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Il tuffo dell'anatra
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E-book294 pagine4 ore

Il tuffo dell'anatra

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Info su questo ebook

A Tito Cantabria, detto Il Talebano, importa solo di una cosa nella vita: il surf. Per assecondare la sua passione ha passato gli ultimi vent’anni in giro per il pianeta, mantenendosi con ogni genere di espediente. Costretto improvvisamente a fuggire dal Centro America, si ritrova a fare da balia alla persona più indigesta che conosce: sua madre Rachele, reduce da un crollo nervoso dopo che il marito l’ha lasciata senza un centesimo. I due dividono una roulotte fatiscente sul retro di uno stabilimento balneare romagnolo ed è proprio sulla battigia del Bagno Andromeda, la notte di San Lorenzo, che Tito trova il cadavere di Samba, ambulante nigeriano, da cui aspettava una grossa partita di erba. Rivendendola il Talebano contava di comprarsi una via di uscita e, per recuperarla, è disposto ad andare in fondo a un’indagine insidiosa. Con a fianco Rachele, sempre pronta a mandare tutto a rotoli, Tito rimarrà invischiato nelle trame fosche di un territorio ostile, un cimitero di relitti invisibili che lo porteranno a confrontarsi con uno sgradito antagonista: la propria coscienza. Così, mentre dal passato riaffiora un delitto identico e una ragazza misteriosa si presenta sulla sabbia dell’Andromeda, il Talebano dovrà vedersela con l’onda più imponente della sua vita. Una centrifuga di zanzare, riti vudù e olio di ricino, in cui in ogni goccia di spuma si riflette l’immagine di una bambina che, nel cuore dell’Africa, crepa di diabete. Perché laggiù, come in Riviera, leggi e confini nascono per essere aggirati.
 
LinguaItaliano
Data di uscita1 gen 2024
ISBN9788868105471
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    Anteprima del libro

    Il tuffo dell'anatra - Riccardo Marchetto

    cover.jpg

    Riccardo Marchetto

    IL TUFFO DELL’ANATRA

    Prima Edizione Ebook 2023 © Damster Edizioni, Modena

    ISBN: 9788868105471

    Immagine di copertina su licenza:

    https://stock.adobe.com/

    Damster Edizioni è un marchio editoriale

    Edizioni del Loggione S.r.l.

    Via Piave 60 - 41121 Modena

    http://www.damster.it e-mail: damster@damster.it

    catalogo su

    www.librisumisura.com

    img1.png

    Riccardo Marchetto

    IL TUFFO DELL’ANATRA

    Romanzo

    img2.png

    Indice

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    9

    10

    11

    12

    13

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    28

    L’AUTORE

       CATALOGO

    Alla gente della spiaggia

    1

    Il gabbiano sorvola la lingua di cemento illuminata dai primi raggi del sole. La sabbia ne ricopre buona parte, facendola assomigliare alla carogna di un serpente preistorico. A destra e sinistra gli ombrelloni sono piantati in file da sei. Agonizzano storti, come un’erezione appassita. Ad una prima occhiata nessuno si azzarderebbe a dire che ci troviamo alle porte di Ferragosto. In giro non c’è anima viva e il gabbiano approfitta della quiete per aggredire il cestino dei rifiuti, adulato da uno sciame di insetti. Poi nota qualcosa di più invitante. Qualcosa che non si vede tutti i giorni sul litorale dell’Etrusco.

    Un uomo di colore è seduto sul bagnasciuga. Ha la schiena appoggiata al moscone del salvataggio e le gambe inzuppate dalla risacca. Non sta schiacciando un pisolino. La brezza da levante porta con sé l’inequivocabile odore della morte.

    Il gabbiano lancia il suo grido. È acuto. Viscerale. Gonfio di fame e gradimento.

    Ed è a quel punto che arrivo io.

    Ho anticipato le lancette della sveglia di un’ora buona per recuperare le reti. La Capitaneria non vede di buon occhio la pesca al tramaglio. Non senza licenza per lo meno. Così sono costretto a piazzarle con il favore delle tenebre. Uso un vecchio stand up paddle e alcune taniche di plastica al posto delle boe.

    Mi piacerebbe stare a raccontarvi che faccio razzia di branzini, di anguille e di orate, ma non è così. Nella maggior parte dei casi nella mia barracuda rimangono impigliati cefali e sarde. Il valore economico è talmente basso da convincermi a liberarne la metà. Il resto finisce sulla griglia. Mangio pesce sette giorni su sette. È una vera e propria presa di posizione. Un atto di guerra nei confronti di mia madre.

    La vecchia si rifiuta categoricamente di mangiare quello che pesco. Le sue labbra non si scontreranno mai con un prodotto di così bassa fattura. Ha avuto il privilegio di cenare nei migliori ristoranti della riviera. L’ha fatto per tutta la vita, e non ha certo intenzione di cambiare adesso. Così mentre io affondo i canini in un filetto di cefalo pieno di squame, lei, dall’altro capo del tavolo, mi rimprovera in silenzio mentre infila le sue protesi di porcellana ingiallita in una scatoletta di tonno condita con il mais.

    La verità è che non ci siamo mai piaciuti, io e mia madre.

    Credo sia una faccenda che risale ai tempi della gravidanza. Per poco non la lascio secca. Le sono costato l’utero, due trasfusioni ed una vita di antidepressivi.

    Dopo che me ne andai di casa, la vecchia sparse in giro la voce che fossi morto. Meglio un figlio sottoterra che un depravato cresciuto in riformatorio, disperso chissà dove a commettere chissà quali atrocità.

    Poi mio padre l’ha lasciata.

    Gli ci sono voluti quarant’anni di matrimonio ma ce l’ha fatta. Non me la sento di giudicarlo. Non si giudica un pezzo di legno che finalmente si trasforma in un bambino vero. Tutto quello che si può fare, al massimo, è rimanere incantati.

    Certo per riuscirci papà ha avuto bisogno della sua personale fata turchina. Nello specifico un’infermiera rumena di nome Teodora, che gli è costata i risparmi di una vita e una dipendenza spasmodica dal citrato di sildenafil.

    Con un po’ di fortuna, in questo momento, è bello che morto in un canale di scolo di Bucarest. L’uccello diritto all’infinito e un ghigno soddisfatto impantanato tra i baffi.

    Da quando è scomparso, ormai sei mesi fa, nessuno ha più avuto suo notizie. Tutto quello che sappiamo è che il conto in banca dice rosso e che mia madre, dopo un’esistenza di ozio assoluto si è ritrovata con l’acqua alla gola. Al posto suo qualcuno si sarebbe rimboccato le maniche. Lei ha scelto un rasoio della Venus e un bagno caldo.

    È stato un gesto più plateale che reale. Mia madre ha sempre avuto un debole per il melodramma. Il massimo che poteva fare con quel rasoio era depilarsi. Ma i paramedici (che lei si è premurata di chiamare mentre smaniava di uccidersi) hanno trovato una lettera d’addio e la vecchia è finita in TSO.

    In quel preciso momento io vegetavo, fatto come un detenuto, nell’umidità della mia cuccia tropicale in Costa Rica. Avevo il culo a terra e bisticciavo con Damocle e la sua proverbiale lama tutto il santo giorno.

    Quando è arrivata la chiamata non ho fatto altro che mollare gli ormeggi e precipitarmi qui.

    Sarei un bugiardo se dicessi che ho agito per il bene di mia madre. Quando sei vittima delle circostanze e non hai il fegato per affrontarle, il massimo in cui puoi sperare è un’occasione.

    Io l’ho presa al volo.

    Mi sono presentato davanti all’Ospedale Civile Santa Maria delle Croci di Ravenna il venti di maggio. Con me avevo tutto quello che possiedo. Un grumo di vestiti e il mio longboard.

    Non mi serve altro. Il mare mi ha salvato la vita e se l’è presa.

    Fuori dall’acqua non esisto.

    Sono un cacciatore di onde da quasi vent’anni. Uscito dal riformatorio provavo soltanto una cosa: fame. La gabbia mi aveva insegnato a mordere. Frequentavo brutte compagnie. Mi piaceva fare a botte. Mi piaceva bere e fumare marijuana. Fu proprio l’erba ad avvicinarmi al surf. Compravo all’ingrosso da un ragazzo più grande. Un rastafariano chiacchierone che impregnava la quotidianità con continue (e discutibili) scelte morali. Tra cui il surf, appunto. Fu lui a donarmi una vecchia minimalibù{1} ingiallita di cui voleva liberarsi. È stata la mia fortuna. Nel giro di qualche mese imparai che l’unica cosa di cui avevo bisogno era una porzione di acqua salata. Quello che non sapevo è che presto avrei avuto bisogno di una fetta sempre più grande.

    Così cominciai a viaggiare. Con le tasche vuote e la mia faccia tosta a mantenermi. Ho fatto di tutto per sopravvivere e raramente si trattava di faccende legali. Ho spacciato ogni genere di sostanze, ho assaltato scafi turistici e pompe di benzina, ho rubato automobili, rame e medicinali. Posso farmi capire in mezza dozzina di lingue, sono stato accoltellato tre volte in tre diversi continenti e non possiedo un paio di scarpe da quindici anni.

    E ora mi trovo qui, a fare da balia a una pazza suicida, sulle rive di uno stagno pigro che la gente ha pure il coraggio di chiamare mare.

    Sbadiglio e lascio perdere le reti.

    Arrivato alla fine della passerella i gabbiani sono diventati un cazzo di stormo. Si agitano attorno al cadavere facendo un baccano infernale. Disperderli non è uno scherzo.

    Quando mi inginocchio sull’uomo i bastardi si sono già sciroppati via gli occhi.

    Nonostante abbia la testa spaccata come un melone non mi è difficile riconoscerlo. Si chiama Samba. È un ambulante di origini nigeriane. E mi deve cinque chili di erba.

    2

    Il Bagno Andromeda è l’ultimo stabilimento balneare del Lido Etrusco, direzione nord. Oltre sono sette chilometri di pineta e valli salmastre.

    L’edificio, vecchio di quarant’anni, è stato rappezzato con materiali di fortuna. Qualcuno potrebbe definirlo pittoresco. La maggior parte lo scambia per una latrina abusiva nel bel mezzo di una discarica. Anche lo stesso titolare. Il suo nome è Ario e da dieci anni a questa parte lavora per lo Stato. Il demanio, in questa zona, ha una politica fascista riguardo gli stabilimenti balneari. Una politica necessaria a rimediare la totale mancanza di controllo delle epoche precedenti. Se negli anni Ottanta potevi gettare le fondamenta su un cumulo di materiale radioattivo e mantenere dieci dipendenti senza versare il becco di un contributo, ora sei obbligato a pagare a peso d’oro ogni insulso granello di sabbia. Anche quelli che ti si infilano tra i peli del culo.

    Come è ovvio, molti non hanno resistito a questo repentino cambio di direzione, finendo per chiudere i battenti o dare l’edificio in pasto alle fiamme, sperando in un miracolo assicurativo.

    Altri, come Ario, continuano a resistere, accumulando multe e sanzioni, in attesa del giorno in cui finalmente qualcuno avrà le palle di riscuotere ciò che gli spetta.

    Ario non ha paura di perdere l’Andromeda. Ha paura di schiattare prima che questo succeda.

    In tal caso la palla passerebbe a Giobbe, suo figlio. La più patetica forma di vita cui abbia avuto la sfortuna di conoscere. Opinione che, sono certo, ha di lui il suo stesso padre ma che, convenzionato ad un ammirabile senso del dovere, non può esprimere liberamente.

    I due dividono il piccolo appartamento ricavato sul retro della struttura.  

    Quando entro nella stanza da letto trovo il vecchio titolare con gli occhi spalancati e una mano sulla scacciacani.

    — Ario. Sono io.

    Il vecchio allenta leggermente la presa sulla pistola.

    — C’è un uomo morto sul bagnasciuga, — dico. — Si tratta di Samba.

    Ario mette via l’arma. Sbadiglia malamente e si mette a sedere.

    — Grazie, Talebano.

    — Credo sia meglio chiamare gli sbirri.

    Ario annuisce. Tira su con il naso. Poi raccoglie la protesi di sughero e la fascia attorno al ginocchio sinistro.

    — Vai a svegliare Giobbe, ti spiace? — sussurra calmo.

    — Ok.

    Infilarsi negli alloggi notturni di Giobbe è decisamente una faccenda per stomaci forti. Sento il ciccione russare come un tricheco già dall’esterno. La cosa mi deprime a tal punto che sfondo l’ingresso con una pedata.

    L’unica reazione che ottengo da lui è una scoreggia brutale che confina le mie intenzioni in una gabbia di titanio.

    Fortunatamente Ario viene in mio soccorso. Il rumore battente della gamba di legno lo precede.

    — Giobbe, — dice. — Alza le chiappe da lì.

    Il ciccione grugnisce e si prodiga in un’abile grattata di pube. Non si sforza nemmeno di aprire gli occhi. Semplicemente ci volta le spalle.

    — Papà, è presto...

    Trentun anni suonati, un divorzio lampo e una bancarotta spietata nell’immediato futuro, non sono serviti ad ammaestrare la barbarie morale di Giobbe. Lo stronzo dorme tutti i giorni fino alle undici del mattino. E questo per quel che riguarda l’estate, quando c’è da lavorare sul serio. L’inverno, be’, per lui è un cazzo di letargo in piena regola.

    — Vestiti, — ordina Ario spalancando la finestra.

    — Si può sapere che succede?

    — C’è un cadavere in spiaggia.

    — Un altro vecchio? 

    — È Samba, — intervengo. — Gli hanno aperto il cranio in due.

    — Devo prendere la pala? — domanda Giobbe sbadigliando.

    — No, — ribatte Ario. — Devi chiamare i carabinieri. Io e il Talebano ti aspettiamo in riva. Per ora tieni i cancelli chiusi.

     Ario non ha altro da aggiungere. Trascina la gamba di legno all’esterno. Vorrei seguirlo a ruota ma faccio l’errore di concedere un ultimo sguardo alla stanza.

    — Una volta sono rimasto nascosto per tre settimane nella stiva di un peschereccio indonesiano, — dico a Giobbe. — Era piena di topi, ma aveva un aspetto migliore di questo.

    Lui mi manda al diavolo. Io sorrido. Poi mi dirigo sulla scena del crimine.

    In circostanze normali, se il bastardo che mi deve cinque chili di roba viene fatto secco a pochi metri da dove vivo, cambierei continente senza pensarci troppo.

    Quello che non farei, in nessun caso, è suggerire di chiamare gli sbirri. I poliziotti riescono sempre ad incasinare le cose. Ma oggi, viste le circostanze, non ho avuto poi molta scelta.

    Ho fatto economia tutta l’estate per comprare la merce. Ho anche acconsentito a pagare in anticipo per avere un ulteriore sconto. Due euro al grammo. Duemila il chilo. L’intento era di rivenderne il grosso della partita entro fine stagione, triplicando così l’investimento. Con quei soldi dovevo comprarci un biglietto di sola andata per il nuovo mondo. Ovunque esso si trovi.

    Ora in tasca ho un buco di diecimila euro e, se i piedipiatti scoprono prima di me dove Samba teneva l’erba, posso dire addio per sempre ai miei sogni d’evasione. 

    A mamma si spezzerebbe il cuore. Le toccherebbe sopportarmi per tutto l’inverno. Cristo, come minimo finiremmo per volerci bene.

    Tutto quello in cui posso sperare è in un’indagine pigra, consumata tra una partita ad Hearts e una moka di caffè. In fondo Samba è un immigrato di colore, un individuo trascurabile nella società contemporanea. Anche se bazzica l’Italia da più di un decennio, non significa che a qualcuno importi qualcosa di lui.

    Ed è esattamente così che la pensa anche l’appuntato Rognoni, impegnato a dare sollievo ad un prurito lombare.

    — Perché accidenti non l’avete seppellito come fanno tutti? — protesta.

    Intorno alla scena del crimine si è condensata una piccola folla. Oltre agli sbirri, c’è il solito gruppo di stacanovisti delle sei del mattino. Quella insulsa confraternita di camminatori fanatici, assorbiti dal culto del buon vivere a tal punto da essere incapaci di far colazione se prima non hanno drenato dalla loro anima una decina di migliaia di calorie.

    Io me ne sto in disparte. Osservo la scena seduto sugli scalini della torretta del salvataggio. Da quel che ho capito, non ci sono molti dubbi su come siano andate le cose. Qualcuno ha fracassato la testa a Samba, probabilmente con un oggetto pesante, e poi ha tagliato la corda prima del sorgere del sole.

    — Finiscono sempre per ammazzarsi tra loro, — continua Rognoni. — Lo fanno nel loro paese e lo fanno qui da noi. È una faccenda culturale. Noi che possiamo farci?

    — Rognoni, — interviene risoluto il tenente Lenza. — Piantala di dire stupidaggini e vai a prendere la deposizione del surfista.

    — Sì, tenente. Mi scusi.

    Il tenente Luigi Lenza è decisamente il tipo giusto per il mestiere che fa. Motivo che gli è costato l’esilio al Lido Etrusco. Dopo una mezza dozzina di missioni in Afghanistan venne destinato al distretto antimafia di Foggia. Ci rimase per un pezzo, a compilare scartoffie, a lottare con i colleghi e con i magistrati, in quella che lui stesso ha definito: una fantascientifica guerra alla Sacra Corona Unita.

    Poi c’è stata una rottura. Forse ha pestato i piedi alle persone sbagliate, o è arrivato veramente vicino ad ottenere risultati concreti, fatto sta che per il suo bene, e per quello dell’Arma, è stato rispedito quassù.

    Ora mi rivolge una lunga e strana occhiata mentre Rognoni avanza verso di me alitando sulla biro. Poi volta le spalle a entrambi e riprende a sibilare ordini precisi.

    — Allora, Talebano, quando mi dai due lezioni di surf? — domanda l’appuntato picchiando la sua mano pelosa sulla mia coscia.

    Charlie don’t surf, Rognoni. Te l’ho già detto.

    — Si può sapere chi è questo Charlie?

    — Tu sei Charlie, amico mio.

    Rognoni sghignazza e mi offre una sigaretta. L’accetto volentieri. Sfotterlo non dà poi grosse soddisfazioni. Nonostante i modi puerili e una sensibilità da bifolco, l’appuntato rimane una persona accettabile. Il fatto di essere stati compagni alle elementari lo mette in diritto, a suo avviso, di dover ricevere un trattamento di favore rispetto al resto della comunità. Ma io non do lezioni di surf gratis nemmeno a modelle di intimo femminile o a bambini malati di cancro, figuriamoci a un piedipiatti.

    — Il capo è un maniaco della burocrazia, — spiega l’appuntato bisticciando con un taccuino. — Allora, generalità, Tito Cantabria nato il...

    — 23 settembre del ‘82. A Ravenna.

    — Residente a...

    Questa è una bella domanda. Tecnicamente per la legge abito ancora a casa Cantabria. Via dei Ramponieri 17, Lido Etrusco. La stessa dimora che al momento è occupata a una famiglia di turisti olandesi.

    Visti gli ingenti problemi economici cui ci ha condannato il mio vecchio, ho deciso di affittare lo stabile per tutta la stagione.

    Ovviamente mamma non l’ha presa bene.

    Soprattutto per il fatto che da tre mesi a questa parte vive in una roulotte deprimente sul retro dell’Andromeda. Ario ce l’ha subaffittata a cinquanta euro al mese. Niente elettricità, niente acqua corrente. Solo un tetto con due lettini da spiaggia e un fornello a gas. Ci permette di usare i servizi del Bagno e di riempire le bottiglie di plastica con l’acqua dei cessi.

    — Ok, — riprende l’appuntato Rognoni. — Sicché tu sei arrivato qui alle...

    — Sei e mezza circa.

    — E hai trovato la vittima così com’è?

    — Era pieno di gabbiani. Non so per quanto tempo se lo siano lavorato.

    — Non c’era nessun altro in giro?

    — No.

    — Hai notato qualcosa di anomalo?

    — Nulla.

    — Posso sapere che ci facevi qui, a quest’ora? Mica eri venuto a surfare senza avvertirmi spero?

    Guardo il mare, esausto come un barile di olio industriale. Poi guardo lui.

    — Direi proprio di no.

    — E allora?

    Calo le carte. In certe occasioni è il male minore. Spiego delle reti. Tiro in ballo mia madre. La vecchia aveva espresso un forte desiderio di mangiare pesce fresco.

    — Sai lo psicologo dice che devo viziarla. Almeno finché non si è ripresa un po’.

    — Talebano, — Rognoni appoggia solennemente la sua mano sudata sulla mia spalla. — Puoi stare tranquillo. So quello che ha passato la signora Cantabria. Quello che hai passato tu.

    L’appuntato confeziona una pausa per darmi modo di allontanare il dolore.

    — Oltretutto, — riprende Rognoni. — Io sono del parere che il mare sia un bene comune. E che di pesce ce ne sia anche troppo. Nessuno verrà a romperti le palle per le reti. Parola mia.

    Lo ringrazio promettendogli uno sconto su una futura (ed improbabile) lezione di surf e lo prego di tenermi al corrente degli eventuali sviluppi dell‘indagine.

    — Samba era un brav’uomo, — spiego. — Non meritava una fine del genere.

    Pochi minuti dopo il tenente Lenza ci dà il permesso di andarcene. La scientifica è in arrivo da Parma e, per ora, non c’è altro che si possa fare. Ci raccomanda comunque di mantenere una educata discrezione riguardo la faccenda. Il Lido non gode di buona luce dopo la morte, avvenuta qualche settimana fa, di un ventenne durante un esercizio di calisthenics in un parco giochi. Il referto dice arresto cardiaco ma lo spettro delle sostanze dopanti aleggia sulla tragedia. Perciò nessuno cerca altri scandali.

    Saluto Rognoni e mi allontano a passo svelto.

    A quest’ora i sonniferi di mamma hanno perso efficacia da un pezzo.

    3

    La roulotte è situata sotto a una tettoia di lamiera arrugginita, vicino alla gabbia del Barone Fraser.

    Nel vedermi il pappagallo attacca a fischiettare il motivo di una vecchia pubblicità.

    Raccolgo un po’ di becchime dal pavimento e glielo porgo sul palmo della mano. — Come butta oggi, Ammiraglio?

    Il pennuto allunga il collo oltre le sbarre e infila il becco tra le mie dita.

    — La vecchia è già in piedi? — domando.

    Penelope! Penelope! Penelope! — si mette a starnazzare.

    È l’unica parola che ha imparato. Penelope. Il nome della sua padrona. Moglie di Ario e madre di Giobbe. Fondatrice del Bagno Andromeda. Morta ormai da undici anni.

    Lascio cadere il becchime nella ciotola ed entro nel caravan.

    Come ho già accennato l’arredamento è piuttosto essenziale. Uno sdraio sulla destra, uno sulla sinistra. Al centro il piano cottura e i pensili.

    Un tempo la roulotte veniva utilizzata dai dipendenti dell’Andromeda per tutta l’estate. È stata il nido d’amore di parecchie generazioni di bagnini da terra. Un luogo dove distendere i nervi e allontanare tutte le problematiche di una stagione di lavoro.

    Adesso è nient’altro che un eremo desolato dove scontare i propri debiti morali.

    E mamma ce la mette tutta per farla sembrare anche peggio di così.

    La trovo seduta sul suo giaciglio, vestita di tutto punto, con i capelli sporchi, tinti a chiazze giallastre.

    Non mi

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