanto che, indisturbata, l’aritmetica della contabilità sembra risolvere i suoi puzzle davanti ai miei occhi. Davvero, uno stato delizioso. Però, l’applicazione di sanguisughe produce in me lo stesso effetto. Non trovi anche tu?»

    Hearne brulicava di persone quel mattino. La città era abbastanza affollata ogni giorno dell’anno, poiché Hearne era il centro, il cuore di Tormay, la magnetite che attirava i viaggiatori e i commercianti da tutte le altre terre. Questa era stata la vecchia sede del potere, quando i re ancora governavano Tormay come un’unica terra unita. Sebbene il regime si fosse sparpagliato nei ducati tempo fa, le persone ancora viaggiavano fino a Hearne per guardare a bocca aperta i castelli e le magioni, gli spalti a guglia e i manieri che chiudevano le vette di Rialto di Altocollo, le tentacolari banchine di pietra, e la misteriosa, rovinata grandiosità dell’una volta potente università che ora si ergeva silenziosa, protetta e incatenata. E, ovviamente, le persone venivano ad Hearne per il commercio. I mercati di Hearne compravano e vendevano tutto ciò che bisognava avere in tutti i ducati di Tormay. Se il denaro poteva comprare qualcosa, allora si poteva trovare a Hearne.

    Ma questa mattina le strade erano ancora più affollate del solito. Questo perché in meno di un mese sarebbe cominciata l’annuale Fiera d’Autunno, quando i lord e le signore di tutti i ducati di Tormay venivano ad Hearne per godere dell’ospitalità del suo reggente, Nimman Botrell. La Fiera attirava ogni commerciante di Tormay a comprare, vendere e barattare. Stranezze magiche riportate alla luce dal passato, rare tessiture e vini, gemme e sete, tassi ballerini e gatti della sabbia scontrosi dal regno meridionale di Harth che potevano venire incantati in barriere e, in quanto tali, fornivano una delle più pericolose ed effettive protezioni per gli edifici che l’oro poteva comprare. In breve, la Fiera d’Autunno era un periodo di celebrazione delle cose più rare, belle, valevoli e fini di Tormay, tirate fuori per impressionare e stupire, per incantare ed irretire. Era un periodo per fare e perdere fortune.

    E la Fiera d’Autunno era una miniera d’oro per la Gilda dei Ladri.

    I commercianti arrivavano da tutta la settimana, scarrozzando i loro beni su cammelli, muli, navi o a cavallo. Si sistemavano in alloggi affittati e cominciavano le preparazioni per il mese in arrivo. Pronti per la raccolta.

    Le dita di Ronan si contrassero dall’impazienza. Con un buon lavoro o due con grasse raccolte, e con ciò che aveva ricevuto dal lavoro di spazzacamino l’altra notte, avrebbe avuto abbastanza per lasciare la città. Sarebbe andato a Flessoray e si sarebbe trovato un’isola. Pesca e fredda luce solare. Il mare.

    Vicino a lui, Smede strattonò la sua manica.

    «Cosa?» disse lui afferrando una mela da un carro di passaggio. La morse.

    «Usiamo la casa della vedova di Grusan» disse Smede. «È l’entrata più vicina, appena in fondo al prossimo vicolo, e alll’Uomomuto non piace che lo si faccia attendere.»

    La Gilda possedeva varie entrate ed uscite verso il quartier generale dell’Uomomuto per tutta la città. Diverse si trovavano in molti luoghi pubblici, come la taverna de l’Oca e l’Oro, mentre altre erano situate in residenze private come la casa della vedova di Grusan, e, in tal modo, la loro esistenza non era ampiamente conosciuta tra i ranghi inferiori e le file della Gilda.

    «Oh, va bene» disse Ronan, non volendo ammettere che lui fosse ignaro di quella particolare entrata. La mela, mezza mangiata, navigava nelle fogne. Svoltarono nel vicolo.

    Si fermarono ad una porta di legno nascosta in un angolo. Era così piccola e quasi invisibile che un passante usuale non l’avrebbe mai notata. Il contabile bussò, e dopo un momento la porta si aprì cigolando. Una donna anziana li scrutò. Il luogo era buio e malsano, pieno dell’odore di zuppa d’avena inacidita e ricolmo di mobili sgangherati che sembravano consistere la maggior parte di braccioli e gambe rotti. Delle ragnatele pendevano dal soffitto ed addobbavano i mobili e le pareti i loro sporchi tessuti grigi.

    «È bellissimo vederti, Vedova Grusan» esordì Smede. «Sembri la perfetta rosa della salute. Cos’è che fai? Esercizio, tè caldo, dosi regolari della luce del sole, zuppa di fegato filtrata attraverso una garza per rimuovere tutti i disgustosi granelli di sabbia? Forza, devo conoscere il tuo segreto. Dimmi tutto.»

    «Birra, e molta» disse lei. La vedova Grusan era una collezione di ossa e pelle rugosa. Ciuffi di capelli fuoriuscivano da sotto una cuffia lavorata a mano. «Con due denti, non c’è molto altro che prenda. Ora dimmi, piccolo uomo, dov’è il mio argento del mese? La Gilda non mi ha pagato ed io sto seduta qui, a masticarmi le gengive.»

    Questa era, forse, l’unica sorta di cosa che poteva far scappare Smede. Saltò come un coniglio spaventato alle sue parole.

    «Oh cavolo, Ronan, siamo in ritardo, e noi...»

    «Non siamo così in ritardo» ribatté il Coltello. «Quanto vi deve la Gilda, madame?»

    «... certamente non vogliamo farla, ehm, aspettare, vero?»

    «Cinque pezzi d’argento» disse la vecchia. «Ben poco per permettere alla marmaglia di entrare in casa mia a tutte le ore della notte, portando con sé terra sui miei pavimenti puliti e mandando nel panico i miei animali. Non è chiedere molto avere l’argento in orario, no?»

    «Certo che no» rispose Ronan. «Non dovreste aspettarvi niente di meno. La Gilda si vanta delle sue efficienti pratiche d’affari, incluso il pagamento dei debiti. Giusto, Smede?»

    «Beh, sì» disse Smede riluttante.

    «Che ci crediate o no, madame,» continuò il coltello «il mio amico Smede, qui, si dà il caso che sia il capo nababbo della Gilda e, per questo, può pagarvi facilmente il vostro argento.»

    «Ma pensa un po’» disse la vecchia. «Non sembra per nulla, così com’è, tutto pallido e agitato. Nervoso.»

    A quel punto, Smede non ebbe altra scelta. Si raddrizzò in modo altezzoso come meglio poté e consegnò l’argento, spuntato da un portamonete unto che aveva tirato fuori dall’interno della sua giacca.

    La vedova Grusan li portò in una stanza, dove un grande arazzo era appeso ad una parete. La tessitura era coperta di spirali blu e contorte linee nere che si intrecciavano l’una dentro e fuori l’altra in una maniera stupefacente che non aveva alcun senso per l’occhio. Probabilmente di origine harthiana, pensò il Coltello fra sé. Ed era una barriera. Poteva sentire il debole ronzio di avvertimento, tremante sul bordo della sua percezione. Definitivamente una barriera, ma di un tipo strano.

    La vecchia donna zoppicò fino all’arazzo e mormorò alcune parole inudibili. Le spirali e le linee si animarono, e, come un groviglio di serpenti che si risvegliava, strisciarono via dal centro della tappezzeria finché non ci fu solo piatta lana nera nel mezzo della decorazione. Smede fece un passo in avanti, si immerse nell’arazzo e sparì.

    C’era qualcosa di inquietante a proposito dell’arazzo, il modo in cui quelle linee erano diventate vive in preda alle convulsioni, facendosi strada attraverso il tessuto di lana. L’oscurità della stanza pesava su Ronan. Lui si sentiva vecchio e stanco. Che stava facendo nella vita ristretta, delineata da pietre di Hearne? Aveva bisogno di ampi spazi aperti e di fuga dall’eterno pensiero se il giorno successivo avrebbe portato la sua morte, con tutti i suoi fantasmi del passato come pubblico vigile.

    «Non starà aperta per sempre.»

    «Cosa?» chiese lui.

    «La porta... non durerà» disse lei. La sua voce era sottilissima, consumata dall’età. «Avanti o indietro, tesoro, quello è il nostro destino... non era mai stato previsto per noi di stare fermi in un punto come uno stupido bue, poiché allora la morte ci troverà alla svelta.»

    Lui le lanciò uno sguardo torvo e fece un passo in avanti attraverso una soffice, aderente sensazione. I viticci gli oscurarono la vista, e poi lui si trovò in uno stretto passaggio. Una torcia era avvolta da freddo fuoco blu sul muro, dando abbastanza luce da rivelare tracce di muratura di pietra polverosa e la faccia accigliata di Smede. Ronan si girò, ma non c’era nulla dietro di lui eccetto un vuoto muro di pietra.

    «Forza,» disse il contabile, «non abbiamo tutto il giorno.»

    Gli ci vollero quasi mezz’ora di camminata attraverso il tetro passaggio per raggiungere la corte dell’Uomomuto. Camminarono in silenzio, poiché Smede era scontroso e a Ronan non piaceva parlare col contabile, persino nei giorni migliori. Il passaggio deviava e curvava in un modo che sfidava la logica. In certi posti, arrivavano ad incroci angusti dove gli altri passaggi piombavano nelle ombre. Ma in tali punti, dove sarebbe stato facile perdere la via, una mano bianca, dipinta in alto sul muro, indicava sempre in direzione della corte dell’Uomomuto.

    Il passaggio finiva ad una porta di ferro. Non c’erano maniglie, solo un picchiotto. Il contabile guardò inespressivo Ronan, poi lasciò sbattere il picchiotto. Un rumore simile ad una campana suonò ed echeggiò nell’oscurità del passaggio. Pareva un rintocco funebre. La porta si spalancò.

    Davanti a loro vi era una stretta sala, delineata da pilastri che si innalzavano fino ad un basso soffitto. Le incisioni adornavano i muri di pietra, scene elaborate della città, tutto di Hearne – le abitazioni dei ricchi e dei poveri, i mercati affollati, i boschetti e le fontane di Rialto di Altocollo – cesellato in graziosi colpi da qualche artigiano morto da tempo. Vi era una serie di porte dietro i pilastri da ciascun lato dei muri. Le stesse strane torce che illuminavano il passaggio con il loro freddo fuoco blu erano l’unica fonte di illuminazione nella sala.

    Non appena Ronan attraversò la porta, la carne sulla nuca gli si accapponò. Mai, in tutta la sua vita con la Gilda, la corte era stata vuota quando lui era stato lì. Era sempre stato un luogo sprizzante di vita, di voci alte e di una moltitudine di conversazioni mescolate insieme nel fragore incoerente di una famiglia. Un’astuta, subdola famiglia che avrebbe potuto pugnalarti alle spalle se ce ne fosse stata l’opportunità – vero -, ma sempre una famiglia.

    Ora, però, c’era solo silenzio. Dall’altro lato della sala attendevano due persone. In piedi vicino alla pedana v’era la piccola figura di Dreccan Gor – attendente e consigliere dell’Uomomuto –. Stravaccato nel sedile di pietra sulla pedana c’era l’Uomomuto.

    «Avvicinatevi» disse questi.

    Smede e Ronan camminarono per tutta l’immensa, solitaria lunghezza della sala. L’Uomomuto si piegò in avanti quando loro si furono avvicinati. La sua faccia era una macchia di ombra incantata che si sfocava ogniqualvolta Ronan lo guardava. Le torce da entrambi i lati della pedana delineavano la sua scranna di pietra con luce blu e prestavano una tonalità malaticcia alla faccia di Dreccan Gor. L’ombra che copriva l’Uomomuto beveva la luce e non veniva diminuita.

    «Quanto tempo è passato, Ronan,» disse l’Uomomuto, «dalla prima volta che sei entrato nella mia attività?»

    «Tredici anni» offrì Dreccan. «Più o meno.»

    Un rivolo di sudore corse giù per la schiena di Ronan.

    «L’attendente ha ragione, mio signore» disse. «Quasi tredici anni.»

    L’uomo si appoggiò nel suo scranno. «Quando divenni Uomomuto per la prima volta, la Gilda era una struttura mediocre, una marmaglia governata da una fulminea successione di sciocchi incapaci di vedere oltre le proprie brame. Ma io ho integrato la Gilda in un’attività che si estende a nord fino alla costa di Thule e a sud fino ai bazar di Damarkan a Harth. Ho dominato la Gilda col pugno di ferro – non lo negherò, in particolare a voi tre che sapete più di tutti gli altri membri messi insieme – ma la mia severità è stata più che bilanciata dal nostro successo. Per quanto molto di esso sia dovuto al mio volere, una parte di questo successo è dipeso anche dal circondarmi di persone capaci e straordinarie – soprattutto voi tre –. Se mi asseconderete, voi tre sarete la morte, il denaro e la saggezza personificati. Ed io, ovviamente, sarò il potere.

    «Le tediose macchinazioni di denaro sono, nelle tue mani, Smede, un’opera d’arte. Che cos’eri prima che ti trovassi... un mercante di stoffe a Vomaro che accumulava pezzi di seta? Tu cogli il significato da un centinaio di differenti filamenti d’oro aggrovigliati che si tessono la loro via attraverso Hearne. Con te ai tuoi libri, io posso riposare tranquillo, in quanto conosco la tua diligenza.»

    «Vi ringrazio, mio signore» disse il contabile. Dalla coda del suo occhio, Ronan notò Smede scostarsi da lui.

    «E Dreccan Gor, la Gilda ha tratto vantaggio dai tuoi consigli. I Gor hanno sempre servito bene la casata di Botrell, la nostra linea di sangue annacquato di reggenti dominanti, così come fai tu ancora oggi, ma io immagino che la tua saggezza faccia più bene alla Gilda.»

    Il grasso attendente si inchinò.

    «Noi Gor abbiamo consigliato la casata di Botrell per quasi due secoli» spiegò l’attendente. «Il nostro reggente attuale, Nimman Botrell, si è dimostrato essere una specie di segugio perdigiorno e pigro, ma noi gli siamo comunque rimasti accanto, mio padre prima di me, ed ora io. Noi siamo i Gor.»

    Una risata collerica echeggiò dalle ombre della sedia dell’Uomomuto. «E se il reggente sentisse le tue parole, Dreccan?»

    «Gliele direi in faccia, mio signore,» disse l’attendente, «se lo pensassi proficuo per lui e Hearne.»

    «Sospetto che lo faresti, ma tu sprechi il tuo tempo con Botrell.»

    Dreccan si inchinò di nuovo. «Io vi servo meglio col mio orecchio nel castello del reggente, al corrente dei suoi pensieri.»

    «Purché non vi sia un conflitto» si assicurò l’Uomomuto.

    Ronan aveva la netta impressione che la conversazione fosse una farsa, un ritardo mentre l’Uomomuto lo esaminava dalle ombre.

    «Ed il mio Coltello» disse questi.

    Un respiro d’aria volò sulla faccia di Ronan. Il sudore spuntò dalla fronte al suo tocco.

    «Tredici anni» disse la figura ombrosa. «Tredici anni, ed io non ho mai avuto motivo per lamentarmi. Tutti i lavori più duri, tutte le questioni delicate che non potevo lasciare in mani altrui, e tutte le morti che ho trovato purtroppo necessarie. Non ho mai gradito la morte di un compagno della Gilda...»

    «Neanch’io» mormorò Ronan.

    «Ma ti sei sempre dimostrato fedele al compito.»

    «Già» disse Dreccan Gor. «Affidabile. Equilibrato quanto uno di quei mercantili thuliani.»

    «È questo il problema, Ronan» continuò l’Uomomuto ignorando il suo attendente. «Quando la Gilda viene ingaggiata per svolgere un lavoro, la mia parola data è garanzia che il cliente verrà soddisfatto. La nostra reputazione si basa su questo. Quando quella reputazione viene intaccata, i nostri profitti crollano. Questo, non posso permetterlo.»

    «Ho sempre dato alla Gilda la mia completa lealtà, mio signore» disse Ronan. «Che cosa suggerisce il vostro discorso? Confesso di essere confuso.»

    «La Gilda è stata recentemente ingaggiata per recuperare una scatola dalla casa di Nio Secganon, un membro di quel gruppo di studiosi che perdono tempo nelle rovine dell’università. Stanno cercando antichi manoscritti e quant’altro. Gingilli dal passato. Botrell è uno sciocco. Non avrebbe mai dovuto consentire loro l’autorizzazione. È sempre meglio lasciar riposare il passato. Comunque, la scatola era precedentemente appartenuta ad un nostro cliente e poi, sfortunatamente, ha trovato la sua via nelle mani di questo tizio, Nio.»

    «La scatola incisa con il falco» disse Ronan. «La ricordo. L’ho consegnata nelle vostre mani in piena vista dell’attendente qui presente, appena pochi giorni fa.»

    «Tutti i dettagli del lavoro sono stati rispettati?»

    «Ovviamente.»

    I ricordi di quella notte percorsero la mente di Ronan. Il cielo senza luna. Ascoltando il camino e sentendo la silenziosa discesa del ragazzo giù attraverso l’oscurità. Aspettando rannicchiato sul tetto e osservando l’orizzonte dormiente di Hearne. Tensione nella corda, a significare il ritorno del ragazzo. Il piccolo coltello avvelenato nascosto e in attesa dentro il suo mantello. E il senso di colpa. Intorpidito come non mai, ma ugualmente senso di colpa.

    «Invece no» disse l’Uomomuto. «La scatola è stata aperta.»

    «Che cosa intendete, mio signore?» chiese Ronan.

    «La scatola è stata aperta» ripeté l’altro. La sua voce, diminuita ad un rozzo sussurro da qualsiasi magia lo oscurava, era feroce. «Era la più semplice delle istruzioni. Che cosa devo fare se il mio ladro più fidato, il mio assassino più abile, non mi obbedisce?»

    «Io non l’ho aperta» si giustificò Ronan, odiando la figura ombrosa di fronte a lui. «Sono diventato il Coltello per agire come un bambino, per sentire parole e poi dimenticarmele?»

    «Ma il ragazzo è morto, vero?»

    «Senza alcun dubbio» disse Ronan. «Ha preso abbastanza lianol da uccidere tutti e quattro noi. Sarebbe morto trenta secondi dopo che l’ho infilzato. Ci scommetterei la mia stessa vita.»

    «Potrei anche prenderti in parola.»

    Le parole caddero nel silenzio della stanza e giacquero lì, pesanti ed immobili. La luce delle torce riluceva sulla faccia di Dreccan Gor. Le sue grasse mascelle luccicavano di sudore. Una parte spassionata della mente di Ronan lo osservò con interesse. Ha paura. Questo vecchio uomo grasso che credevo solido ed inamovibile come la collina di Rialto di Altocollo. L’incrollabile Gor teme qualcosa. Qualcosa che non viene detto, dietro queste parole e qualunque cosa sia nella mente subdola del nostro Uomomuto. Qualcosa è in attesa nelle ombre dietro di loro.

    Anche io ho paura.

    «Mio signore?» disse Ronan.

    I suoi sensi rabbrividirono, sospesi per l’improvviso movimento. Sentì il peso del coltello appeso al collo. Un secondo. Era tutto ciò che ci voleva per sfoderare e lanciare il coltello. Poteva già vederlo conficcato nella gola dell’Uomomuto. Lui non sbagliava mai. Ma non sapeva che tipo di magia stesse proteggendo l’uomo. Le sue dita si contrassero una volta, poi rimasero immobili.

    «La scatola è stata aperta prima che raggiungesse questa corte. Di quello non ho dubbi.»

    «Come fate a sapere che questo è vero, mio signore?» disse Ronan.

    L’Uomomuto agitò una mano per l’irritazione. «È stata aperta. Conteneva un oggetto di grande potere ed ora è sparito. Era sparito prima che tu portassi la scatola qui.»

    «Ma voi avete solo la parola del vostro cliente su questo. Forse lui è semplicemente...»

    «Silenzio!»

    L’Uomomuto si alzò dalla sua scranna di pietra con furia. L’ombra si addensò attorno a lui, e le torce lungo la sala si affievolirono come se soffocate dall’aria.

    «Osi mettermi in dubbio?» disse. «La scatola è stata aperta.»

    «Non da me» disse Ronan.

    «Qualcuno ha aperto la dannata cosa!»

    I pensieri di Ronan colmarono rapidamente le risposte, le opzioni. Ce n’era solo una. Ma era impossibile. La faccia del ragazzo, confusa e spaventata e capendo tutto in una volta, balenò nella sua mente. Svanendo nell’oscurità del camino.

    «Ciò significa,» disse l’Uomomuto, «una delle due possibilità. O il ragazzo ha aperto la scatola, oppure l’hai aperta tu.»

    «E,» soggiunse Dreccan, «se il ragazzo ha aperto la scatola, potrebbe essere ancora vivo.»

    «Ma il lianol...»

    «Il lianol non l’avrebbe ucciso se lui avesse aperto la scatola. Qualunque cosa ci fosse in essa potrebbe averlo – non ne sono sicuro – protetto. Forse salvaguardato.»

    L’Uomomuto puntò un lungo braccio nero contro Ronan. «Uno di voi ha aperto la scatola.»

    Non appena la furia dell’Uomomuto divampò, essa era già sparita, smorzata ed invisibile sotto le ombre che inghirlandavano il suo corpo. Ma Ronan poteva sentirla vibrare al di sotto della superficie delle parole dell’Uomomuto. La rabbia, in risposta, sgorgò all’interno della sua mente. La sua bocca divenne secca con essa e le sue mani tremarono. La rabbia era screziata di paura. Odiava l’Uomomuto, allora come non mai, in quanto aveva un tale effetto su di lui, sul Coltello, il temibile esecutore della Gilda.

    «È coinvolta la magia» disse l’Uomomuto, parlando più a se stesso ora che ai tre radunati di fronte a lui. Si mosse inquietamente sulla sua sedia. Le ombre si spostarono attorno a lui. «Ancora non sappiamo ciò che la scatola conteneva. Il nostro cliente si sta dimostrando insolitamente taciturno sulla questione. C’è la possibilità che qualcosa di inusuale sia capitato al ragazzo, come ha detto Dreccan. Se lui avesse aperto la scatola. Non lo escluderò. Tu sei convinto che sia morto, Ronan. Ma la tua certezza ti pone in una brutta situazione. Poiché se lui è morto, ciò mi lascia con poche opzioni. Sei pertanto destituito dalla posizione di Coltello della Gilda. Ti relegherai dentro le mura cittadine. Lascia Hearne, e la tua vita è persa.»

    «Lo troverò» disse Ronan, la sua voce rauca. «Il suo corpo, qualsiasi cosa...»

    «Sparisci dalla mia vista» ordinò l’uomo. La sua voce fu monotona, come se la sua mente fosse già impegnata altrove.

    Pallido in volto, Ronan si inchinò. Si voltò e si allontanò. Smede lo seguì. Le torce sgocciolarono nella sala quando la porta si chiuse. L’Uomomuto e il suo attendente rimasero soli.

    «Quali sono i tuoi pensieri, Dreccan?» chiese poi. La sua voce stava cambiando. Il sussurro forzato si rilassò agli uniformi toni di un uomo beneducato. Le ombre attorno alla sua figura si ritirarono.

    «Non riesco a dormire la notte, ma sento la voce di quella cosa sussurrare» disse Dreccan. «Sobbalzo ad ogni ombra e mi contraggo al minimo rumore, pensando che lui – che essa – sarà lì in piedi quando mi girerò. Temo che la Gilda abbia scelto malamente. La magia è una questione rischiosa nella migliore delle ipotesi, ma questa cosa con cui stiamo avendo a che fare è probabilmente qualcosa del lontano passato, qualcosa che era vecchia persino prima della Guerra di Mezzestate. Non dubito delle capacità del vostro animaletto mago, ma questa cosa va oltre lui.»

    «Può darsi» concordò l’Uomomuto. «Ma persino lui potrebbe profetizzare l’interno della scatola e dirci che una volta conteneva un grande potere.»

    «Penso che possiamo presumere che il nostro cliente non abbia mentito. Chiunque abbia aperto quella scatola ha aperto anche una porta che sarebbe stato meglio lasciare chiusa. Non sappiamo che cosa è giunto strisciando da essa. La nostra rovina, forse.»

    «La rovina di Hearne» disse l’Uomomuto. «Era troppo oro per poter rifiutare, e tu sai quanto vuoti siano i nostri forzieri.» Rise bruscamente, un aspro abbaio privo di allegria. «Forse la mia ingordigia ha avuto la meglio su di noi.»

    «Trovo difficile credere che Ronan fosse coinvolto in tutto ciò. È stato sempre leale per tredici anni, e lui conosce la punizione... come dovrebbe, visto che è stato lui a infliggerla.»

    «Ma vi sono poche opzioni davanti a noi» disse l’Uomomuto. Il suo pugno sbatté sul bracciolo dello scranno. «Due persone hanno maneggiato quella dannata scatola tra il furto e la sua consegna a noi: un ragazzo che potrebbe essere vivo o morto, ed un decisamente vivo Ronan. Che cosa dovrei pensare?»

    «Non abbiamo il ragazzo. Vivo o meno.»

    «Vero.»

    «Se Ronan ci sta riflettendo – e scommetto che il suo intero cervello è alle prese col problema –, allora troverà il ragazzo, se quest’ultimo verrà ricercato. Il Coltello o no, lui è ancora il migliore che la Gilda possieda.»

    «La sua salvezza è il ragazzo vivo, quindi deve trovarlo. Ma che cosa troverà?»

    «Quello è il perno su cui ruota tutto il resto.»

    «Fallo sorvegliare.»

    «Oh, sarà sorvegliato» disse l’attendente. «Non temete. I cani sono già sulle sue tracce.»

    CAPITOLO DUE

    LA CAMPAGNA SI RADUNA IN CITTÀ

    La comitiva del Duca di Dolan valicò l’altura nel margine meridionale di Skarp e cominciò la sua discesa nella valle di Rennet. Le piogge estive erano state gentili con la vallata, ed era una rigogliosa visione di vegetazione. Il fiume Rennet giaceva sotto di loro come un luccicante serpente argentato, strisciando attraverso i mosaici di campi di grano, fieno e orzo dorato. Ad ovest, la valle dava su colline rotondeggianti. La città di Hearne sorgeva lì, splendente sotto il sole pomeridiano. Alte mura di pietra, fiere torri bianche contro il mare al di là, guglie che minacciavano il cielo come innumerevoli aghi sottili. Il fiume scorreva oltre la città per incontrare il mare sotto il muro meridionale. Ma sebbene la città risplendesse, il mare riluceva ancor più radioso. Una scintillante distesa di luce blu che si confondeva col cielo.

    Il vento si zittiva a fondovalle, poiché le vette da entrambi i lati erano più grandi di ciò che sembravano. Ovunque vi era l’odore umido del limo e il trillo degli uccelli. La musica del fiume vagava su di loro in tutta la sua voce liquida.

    Raggiunsero i cancelli poco dopo il tramonto. Un ufficiale li guidò con la luce della torcia per le strade cittadine, serpeggiando sempre più in alto verso il distretto di Rialto di Altocollo e il castello del reggente, che torreggiava su tutto dalla sua rupe. I loro cavalli scalpitarono sul ponte di pietra che portava nel cortile del castello del reggente. Stallieri e lacchè si materializzarono attorno a loro per impossessarsi degli animali e dei bagagli. L’attendente del reggente scese gli scalini di marmo, prostrandosi. Nimman Botrell si trovava in cima. La luce delle torce illuminava tutto intorno a lui, respingendo la notte.

    «Hennen Callas!» chiamò il reggente sorridendo. «Voi e i vostri siete i benvenuti nella mia dimora.»

    Era alto e aveva un viso soffice e dall’aria stupida, un qualche tipo di uomo corpulento con delicate mani bianche che sarebbero sembrate più adatte ad una donna che al reggente di Hearne. Era squisitamente abbigliato con seta e velluto. Un damerino, ad un’occhiata casuale. Ma solo coloro senza buon senso avrebbero incautamente ignorato Botrell. Sebbene il suo aspetto non ispirasse fiducia, aveva abilmente governato Hearne per più di tre decadi, rafforzando il commercio e migliorando le relazioni con i duchi.

    «È sempre un onore avere voi e vostro marito, mia signora» disse poi, inchinandosi sulla mano di Melanor Callas. «È passato troppo tempo. Le signore di Hearne svanirebbero in presenza delle rose settentrionali come voi.»

    «Questa poi, Nimman» ridacchiò la duchessa. «Continuate.»

    «Sì, continuate» disse Levoreth quando il reggente trasferì la sua attenzione su di lei. Le sue labbra sfiorarono il dorso della sua mano come il battito di una farfalla.

    «Ah, Lady Levoreth. Farete girare le teste dei nostri giovani nobiluomini come mai prima d’ora.»

    «Forse le loro teste gireranno così tanto da cadere. Senz’altro un miglioramento per tutti loro.»

    «Che bellezza. Che passione.» Si voltò verso il duca e la duchessa. «Dovete essere orgogliosi di vostra nipote.»

    «Oh, abbastanza» ammiccò il duca. Sua moglie mimò qualcosa di inintelligibile e di rimprovero a Levoreth, la quale la guardò torva da dietro il reggente.

    «Il mio attendente vi mostrerà le vostre camere» disse questi. «Ora, se volete scusarmi, ho alcune faccende di cui occuparmi. Dettagli e quant’altro per il grande ballo, sapete. Sono così lieto di vedervi dopo così tanto tempo. Hennen, domattina dobbiamo parlare di cavalli. Ho un giovane puledro che dovreste vedere.»

    Il castello era magnifico. Persino Levoreth, che non era mai stata interessata agli edifici in generale, rimase cionondimeno impressionata. Era passato molto tempo da che era stata ad Hearne ed aveva dimenticato. Da dentro una vasta anticamera coperta da archi a volta che si curvavano sopra di lei, corridoi e scalinate si estendevano in ogni direzione possibile, tutto costruito in marmo bianco levigato in modo splendido e che luccicava con la luce di innumerevoli lumi. I servi s’affaccendavano su piedi silenziosi. Da qualche parte una fontana non vista spruzzava. L’attendente mostrò loro una serie di camere che sembravano estendersi all’infinito: porta dopo porta che si aprivano in ulteriori stanze, un solario col suo tetto vetrato che rivelava il cielo stellato, ed una cucina dove tre servi si inchinarono e sorrisero e si inchinarono di nuovo.

    «Loro provvederanno ai vostri bisogni» disse l’attendente.

    I tre servi sorrisero, si prostrarono ancora e mormorarono in modo educato.

    In un batter d’occhio, un fuoco stava scoppiettando nel camino, le candele rilucevano ed uno dei servi entrò con un vassoio di pane, formaggio e frutta.

    «Forse un’omelette?» ipotizzò il duca, ma sua moglie lo guardò male.

    «È troppo tardi» disse lei. «Il tuo stomaco brontolerà di notte.»

    «Una bella omelette leggera...»

    «Prendi una mela.»

    Anche Levoreth prese una mela. La sua camera da letto aveva un balcone che dava sulla città sottostante. Si appoggiò alla balaustra e diede un morso al frutto. Oltre le mura del castello, le luci scintillavano nell’oscurità. Qualcosa tremolò nell’aria, una lieve calura e il silenzio del vento che tratteneva il suo respiro. Una tempesta stava arrivando. Poteva sentire l’odore della promessa della pioggia. Chiuse gli occhi. I suoi pensieri volarono via rapidamente, ma non c’era altro che oscurità, gelo e nebbia che premevano contro la sua mente.

    Qualcosa è lì. Qualcosa di malvagio. Vicino alle montagne. I lupi devono cacciare da soli ancora per un po’. Una tempesta sta arrivando.

    In lontananza, a est, un tuono rombò. Lei ritornò dentro e chiuse a chiave le porte del balcone.

    CAPITOLO TRE

    L’OMBRA ALLE PORTE

    ––––––––

    Fulmini cadevano nel lontano oriente. Frustate di fiamma bianca sferzavano fuori dalle tenebre di nubi e oscurità. Il cielo era sfregiato da disegni di fuoco che bruciavano sulla vista di un uomo per i successivi minuti. L’aria era densa di calore, del sapore del metallo e della promessa di pioggia. I tuoni borbottavano. Era l’unico suono nel cielo, in quanto non vi era vento. I tuoni sembravano come il ruggito di qualche strana bestia che cacciava fra le stelle e l’oscurità del cielo.

    La città di Hearne era stranamente deserta quella sera, nonostante l’inizio della Fiera d’Autunno. Alcune bancarelle e carretti si trovavano ancora sui ciottoli di Piazza Mioja, ma non c’era animo nei venditori mentre proponevano i loro prodotti. Nessuno stava comprando cipolle, fili, vasellame o qualsiasi altra merce. Il tuono rombò, crescendo di volume mentre s’avvicinava. L’ultima delle carriole arrancò via. Lungo le strade, i negozi erano sbarrati contro la notte. Solo le locande erano indifferenti alla tempesta in avvicinamento, essendo più affollate del normale, come se ci fosse sicurezza tra l’allegria, il vino e la quantità.

    Gli animali della città si stavano comportando stranamente. Il capo stalliere al castello del reggente attraversò le stalle, perplesso alla vista di cavalli che si muovevano nervosamente nelle loro cabine. Un placido vecchio hunter si scagliò contro di lui oltre le spranghe con i denti digrignati. Giù nel distretto della Porta del Pesce, la gattina di una bambina la graffiò e poi corse miagolando via dalla casa. I cani si nascosero sotto i letti e si rifiutarono di uscire fuori. I gatti scomparvero nelle cantine e nelle mansarde.

    Nella casa di Nio, il wihht stava eretto in piedi nel silenzio e nell’oscurità dello scantinato. Volgeva la sua testa sempre lievemente da un lato all’altro, le narici che si allargavano come se stessero cercando di fiutare qualcosa. I suoi occhi brillavano di una luce fredda, affamata. Tre piani sopra il wihht, nella comodità della sua biblioteca, Nio sedeva leggendo al lume di candela. Si scosse irrequietamente, ma non si capì se fosse stato per via di ciò che stava leggendo o per qualcos’altro. Nelle rovine dell’università, i vecchi studiosi non notarono nulla di insolito. Questo era comprensibile, in quanto la magia era così densa attorno a quel posto che qualsiasi influenza esterna avrebbe avuto faticato a manifestarsi.

    Vi furono due persone in quella città, tuttavia, che percepirono il cambiamento nell’aria e lo riconobbero per ciò che era. Levoreth era proprio in procinto di stringere il busto dell’abito di sua zia quando inspirò bruscamente. Per un momento restò paralizzata, guardando fissamente oltre la testa di sua zia. La ragazza nello specchio sulla parete la fissò a sua volta. Lei non riconobbe il volto. La pelle era pallida e la bocca era bloccata in una linea dalle labbra bianche. Per un istante, gli occhi ebbero un’espressione vuota, sorpresa. Ma fu solo un istante, e poi gli occhi sfavillarono; lampeggiarono con ferocia animale e la pelle del suo viso si tese e si allungò, come se una testa di lupo stesse emergendo dai bordi della sua faccia e stesse guardando attraverso le sue orbite.

    «Mia cara,» protestò la duchessa agitandosi sulla sedia di fronte a lei, «così è fin troppo stretto.»

    «Scusate» disse Levoreth, e poi ci fu solo lei stessa nello specchio sulla parete: una ragazza dallo sguardo stanco di diciassette anni.

    Nella casa di Cypmann Galnes, una finestra venne spalancata. Liss s’affacciò verso il mare. All’orizzonte l’ultimo raggio di sole brillò, sommerso dalla notte crescente. Liss si voltò e andò al piano di sotto. I piatti tintinnavano dalla cucina. Lei aprì la porta ed entrò nella calda luce e nel profumo di pane fresco. Un fuoco scoppiettava nel camino. Sanna alzò lo sguardo dal lavabo.

    «Sarà una furia di nottata» disse l’anziana donna.

    «Già» concordò Liss.

    Andò fuori in giardino. Era quasi notte profonda ora. La luce ad ovest era svanita in una sanguinosa macchia di cielo. Mentre guardava, si oscurò passando per sfumature rosse e viola fino ad un profondo blu-nero. I tuoni borbottarono. Lei fissò lo sguardo nel cielo. Un cipiglio le attraversò il volto. Le sue mani si chiusero a pugno lungo i fianchi. I tuoni rombarono, sempre più vicini. Improvvisamente  tese un braccio, le sue dita che si spalancavano nell’aria. Poi sparì nella casa.

    Cominciò a piovere.

    La città sembrò sospirare di sollievo mentre la pioggia cominciava a cadere, come se avesse trattenuto il suo respiro. I tuoni ruggirono ancora e i fulmini guizzarono, ma la minaccia era diminuita. Nelle locande, le risate divennero più genuine e la birra scorse più liberamente. Per tutta la città, i cani strisciarono fuori da sotto i letti, sembrando intimoriti. I cavalli nelle stalle del reggente abbassarono felicemente le loro teste sulla loro avena, e in una squallida casa nella Porta del Pesce una gattina attraversò la porta e a quel punto venne prontamente raccolta da una bambina, che la strinse forte.

    Ma nella casa di Nio, il wihht stava ancora pazientemente fermo nello scantinato, la sua testa che si muoveva da una parte all’altra, fiutando l’oscurità. Su nel castello del reggente, Levoreth si accigliò davanti al suo piatto serale. La chiacchierata di un assortimento scintillante di nobili fischiava attorno a lei, ma lei non udiva nulla. E nella casa di Cypmann Galness, Liss sedeva immobile alla finestra. La pioggia scrosciava contro il vetro e lei premette il palmo della sua mano contro di esso. Guardò in direzione del mare.

    Il vecchio Bordeall scese gli scalini della torre delle porte. La pioggia cadeva sulle sue spalle e sui suoi capelli bianchi. La luce delle torce spuntava fuori dalla soglia aperta dietro di lui.

    «Ti lascio il posto, Lucan» borbottò. «Non so cosa mi sia preso. Mi sono seduto per un buon arrosto e poi ho sentito le mie ossa gelarsi. La vecchiaia, suppongo.» Sputò nel fango. «La pagherò quando sarò tornato a casa: cena fredda e senza dubbio la mia donna mi somministrerà qualcosa contro l’influenza.»

    «Gli uomini saranno sulle mura, signore» disse il giovane luogotenente. «Pioggia o no.»

    «Tienili in guardia. Qualche sciocco nobile potrebbe arrivare disperso nella notte in cerca di un letto e di un tavolo al castello. Non sarebbe bello tenerli chiusi fuori in un tempo come questo.»

    «Forse Lord Gawinn tornerà stanotte» suppose il luogotenente.

    «Forse.» Bordeall si voltò e si allontanò nella pioggia.

    Il luogotenente era contento di avere la guardia per la notte. Era giovane, appena diciannovenne, e raramente gli era stata data l’opportunità di comandare un intero turno di guardia. Non l’avrebbe mai detto apertamente, ma in privato pensava che avrebbe potuto comandare una truppa tanto bene quanto qualcuno come il vecchio Bordeall. Immaginò Lord Gawinn cavalcare di notte nel suo turno di guardia. Un sorriso gli solcò il volto quando le lance dei suoi uomini saettarono nella sua mente. un saluto perfettamente eseguito per il Lord Capitano della Guardia, protettore di Hearne e custode della parola del reggente.

    «Sbarrate le porte!» disse. «Assicurate la città per la notte!»

    I soldati più anziani si scambiarono dei sorrisi mentre chiudevano i massicci portoni. L’enorme peso di quercia e ferro sferragliò sui suoi cardini mentre si muoveva. Le porte erano facilmente dell’altezza di tre uomini alti, e quattro cavalieri potevano cavalcare fianco a fianco attraverso il loro arco di pietra. Con uno schianto, i portoni si bloccarono contro la loro intelaiatura di ferro. Le travi vennero messe al loro posto. Un paio di mocciosi osservavano, proteggendosi dalla pioggia sotto la sporgenza della torre.

    «Le porte sono sbarrate, signore» annunciò uno dei soldati.

    «Molto bene» rispose il luogotenente, poi svanì su per gli scalini della torre.

    «Sparite voi» disse il soldato facendo una corsa incerta verso i mocciosi. «Andate a casa dalle vostre madri. Questa non è una notte in cui rimanere fuori.» I bambini si dispersero, canzonandolo, eludendolo pigramente e poi ritornando a piantarsi nell’asciutta comodità della loro postazione.

    La notte divenne più profonda. I fulmini saettavano nei confini più alti della valle di Rennet. La pioggia cadeva così pesantemente che ogni cosa era ridotta ad una sfocatura indistinguibile. Le forme dure della città – mura, tetti, torri, archi e guglie –, ogni angolo ed ogni linea erano ridotti ad imitazioni di oscurità e profondità. Nel lato settentrionale di Hearne, le mura della città finivano ad una torre che si ergeva sulle vette dei dirupi che precipitavano giù nel mare sottostante. Per fare una camminata sulla cima del parapetto da quella torre alla torre vicino alle porte principali, sul limite orientale della città, ci voleva un’ora. Procedendo lungo il parapetto dalla torre delle porte alla torre del terzo muro che si trovava al limite più a sud di Hearne, la quale incombeva sui sobborghi del distretto della Porta del Pesce e sul braccio ricurvo esterno della baia, ci voleva un’altra ora. Quella notte, tuttavia, come tributo al tempo miserabile, i soldati della Guardia fecero ogni percorso in meno di quaranta minuti, affrettandosi, spalle curvate sotto la pioggia, e sussultando ad ogni balenio di fulmini. Non persero tempo a guardare oltre il bordo del parapetto. Anche se si fossero curati di posare lo sguardo sul Varco di Rennet, non avrebbero visto nulla eccetto oscurità e pioggia.

    Accadde alla terza ora dopo mezzanotte. La porta laterale della torre si aprì e la luce fuoriuscì nell’oscurità. Brillò sulla pioggia cadente e sulla pietra bagnata. Il luogotenente, il giovane Lucan, emerse e guardò fuori. Stava però guardando dalla parte sbagliata, infatti era rivolto verso i tetti della città. Del fumo si formò dalla sua bocca mentre aspirava felicemente da una pipa. La porta si richiuse alle sue spalle. In lontananza lungo le mura, qualcosa si agitò nell’oscurità. L’aria divenne ancor più fredda di quanto già non lo fosse. Era una notte buia, ma la cosa strisciante oltre il bordo del parapetto lo era ancor di più. Se Lucan fosse rimasto alla porta, se si fosse voltato per guardare in quella direzione, avrebbe faticato molto a vedere oltre una sfocatura d’ombra in piedi sulla cima del muro. Ma lui era andato dentro, felice che la città fosse nelle sue abili mani; felice con tutta la sicurezza della gioventù. Era beatamente ignaro di essere sfuggito alla morte per meri secondi.

    La cosa sulla cima del muro rimase immobile per un momento. Era della forma e della stazza di un uomo, ma nessun uomo avrebbe potuto scalare il muro esterno, poiché era alto quaranta piedi e costruito di pietre perfettamente incastrate. Persino il ladro più abile della Gilda avrebbe considerato che le mura della città andassero ben oltre le sue capacità.

    In un unico movimento fluido, la forma saltò giù dal muro. Cadde lentamente attraverso l’aria. Se fosse stato un grande uccello con le ali spiegate, allora la discesa peculiare avrebbe avuto senso. Ma la cosa non era un uccello e non aveva ali, solo un mantello nero che svolazzava mentre cadeva. La forma atterrò silenziosamente sul pietrisco sottostante. Strinse il mantello attorno alle sue spalle e poi entrò a grandi passi nella città, assomigliando a tutti gli effetti ad un uomo.

    Dentro il castello del reggente, Dreccan Gor si affrettava lungo un corridoio. Stava sudando, e la torcia che stringeva sembrava danzare e tremolare con una vita tutta sua. Una guardia assonnata accucciata fuori da una porta si mise di colpo sull’attenti al suo avvicinamento.

    «Signore» disse la guardia, un po’ interrogativo, un po’ per rispetto. Gor lo sorpassò senza una parola e aprì la porta. La chiuse a chiave dietro di lui e poi rimase fermo nell’oscurità, cercando di mettere insieme i suoi pensieri sparsi e respirare.

    «Chi è là?»

    Nelle sue notti migliori, l’Uomomuto dormiva poco. Si mise seduto sul letto e la luce della torcia cadde sul suo volto, raggruppando ombra nei suoi occhi.

    «Gor, mio signore» disse l’attendente.

    «Confido che ci sia una qualche ragione per questo?» Una candela bruciava di vita nelle mani dell’Uomomuto, rivelando le lancette di un orologio d’avorio su un supporto vicino al suo letto. Le lancette puntavano alle ore quattro dopo la mezzanotte. L’attendente arrivò e si fermò al bordo del letto. Il suo volto era teso.

    «Abbiamo un visitatore.»

    «Oh?» fece l’altro. Non pensava tanto ai visitatori alle quattro del mattino.

    «È lui.»

    «Pietra e ombra» mormorò l’Uomomuto. «Speravo che non sarebbe mai ritornato. Che sarebbe diventato un altro cattivo ricordo. Stupido, lo so. Come siamo finiti in questo maledetto casino?»

    «Accettammo il suo lavoro» disse Gor miseramente. «Prendemmo il suo oro.»

    «Già, lo facemmo.»

    «Sembra essere di cattivo umore. Peggio dell’ultima volta.»

    L’Uomomuto si vestì in fretta. Indossò una catena d’argento attorno al suo collo, incisa con spirali intrecciate. Strofinò la collana tra le sue dita e mormorò sottovoce alcune parole. La luce attorno a lui si affievolì fino a quando un’ombra non avvolse il suo viso, nascondendo il suo aspetto.

    «Manda a chiamare il Coltello» ordinò poi. La sua voce venne ridotta ad un profondo sussurro dall’occultamento. «Immediatamente. Se il nostro ospite è furioso, allora voglio un capro espiatorio. Avverti Ronan e poi unisciti a me nella corte.»

    «Molto bene, mio signore» disse l’attendente. La sua voce era infelice.

    L’Uomomuto andò ad un arazzo appeso alla parete e poggiò le sue mani su di esso. La stoffa illustrava una caccia: cavalieri con lance ed archi che inseguivano un serraglio di bestie. Lupi, orsi e cervi correvano al lato di grifoni e unicorni. Un drago accerchiava la scena con la sua lunga coda, minacciando sia le bestie che gli umani allo stesso modo. L’arazzo fremette e l’illustrazione si contorse in una serie di linee orrende senza senso. Solo la coda del drago rimase, arricciandosi e scivolando infinitamente attorno a sé. L’Uomomuto entrò nella stoffa a spirale e scomparve.

    Deglutì rumorosamente per dissipare la nausea che il trasferimento induceva sempre. Il lavoro era stato così diretto. Un semplice furto da una casa che era virtualmente incustodita. Non avrebbe potuto essere più facile. Eppure il Coltello, l’uomo più abile che aveva nell’intera Gilda, aveva perso il lavoro. Tutto era andato storto. Ma di chi era la colpa? Di Ronan o del ragazzo, qualsiasi fosse il suo nome. Qualsiasi fosse stato il suo nome. Il Giocoliere avrebbe saputo, ma aveva sentito che il grassone era scomparso.

    L’Uomomuto si affrettò lungo una rampa di scale. A metà strada si fermò. Una porta costruita nel muro si spalancò al suo tocco. Si aprì in una camera piena di casse di tutte le grandezze. Scaffali ceduti sotto il peso di sacchi straripanti di monete e gioielli, pile di vecchi libri, e lingotti d’oro. Sullo scaffale in cima c’era la scatola di legno. La porta ai piedi delle scale si aprì per rivelare torce che bruciavano lungo un passaggio. La sua ombra vacillò come una grottesca caricatura allungata. Deglutì. Desiderò che avesse qualcosa da bere. Una bella e forte sorsata di brandy.

    Quando l’Uomomuto entrò nella sua corte, pensò per un momento che fosse da solo. Le torce in alto sulle pareti bruciavano con il loro fuoco blu. L’ombra si allungò lontana dalle file di pilastri che percorrevano la lunghezza della sala. Il luogo era silenzioso. Ma poi capì, in qualche modo, che qualcuno era lì. La pelle sulla sua nuca si accapponò. L’aria era più fredda del normale. Lui salì sulla pedana e cercò di fermare il tremito nelle sue mani. La scatola era pesante nelle sue braccia.

    «Ehilà?» disse, la sua voce tremante. Sedette sul trono di pietra. La stanza era silenziosa. «Benvenuto alla corte dell’Uomomuto» annunciò.

    Ancora, silenzio. Guardò furtivamente la porta dall’altra parte della sala. Forse Dreccan sarebbe oltrepassato in quel momento. Sarebbe stato anche lieto di vedere Ronan, e il suo pugno si chiuse spasmodicamente al pensiero. Il Coltello l’avrebbe pagata per questo.

    «La tua corte?»

    L’aria di fronte a lui tremolò. Prima che potesse anche solo sbattere le palpebre, la figura fu davanti a lui. Bassa e curva, avvolta in un mantello. Le torce brucianti ai lati del trono lanciarono una lunga ombra che si estese dietro la figura. L’ombra fremette quando le torce sfarfallarono, ma la figura non si mosse. L’Uomomuto cercò di leccarsi le labbra ma la sua bocca era troppo secca.

    «Tu governerai polvere e rovina,» disse la figura, «se non hai trovato la persona che ha aperto la scatola. Dov’è? Si metterà male per te se lui non è qui.»

    «Sta arrivando proprio ora» rispose l’Uomomuto. «È quasi qui, ne sono sicuro.»

    «Sarebbe stato meglio per te se il miserabile fosse già qui. Il mio signore è arrivato, e non è saggio farlo aspettare.» La piccola figura fece un’orribile risata che in qualche modo terminò più in un rantolo di dolore.

    «Oh, è arrivato?» L’Uomomuto non poté sopprimere un brivido. «Questa è la sua prima volta a Hearne? Ultimamente il tempo è fuori stagione. Molta pioggia. Nonostante questo, è comunque una città piacevole. Si unirà a noi?»

    La figura non disse nulla.

    «Sono spiacente per l’attesa» disse l’uomo, ma poi smise di parlare.

    L’ombra dietro la piccola figura stava crescendo. Si allungò e si ispessì e prese forma. Si alzò. Era alta, più alta della maggior parte degli uomini. La luce delle torce cadde lungo sottili lineamenti che emergevano dall’ombra come un cadavere che saliva in superficie nell’acqua. Una mano come un ragno pallido si materializzò e si mosse verso la faccia. Le dita si spostarono brevemente per la pelle bianca dei suoi tratti come se controllassero che fossero tutti lì. Le mascelle s’aprirono nella parodia di un sorriso. Si aprirono fin troppo ampiamente per un uomo qualsiasi.

    «Quindi.»

    La creatura parlò in un rauco sussurro, così tranquillo che l’Uomomuto riuscì a malapena a sentirlo. Non riusciva a fermare i suoi denti dal battere. L’aria era fredda.

    «Quindi, questo è il signore ladro.»

    La cosa si mosse in avanti. Sembrava scivolare piuttosto che camminare.

    «Dammi la scatola.»

    «È stata aperta» disse l’Uomomuto. Riusciva a stento a proferire parola. «È stata aperta, mio signore.»

    «Lo so, ladro. Ciononostante, dammi la scatola.»

    L’Uomomuto non riusciva a porgere la scatola alla creatura. I suoi arti erano doloranti per il freddo. Le fiamme blu delle torce nella sala sembravano congelate in strane gemme di zaffiro nella forma impossibile del fuoco. La scatola cadde dalle sue mani sulla pedana. La creatura non si mosse, ma improvvisamente la scatola fu nelle sue mani.

    «Nessun peso in essa» disse la creatura. «È stata aperta e il peso all’interno è sparito. Ma il tuo debito è pesante, ladro. Più pesante di quanto tu potrai mai immaginare.»

    Dietro la creatura, la piccola figura coperta rimaneva immobile. Il suo cappuccio era inclinato verso l’Uomomuto, ma lui non riusciva a vedere alcuna faccia al suo interno, solo oscurità. La creatura teneva la scatola delicatamente. L’uomo poteva sentire il suo cuore battere contro le sue costole. Lentamente, le dita strisciarono lungo l’incisione del falco. La serratura s’aprì con un clic e la luce brillò sul coltello posto al suo interno. La gemma incrinata fissata nel manico brillò debolmente. Un dito accarezzò la lama.

    «Ferro vecchio» disse la creatura. «Ferro vecchio, ma una pietra ancora più vecchia. Una volta era così vecchia e preziosa senza paragoni. Ma qualcuno l’ha toccata. Qualcuno ha rubato il peso da essa.»

    La sala, già fredda, divenne ancora più fredda. L’Uomomuto non riusciva a sentirsi le mani o i piedi. La scatola cadde al suolo e andò in pezzi. La creatura rivoltò il coltello nelle sue mani. Alzò lo sguardo sull’uomo.

    «Questa lama ha prelevato del sangue» disse. «Giorni fa. Posso ancora sentirlo.»

    «N-noi abbiamo l’uomo» balbettò l’Uomomuto.

    Con suo orrore, realizzò che gli occhi della creatura non erano come gli occhi di un uomo. Erano pozze d’ombra, come le orbite di un teschio. Una luce rossa sfarfallava nel centro di ognuna. Non riusciva a distogliere gli occhi da quello sguardo orribile. In quel momento, la porta alla fine della sala si aprì. La

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