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L’ultimo a vedermi
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E-book308 pagine4 ore

L’ultimo a vedermi

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Info su questo ebook

Oltre cento anni fa, in una cittadina costiera del nord della California, è nata e morta Emma Rose Finnis. In vita era un’umile cameriera di una pensione e, ancora peggio, una Finnis. Ora nessuno ricorda più la sua vita di duro lavoro e i suoi sogni grandiosi, perché nessuno è rimasto. In un mondo in cui i fantasmi sono considerati “immondi”, gli spiriti che infestano la sua città sono già stati spazzati via. Eccetto Emma Rose.

Ma quando un cacciatore determinato arriva con l’ordine di eliminarla una volta per tutte, Emma Rose rifiuta di essere scacciata dal suo rifugio, la sontuosa Casa Lambry. Se lo è guadagnato quel posto, e intende tenerselo, anche se significa andare in guerra contro i viventi. Dopotutto, Emma non ha nulla da perdere. Non si può dire lo stesso per quelli che hanno ancora il lusso di respirare…
LinguaItaliano
Data di uscita8 ott 2020
ISBN9788831399098
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    Anteprima del libro

    L’ultimo a vedermi - M Dressler

    1

    Èvenuto a fare pulizia. Di me.

    È così e basta.

    È venuto a raschiarmi via, come si fa con un brandello di carne attaccato alla valva di un mitilo.

    Vuole relegarmi a Evergreen, nel caotico cimitero riservato alle anime perdute. Questo cacciatore, lui spera di relegarmi laggiù con i più poveri tra i poveri, i dimenticati, con le lapidi storte delle tombe che nessuno cura, piegate all’indietro come se fossero sbalordite da quanto in là possa arrivare l’ingiustizia, persino dopo la morte. Nel cimitero, addossato alla chiesa di San Clemente, gli animali ammucchiano sul danno la beffa. Scavano verso le bare che si disintegrano, le nostre casse un sottosuolo ammollito, e riesumano schegge di osso e brandelli di pizzo. E i morti non possono farci niente, hanno le mani e i piedi legati.

    Ma quale fantasma ha mai chiesto di essere rosicchiato e spogliato? Chi vuole giacere in un letto freddo che non si è scelto? Chi vuole che le proprie ossa siano fatte rotolare in un buco, come un dado truccato per finire solo su un numero, e sempre il peggiore?

    Mettiamo, ora, che tu voglia cambiare il risultato. Mettiamo che tu intenda rifiutare di essere relegata nel camposanto dei poveri. Che cosa fai?

    Lotti.

    Creare problemi serve. Essere problematica. Testarda figlia d’Irlanda. Una volontà potente, questo ci vuole. Occorre volontà per non essere quello che tutti si aspettano da te. Occorre coraggio per non andare dove ti dicono di andare. Specialmente qui, lungo l’aspra costa settentrionale, in questo posto dove le maree potrebbero trascinarti sott’acqua così come lasciarti fare un respiro.


    Nella baia del mio villaggio, tra le alghe che si depositano a riva, si trova una miriade di oggetti trasportati dalla corrente: sfere galleggianti di boe, lenze rovinate, sacchetti della spesa di plastica soffocati dalla sabbia. Sono cose che non possono lottare. Se alzate lo sguardo dalla spiaggia, piegando il collo verso la cima delle nostre fragili scogliere, vedrete proprio il paese di Benito, che ignora quei relitti, vestito nell’abito della domenica, persino nei giorni più bui. Perché ce li abbiamo i giorni bui, anche qui, nella parte più bella della California.

    D’inverno, il cielo diventa così pesante da assomigliare a una cassa rivestita di seta imbottita che vi si chiude sulla testa. La nebbia è soffocante. Le sirene da nebbia mugolano. Le onde si trasformano in artigli sulle rocce nere, e l’aria sa di freddo piombo umido.

    D’estate si sta meglio. È allora che i turisti arrivano con le loro lucide macchine colorate e gli eleganti vestiti estivi, a provare meraviglia per il panorama che godono dalla nostra penisola, a gustarsi tutte le costose prelibatezze, e non gli verrebbe mai in mente che ciò che stanno gustando, sulla lingua, nell’aria, non è solo il condimento estivo ma le ceneri di tutti quei coraggiosi uomini e donne che vivevano qui, come me, prima che ogni esistenza si trasformasse in sale.

    È buffo, non trovate, che quelli che al mondo mangiano di più spesso non assaporano ciò di cui si sono cibati? Che quelli che hanno i mezzi per mangiare ciò che vogliono sono sempre più affamati, sempre di più, mentre quelli che tra noi patiscono davvero la fame spazzano i pavimenti e sfregano gli avanzi dai piatti e la notte lasciano il villaggio per dormire in posti in cui le stanze sono più piccole, distanti dall’acqua e dal panorama, nei boschi, in semplici letti dietro porte sottili come carta, perché il legno migliore è stato tagliato per qualcun altro, per Augustus Lambry e quelli come lui.

    Quando arrivarono qui oltre centocinquanta anni fa, i taglialegna erano poveri, ma la loro volontà era immensa. Certo, lavoravano per uomini come Lambry, che dormiva in candide lenzuola pulite, ma abbattere gli alberi era il loro mestiere, per loro era una questione di vita o di morte sul limitare del vuoto, e tagliavano solo i tronchi più grandi e slanciati e li incanalavano lungo il fiume con la dinamite, da dove il legname arrivava alle segherie e al mare. In quei giorni, la baia di Benito era un ventaglio di acqua profonda, più profonda di quanto è ora, con cipressi fitti appollaiati come corvi sulle scogliere, eccetto dove era stato ricavato il percorso per le canalette di esbosco dei Lambry. Persino dopo che si cominciarono a costruire pensioni e saloon – quando si raggiungeva un certo numero di taglialegna bisognava costruirgli una città attorno – quegli alberi, e la gramigna delle sabbie sulle dune che ricoprivano il promontorio, crescevano liberi e selvatici. Poi, con il tempo, fu eretto il Main Street Hotel, dove le cameriere che lavavano e stiravano e cucinavano avevano la speranza di stare alla larga dai marinai con le loro mani lunghe, e sorsero i negozi dai tetti spioventi su Albion Street, e la chiesa di San Clemente con il campanile bianco che aveva fatto fuggire gli ultimi indiani, e alla fine il tempio costruito dai cinesi, con i tetti che si arricciavano come scarpette rosse lasciate al sole. E un po’ più tardi, sulla prima collina dopo le belle case dei commercianti, fu individuato il luogo per il cimitero di Evergreen. Evergreen, dove ancora riposano i poveri resti della mia famiglia, in una fila di lapidi spezzate.

    Sopra i monumenti in marmo dei benestanti, i gabbiani gracchiavano e chiamavano, e galleggiavano le candide nuvole dalla veste bianca, mentre giù nella baia gli agili schooner ondeggiavano all’ancora, cigolando, e là alla Punta, il faro faceva compiere alla sua lanterna gioiello un ampio cerchio, avvertendo dei pericoli nascosti.

    Solo perché non vedi nulla, non vuol dire che non ci sia qualcosa.


    Il cacciatore ha parcheggiato l’auto dal colore vivace ai piedi della collina di Evergreen e sta venendo dal cimitero verso di me. So cos’è. Li ho già visti e sentiti gli stivali di un cacciatore. Fanno il rumore della lama di una sega che gratta sulla sabbia. Questo qui è alto e ben messo e ha la mascella quadrata. Guarda la casa a occhi stretti, le guance che sollevano la pelle rilassata sotto la barba. Sto nel giardino delle rose, nel mio vestito bianco con un nastro rosso intrecciato ai capelli, e vengo attraversata da un leggero brivido, da un frammento della mia volontà. Mi preparo, come si fa quando sta per arrivare un’onda, quando si bloccano le ginocchia per l’impatto. La strada sabbiosa lo porta al cancello in ferro battuto al confine del giardino. Lo apre, poi si gira per assicurarsi di aver fermato il chiavistello cigolante, ma forse anche per accertarsi di essere solo. Quindi, ecco un cacciatore che si guarda alle spalle. Alza il viso e vede la torre con la ringhiera nera, la guglia che dovrebbe rivaleggiare con il campanile della chiesa, le sue scandole bianche posate come piume di gabbiano, anche se il colore sta cominciando a scrostarsi e a mostrare il bianco più antico sottostante, il fantasma della sua vecchia presenza. Assottiglia di nuovo lo sguardo, e vedo che ha la pelle ruvida (il viso di un operaio) e porta semplici vestiti neri (i vestiti di un operaio) e anche se è, di sicuro, uno dei viventi, è anche uno dei morenti, perché c’è del grigio sulle sue tempie e del grigio che si mischia alle basette, mostrando le sue, di scrostature.

    Gira a sinistra la guancia sale e pepe, poi a destra, e vede non me, ma uno dei grandi fasci di vita accanto a lui: uno dei rinomati roseti dei Lambry. Allunga la mano, affascinato, tenendo nel palmo un perfetto bocciolo giallo. La brezza che proviene dal mare accarezza i petali e il mio vestito. E forse lui deciderà, errando, che è quell’alito di vento che spinge la spina nera in profondità nella sua pelle, sotto la manica, nel polso.

    Il nome che danno i viventi a questi soffi è incidente.

    Lo guardo leccarsi il sangue dal fondo del palmo. Vedo il luccichio dell’argento sotto la manica. È quel braccialetto metallico che hanno tutti i cacciatori. La cosa che li distingue.

    Poi, con un movimento calmo quanto quello con cui ha aperto il cancello, prende il giallo bocciolo Lambry e lo riporta con delicatezza al suo posto nel traliccio della pergola incolta, come rimettesse un bambino nel seggiolone, e si gira per inoltrarsi nel giardino. Come se non lo avessi appena avvertito di non farlo.

    Devo riconsiderare la mia analisi, allora. Il suo è l’incedere di un uomo che sopporta con leggerezza il primo taglio. O forse è come me. Emma Rose Finnis. Figlia d’Irlanda. Nata testarda. Cresciuta per essere tenace di fronte alle ferite. Le campane di San Clemente stanno suonando e il sole non sa decidersi se mettersi a scaldare, e danza dentro e fuori la foschia sulla baia. Io mi sono già decisa, invece. Terrò questo uomo vicino.

    2

    Sono le dieci della mattina, dicono le campane della chiesa, e nella baia le foche latrano e scivolano giù dalle rocce nere, incrostate di cirripedi, a cercare la colazione. Il mio udito è molto più fine di quando percorrevo questa terra con un cuore che batteva nel petto. Ho avuto un secolo per rifletterci: quanto il rumore del cuore che batte di una creatura annega quello di un’altra?

    Ora i miei sensi sono il mio orgoglio e la mia gioia. Mi volto verso l’odore che proviene dal promontorio e sento il rumore di ogni singolo fiore selvatico che sfrega contro il vicino. Quella specie di ticchettio è un papavero che si apre al sole di giugno. Quel sussurro, un granello di senape che perde la sua lanugine e il suo colore burroso. Percepisco, anche, le pagliuzze sporche del nido di sterna disperse nel vento e l’olezzo di una solitaria stella marina che muore sulle rocce, dopo aver puntato troppo in alto.

    Sento lo sgradevole puzzo muscoso che si aggrappa agli antiquati serbatoi d’acqua del villaggio, che oziano dietro le case come mulini decapitati. Da qualche parte, le marce cisterne di legno sono crollate o sono state demolite e al loro posto, tra i montanti, sono state costruite stanze dal tetto coperto di scandole, cantucci da bed-and-breakfast per i turisti. Sono questi i visitatori che sento stiracchiarsi e sbadigliare nei giardini lontani, mentre aprono le porte inghirlandate dall’erica, affamati.

    Attraverso il prato precedendo il cacciatore, mi muovo sul vialetto lastricato e salgo sul portico curvo, facendomi da parte quando arriva. Non ha ancora compiuto nulla di pericoloso; si avvicina agli scalini, passando la mano sulla liscia ringhiera bianca nel salire, poi alza la punta delle dita e strofina la polvere che ha raccolto. Stringe di nuovo gli occhi e si gira e torna a osservare il prato come se stesse valutando la distanza tra il cancello, la pergola e la casa. Ascolta, poi guarda nella tasca del giaccone prima di prendere il suo aggeggio nero. Qualcuno sta chiamando il signor Philip Pratt. So come si chiama perché l’ho sentito dire dall’agente immobiliare (la piccoletta che negli ultimi tempi visita sempre la casa). Tocca l’aggeggio e lo mette via, poi guarda, in distanza, nella direzione di Evergreen, il cimitero. Ma anche se guarderà, e guarderà, e guarderà, credo che non imparerà mai niente di tutte le povere anime che vi riposano. I taglialegna e gli operai delle fabbriche, i marinai e i custodi delle pensioni, le cameriere e le lavandaie morte come mia madre. Sento che comincio ad arrabbiarmi, turbarmi, ma non è saggio con un cacciatore vicino, perché arrendersi alla rabbia è rendere lo spirito, come si suol dire. So che devo calmarmi, lasciare il portico e salire, salire verso il sole fortificante, la cui luce mi protegge. Mi siedo sulla guglia e aspetto. Come tutti quelli della sua specie, questo signor Pratt non riuscirà a vedermi a meno che io sia così sciocca da lasciare che l’ira mi sbianchisca la faccia, la mascella, la fossetta sul mento ereditata da mio padre e l’ampia fronte tipica dei Finnis.

    Ogni fantasma che spera di opporsi a un cacciatore deve sapere come domare la furia e confondersi con l’atmosfera in ogni istante. È questo che faccio. Domo me stessa. Il sole è vivace, abbastanza luminoso da schermarmi. Che strano che la maggior parte dei viventi creda che noi spiriti abitiamo le ombre. Perché mai, se non cerchiamo di fare altro che respingere l’oscurità?

    Pratt starà aspettando la giovane agente immobiliare, la signorina Ellen DeWight. La osservo da settimane. È una cosina minuta e dolce che cerca di farsi strada in un mondo che ti dice che, quando sei piccola, non sei niente. Ricordo come camminava per la proprietà la prima volta che venne alla casa dei Lambry. Si dava coraggio, si imponeva di non essere nervosa per aver ricevuto una tale responsabilità, e di restare vigile e non agitarsi con la gente che stava per venire in visita. Quel mezzogiorno stava sul bel portico ampio con me al fianco e aspettava, sudando, con il tailleur cascante sulle caviglie e sulle spalle, il viso come un tovagliolo ripiegato per la cena, bianco e fresco ma con due linee ai lati della bocca, come se le labbra fossero rimaste stirate a lungo in un’unica posa controllata.

    Al suono del telefono, lo tirò fuori dalla borsa di pelle e rispose alla donna all’altro capo della linea.

    «… No. No. Non esagererò, non si preoccupi. Ho un buon presentimento stavolta. Davvero. Hanno detto che volevano trovare una proprietà proprio come questa. Certo. Può contare su di me. La chiamerò subito dopo l’appuntamento. Okay. In ufficio va tutto bene. È tutto a posto. Si diverta a Los Angeles.»

    Mise via l’affare e guardò l’orologio, arricciando la piccola bocca, ma tenendola anche ferma. Forse è proprio perché è piccola che mi sento così libera e a mio agio vicino a lei. Non mi preoccupa come mi hanno preoccupato molti altri che sono passati per la casa in tutti questi anni.

    Aspettammo insieme, davanti, finché sulla strada non apparve una grande Rover nera, elegante e lucente come un carro funebre con quei finestrini scuri. Parcheggiò accanto alla casa, le ruote che rallentavano fino a fermarsi, con ai lati dischi come enormi piatti d’argento. Ellen DeWight sollevò la testa e il mento, seria.

    La portiera si aprì. Dal metallo nero scivolarono fuori una fiammeggiante testa bionda, un paio di occhiali da sole dorati e una camicetta morbida infilata in una cintura ricamata di perline. Poi si aprì l’altra portiera e scese un uomo che stava diventando calvo. Avevano la carnagione di un arancio dorato, come se il sole li seguisse ovunque andassero. Il signore e la signora Dane.

    Ellen si affrettò a scendere il portico, percorrere il vialetto lastricato e superare la pergola con le sue rose ondeggianti.

    «Signor Dane. Charles?»

    L’uomo la fissò senza espressione, togliendosi gli occhiali da sole. «Lei è la mediatrice?»

    «L’agente. Ellen DeWight. Rappresento gli eredi di Alice Lambry, l’ultima proprietaria. La mediatrice è dovuta andare a Los Angeles per affari, quindi mi prenderò io cura di voi oggi. È un vero piacere conoscerla. Benvenuto a casa Lambry!»

    «Oh, Charlie, guarda!» si sperticò la donna accanto a lui. «È proprio come l’avevo immaginata! Così imponente ma lussuosa.»

    «Benvenuta anche a lei, signora Dane.» Ellen porse la mano, ma quando la donna non la strinse, la ritirò. «Queste rose gialle sono un cimelio di famiglia. C’è un acro di giardini. È molto raro in una penisola come questa.»

    «Lo capisco benissimo. Così diverso da Napa. Una favola.»

    «Vediamo che gusto ci lascia in bocca prima di impegnarci,» disse il signor Dane rimettendosi gli occhiali da sole. «Finora è stato questo a farci rinunciare a queste vecchie case.»

    «Ma sicuro, ma certo, assolutamente. Prego, da questa parte.»

    «Charlie, adoro quei timpani, però.» La signora Dane si sporse facendo gonfiare la camicetta di seta. «E quella torretta. Quella che la circonda è una ringhiera di ferro? E quel segnavento, è originale… Ellen?»

    «Sì.»

    «Lo adoro.»

    Velocemente, Ellen li condusse sul portico. Il mio portico.

    «Allora! Qui c’è una raffinata porta d’ingresso a doppio battente, come vedete, decorata con incisioni sul vetro, che risale al 1899, anno in cui fu costruita la casa. È in condizioni perfette e originale in ogni parte. Venite nel foyer.»

    Li fece entrare nella mia casa. Casa Lambry. Ancora arredata con il miglior mobilio intarsiato inglese, ancora rilucente con i pannelli in legno intagliato, che brillavano caldi e ricchi come il giorno di cento anni fa in cui erano stati trasportati in casa dagli operai dei Lambry con le schiene piegate, quando ero solo la figlioletta di un boscaiolo. I pavimenti erano ancora ricoperti degli spessi tappeti con frange più morbide di quanto una ragazza come me avrebbe mai potuto indossare su uno scialle. Le stanze erano profonde e piene, gli specchi dei corridoi e i trumeau alti quanto lo stesso Augustus Lambry. Negli angoli, lungo gli alti soffitti, cornici in gesso bianco o legno dipinto ritraevano angeli e rose e trombe. E c’erano abbastanza dipinti nelle cornici dorate da riempire un’altra villa.

    Fluttuai nella luce del lampadario a bracci del foyer, appeso alla rosa in gesso sopra Ellen e i Dane. Ora dovevo essere fredda e non dovevo tradire nulla della mia presenza o dei miei sentimenti.

    «E qui,» disse Ellen, «su questa boiserie magnificamente conservata, abbiamo un po’ di storia, come potete vedere. Le foto dei primi proprietari.»

    «Oh, non le voglio vedere quelle.» La signora Dane arricciò il naso davanti alle facce dei Lambry morti. «A essere onesta, sa, fanno sembrare una casa già usata. Però questi tappeti sono davvero particolari.»

    «Turchi. Antichi.»

    «Potremmo fare un’offerta per questi,» disse il signor Dane.

    «Perché non venite nel salotto nella parte ovest della casa? State attenti a non inciampare su questo tappeto. Ha le frange annodate.»

    «Charlie, questi pavimenti in legno sono un po’ troppo scuri per una casa estiva. Non sono abbastanza ariosi.»

    «Sono d’accordo,» disse lui. «La casa sembra un po’ soffocata.»

    Guardarono attorno e dappertutto. Li seguii da sopra. Non sembrarono notare gli acquerelli dai colori brillanti di Alice Lambry appesi come finestre aperte sui muri, quadrati dipinti di grigio e verde e azzurro, di terra e mare e tempesta e cielo. Gli schizzinosi Dane: passavano le mani sui mobili antichi e guardavano negli alti specchi e cercavano di non mostrare le loro espressioni, come se non fossero abbastanza soddisfatti da sorridere o abbastanza dispiaciuti da accigliarsi.

    «Diamo un’occhiata alla parte rivolta a est, ora,» disse Ellen con un sorriso.

    «Ci sono troppe stanze da questo lato, Charlie. Niente feng shui, per nulla.»

    «Hai ragione. Dovremo buttare giù tutto qui.»

    «Ma signor Dane, signora Dane, non avete ancora visto la parte posteriore della casa. È un’aggiunta moderna con un concetto aperto. Un giardino d’inverno. Un solarium. Potrà diventare ciò che vorrete! Ha moltissima luce naturale. È proprio da questa parte.» Ellen spinse da parte le enormi porte a scomparsa, dando accesso ai salotti sul retro. Le dita sembravano tremarle, ma la voce risultava ferma.

    «Oh! Adesso si comincia a parlare. Che vista!»

    Il signor Dane si rimise gli occhiali e fischiò. «Wow.»

    «Questo è il porto originale di Benito.» Ellen fece un passo avanti, illuminandosi. «Non è meraviglioso? Da qui si riesce a vedere fino in fondo alla baia. E la baia stessa cambia di continuo colore, luce, intensità. A volte è di un azzurro vivo come oggi. A volte grigia. O verde. E cosa pensate di questo favoloso giardino d’inverno? La cupola in vetro è stupefacente, vero? Per favore, entrate, venite a vedere.»

    La Stanza di Vetro, la nostra sala più recente, è ora la più bella della casa. A Alice piaceva dipingere qui, a volte, nel bel mezzo dei mobili in vimini e dei tessuti in chintz e dei vasi con i rigogliosi fiori del giardino.

    «Abbiamo contato tutte le lastre,» disse Ellen, con lo sguardo rivolto all’acqua. «Ce ne sono più di trecento. La chiamiamo la Stanza di Vetro. In una giornata senza nuvole, stare qui è come danzare in un sogno,» aggiunse, inserendo una delle frasette che si era allenata a pronunciare davanti agli specchi.

    «Molto bella. Ma la prego, non mi dica che quella è la cucina?» Il signor Dane indicò il retro della casa.

    «Charlie!» lo implorò la signora Dane. «Usa l’immaginazione.»

    «Sembra un reperto dell’Età della pietra.»

    «Demoliremo quello che non ci piace. Terremo solo la struttura esterna.»

    «Sì, potrebbe funzionare…»

    «Bisogna che vi dica, però,» – e chiaro come il sole riuscii a sentire il battito del cuore di Ellen, la voce che cercava di alzarsi con vivacità per coprirlo – «che abbiamo delle norme per la conservazione dei beni storici. Regolamenti sugli edifici. Non si può modificare una casa in modi che ne cambino in sostanza la struttura originale. È anche così che preserviamo il carattere e il fascino della città, qui a Benito. Bisogna intraprendere un iter per l’approvazione di… Ma potrei mostrarvi meglio la bella boiserie del piano superiore…»

    Dane sollevò la mano. «Si fermi subito. Odiamo i regolamenti. Sono contrari allo spirito americano. Perciò, considerato quello che ci ha detto, è meglio che ci dia un minuto per valutare se ci convenga passare altro tempo su questa proprietà. Perché non esce e ci lascia dare un’occhiata per conto nostro, va bene? Così decideremo se vogliamo parlare con lei delle nostre opzioni. Oppure no.»

    Vidi che Ellen si tormentava le mani dietro la schiena cercando di tenerle sotto controllo. «Ma certo! Ma certo. Sarò qui fuori, sul portico anteriore, e potrete chiamarmi se avrete bisogno di qualcosa o se avrete domande. Fate come se foste a casa vostra. È davvero magnifica, da tutti i punti di vista. Vedrete.»

    «Una domanda.» Il signor Dane indicò con un brusco cenno del mento la porta ad arco che conduceva alla dispensa della cucina. «A cosa dà accesso quella porta?»

    «Una dispensa.»

    «Non a una cantina?»

    «No, mi dispiace.» Ellen si guardò indietro una volta, preoccupata, e li lasciò.

    E restammo solo noi tre.

    «Credo di averla spaventata.» Dane si tolse gli occhiali e diede un colpetto con il gomito alla moglie.

    «Charlie, vieni in dispensa. Sa di cannella.»

    Accesero le luci, entrarono e si appoggiarono ai vuoti scaffali in legno nodoso, lasciando aperta la porticina. Nella dispensa dei Lambry c’è spazio sufficiente per non più di tre persone. Gli scaffali scuri sono ricoperti di una superficie in vetro e si susseguono verso l’alto, e i banconi di legno occupano lo spazio ai due lati della stanza. Mi sedetti su uno di essi, più silenziosa di uno spillo.

    «Allora, Beth-y? Che ne pensi? Regolamenti?»

    «Merdolamenti. Mi piace questo posto. L’atmosfera. Stavo proprio aspettando di provare le sensazioni che provo ora qui. Quella baia. È proprio ciò che desideravo. La nostra piccola Xanadu. Credevo non l’avremmo mai trovata.»

    «Ma niente feng shui.»

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