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Il dramma di Orcival
Il dramma di Orcival
Il dramma di Orcival
E-book524 pagine7 ore

Il dramma di Orcival

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Info su questo ebook

Quando il castello dei conti Trémorel viene trovato mezzo distrutto dai ladri e, in riva al fiume, viene rinvenuto il cadavere della contessa, scatta la ricerca del corpo del conte e la caccia ai colpevoli.
Il magistrato arresta subito il giardiniere Guespin, che sembra inchiodato da tutte le prove, quando entra in scena monsieur Lecoq, l’infallibile investigatore parigino che tirerà le fila di una torbida vicenda che inizia anni prima con un altro omicidio mascherato da morte naturale.
Con la seconda inchiesta del poliziotto creato da Gaboriau ci ritroviamo tra la provincia francese e i bassifondi parigini.
LinguaItaliano
Data di uscita16 mag 2022
ISBN9791221335439
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    Anteprima del libro

    Il dramma di Orcival - Émile Gaboriau

    Copertina

    GialloAurora

    12

    Emile Gaboriau, Il dramma di Orcival

    1a edizione GialloAurora, maggio 2022

    © Landscape Books 2022

    www.landscape-books.com

    Titolo originale: Le crime dOrcival"

    Edizione digitale a cura di WAY TO ePUB

    Emile Gaboriau

    Il dramma di Orcival

    I.

    Il 9 luglio 186..., un giovedì, Jean Bertaud, detto Bisboccia, e suo figlio, i quali campavano, come ben si sapeva a Orcival, facendo i bracconieri e i ladruncoli, si alzarono appena cominciò ad albeggiare, verso le tre del mattino, per andare a pesca.

    Carichi del loro sartiame, imboccarono l’incantevole viottolo ombreggiato di acacie che si intravede dalla stazione d’Ivry e scende dalla borgata di Orcival alla Senna.

    Qui raggiunsero la barca, ormeggiata abitualmente a monte del ponte di ferro, lungo un prato che confinava con Valfeuillu, la magnifica tenuta del conte di Trémorel.

    Arrivati sulla riva del fiume, si sbarazzarono degli arnesi per la pesca e Jean detto Bisboccia balzò nella barca per svuotarla dall’acqua che ne copriva il fondo.

    Mentre, impugnata la gottazza, la maneggiava con disinvoltura, si accorse che uno degli scalmi della vecchia imbarcazione, consunto dall’attrito con il remo, stava per rompersi.

    — Philippe — gridò al figlio, occupato a sbrogliare un giacchio di cui un guardapesca avrebbe trovato le maglie troppo strette. — Philippe, vammi un po’ a prendere un pezzo di legno per rifare questo scalmo.

    — Va bene. Vado — rispose Philippe.

    Ma sul campo non c’era un solo albero. Il giovanotto, di conseguenza, si diresse verso il parco di Valfeuillu, che era distante solo pochi passi e, senza preoccuparsi minimamente dell’articolo 391 del Codice Penale, varcò con un salto il largo fossato che cingeva la proprietà del signor Trémorel, con l’intenzione di tagliare un ramo da uno degli antichi salici piangenti che allungavano le loro fronde verso l’acqua, sfiorandone la corrente. Trasse di tasca il coltello, lanciò intorno a sé le classiche occhiate furtive del cacciatore di frodo, e gli sfuggì un grido soffocato.

    — Papà! Ehi! Papà!

    — Cosa c’è? — rispose il vecchio bracconiere senza muoversi.

    — Papà, vieni qui! — continuò Philippe. — Per amor di Dio, vieni subito!

    Jean detto Bisboccia si rese conto, dal tono del figlio, che doveva essere accaduto qualcosa d’insolito. Abbandonata la gottazza, in preda all’inquietudine, con tre salti entrò nel parco. Anche lui rimase impietrito di fronte allo spettacolo che aveva terrorizzato Philippe.

    Sulla riva del fiume, in mezzo ai giunchi e ai gigli d’acqua, giaceva il cadavere di una donna. I suoi lunghi capelli sciolti erano attorcigliati intorno alle erbe acquatiche; e l’abito di seta grigia, lacero e stracciato, era sporco di melma e di sangue. La parte superiore del suo corpo era immersa nell’acqua poco profonda e il viso affondato nel fango.

    — Un assassinio! — balbettò Philippe con la voce che gli tremava.

    — Ah, certo, non ci sono dubbi! — rispose Bisboccia indifferente. — Ma chi può essere questa donna? Sembra quasi la contessa!

    — Lo vediamo subito — disse il giovanotto.

    E fece un passo verso il cadavere; ma il padre lo prese per un braccio.

    — Cosa vuoi fare, disgraziato! — esclamò. — Non si deve mai toccare il cadavere di una persona assassinata senza che sia presente la giustizia.

    — Credi proprio?

    — Certo. Si va in galera.

    — Allora andiamo ad avvertire il sindaco.

    — E perché? Come se la gente che sta da queste parti non ce l’avesse anche troppo con noi! Come si fa a essere sicuri che non ci accuseranno?

    — A ogni modo, papà...

    — Insomma! Se andiamo ad avvertire il signor Courtois, ci chiederà come e perché ci trovavamo nel parco del conte de Trémorel. A te cosa importa che la contessa sia stata uccisa? Troveranno il suo corpo, prima o poi... vieni, andiamocene.

    Ma Philippe non si lasciò convincere. A testa bassa, il mento appoggiato al palmo della mano, rifletteva.

    — Bisogna avvertire qualcuno — dichiarò in tono deciso. — Non siamo dei selvaggi! Diremo al signor Courtois che abbiamo scorto il cadavere mentre costeggiavamo il parco con la nostra barca.

    Situato a cinque chilometri da Corbeil. sulla riva destra della Senna, a venti minuti dalla stazione d’Ivry, Orcival è uno dei villaggi più incantevoli dei dintorni di Parigi, malgrado l’etimologia infernale del suo nome.

    Il parigino, rumoroso e avido che, la domenica, si riversa nelle campagne, più distruttore delle cavallette, non ha ancora scoperto queste ridenti campagne. L’odore del fritto, tanto gustoso da far venne l’acquolina in bocca, che esce dalle trattorie locali non sommerge ancora il profumo del caprifoglio, e non vi risvegliano ancora un’eco i canti dei canottieri o il ritornello della cornetta che suona nelle sale da ballo pubbliche.

    Pigramente disteso sul dolce pendio di un colle che bagna la Senna, Orcival ha le case bianche, grandi alberi fronzuti che offrono un’ombra piacevolissima e un campanile nuovo di zecca di cui il paese è fiero e orgoglioso.

    Da ogni parte lo circondano vaste tenute e case di campagna per il cui mantenimento non si bada a spese e dal suo punto più alto si possono vedere le banderuole di una ventina di castelli.

    A destra, ecco gli alberi d’alto fusto di Mauprévoir e lo stupendo castello della contessa de la Brèche, di fronte, sull’altra riva del fiume, ecco Mousseaux e Petit-Bourg, l’antica tenuta degli Aguado diventata proprietà di un famoso fabbricante di carrozze, il signor Binder; a sinistra, quegli alberi magnifici appartengono al conte di Trémorel, quel palco grandioso è il parco di Etiolles e in lontananza, più in basso, ecco Corbeil, quella immensa costruzione il cui tetto sovrasta le querce maestose e il mulino Darblay.

    Il sindaco di Orcival abita nella parte più alta della borgata in una di quelle case che tutti sognano ma che possono permettersi soltanto coloro che hanno una rendita di centomila franchi.

    Il signor Courtois, fabbricante di tele a riposo, aveva cominciato a lavorare senza il becco d’un quattrino e dopo trent’anni di attività indefessa, si era ritirato con un patrimonio di quattro milioni di franchi. Agli inizi la sua intenzione era stata quella di vivere tranquillamente con la moglie e le figlie, trascorrendo l’inverno a Parigi e l’estate in campagna. Ma, quasi improvvisamente, aveva cominciato a mostrarsi irrequieto e malcontento. Era l’ambizione a roderlo. Perciò aveva fatto il possibile e l’impossibile, con abili manovre, perché gli venisse quasi imposto di accettare la carica di sindaco di Orcival. E se lui l’aveva accettata, lo aveva fatto con evidente riluttanza come si vedrà da quanto segue. Quella carica, in realtà, rappresentava la sua felicità e la sua disperazione. Una disperazione apparente, una felicità autentica e segreta. In apparenza cupo e accigliato, pareva che affrontasse di malavoglia tutte le preoccupazioni inerenti alla sua carica, mentre gongolava, soddisfatto e trionfante, quando poteva partecipare alla festa del consiglio municipale con la fascia, guarnita di passamaneria d’oro, legata alla cintola.

    Tutti dormivano ancora in casa del sindaco quando i due Bertaud, padre e figlio, si attaccarono al massiccio batacchio della porta. Dopo un po’, un domestico mezzo intontito dal sonno e vestito alla bell’e meglio apparve a una delle finestre del pianterreno.

    — Si può sapere cosa volete, bricconi? — domandò di pessimo umore.

    Jean Bisboccia si rese conto che era meglio fingere di non aver sentito quell’insulto, troppo ben giustificato dalla reputazione che aveva nel circondario.

    — Vogliamo parlare con il signor sindaco — rispose. — Si tratta di una faccenda della massima urgenza. Andate a svegliarlo, signor Baptiste, e non si rimprovererà, vedrete.

    — A me non mi rimprovera nessuno — grugnì Baptiste.

    Comunque ci vollero dieci minuti buoni di trattative e di spiegazioni per farlo decidere. Finalmente i due Bertaud vennero ammessi alla presenza di un ometto corpulento, rosso in faccia, visibilmente corrucciato per essere stato tirato giù dal letto a quell’ora antelucana: si trattava del signor Courtois.

    I due Bertaud avevano deciso che sarebbe stato meglio se fosse stato Philippe a parlare.

    — Signor sindaco — cominciò quest’ultimo. — Veniamo ad annunciarvi una grave sciagura; nella tenuta del conte de Trémorel è stato commesso un delitto.

    Il signor Courtois era amico del conte e, di fronte a una dichiarazione così inaspettata, diventò ancora più bianco della sua camicia.

    — Ah, Dio mio! — balbettò senza riuscire a dominare la propria commozione. — Che cosa mi dite... un delitto...

    — Sì, poco fa abbiamo visto un cadavere, come in questo momento vediamo voi, e credo che si tratti proprio della contessa.

    Quella degna persona che era il sindaco di Orcival alzò le braccia al cielo con aria sconvolta.

    — Ma… dove... quando? — domandò.

    — Poco fa, in fondo al parco lungo il quale stavamo passando per andare a ritirare le nostre reti.

    — Ma è orribile! — ripeté il signor Courtois. — Che disgrazia! Una così brava signora! Non è possibile, dovete sbagliarvi; sarei stato avvertito…

    — Abbiamo visto il cadavere con i nostri occhi, signor sindaco!

    — Un simile delitto qui, nel mio borgo! Certo, avete fatto bene a venire. Mi vesto in un batter d’occhio e poi ci precipitiamo… no, volevo dire... aspettate!

    Rifletté un momento e poi chiamò: — Baptiste!

    Il domestico non era molto lontano. Tenendo incollati alternativamente al buco della serratura l’occhio e l’orecchio, ascoltava e guardava senza perdere nulla di ciò che stava succedendo. Al richiamo del padrone, gli bastò allungare un braccio per aprire la porta.

    — Il signore mi ha chiamato?

    — Corri dal giudice di pace — gli disse il sindaco. — Non abbiamo un istante da perdere, si tratta di un delitto, di un assassinio, che venga presto, più presto che può. Quanto a voialtri — continuò, rivolgendosi ai due Bertaud — aspettatemi qui. Vado a mettere la giacca.

    Il giudice di pace di Orcival, papà Plantat, come lo chiamavano, era un anziano procuratore legale di Melun.

    A cinquant’anni, dopo una vita in cui tutto gli era sempre andato a gonfie vele, aveva perso nel giro di poche settimane la moglie che adorava e i figli, due simpatici ragazzi, uno di diciotto e l’altro di ventidue anni. Questi lutti che si erano susseguiti a così poca distanza l’uno dall’altro avevano annientato un uomo che trent’anni di vita serena e agiata rendevano ormai incapace di difendersi da una simile sciagura, e per molto tempo tutti avevano temuto che perdesse la ragione. Bastava la visita di un cliente, che venisse a strapparlo dal suo dolore per chiedergli un parere su squallide storie di interesse, a esasperarlo. Di conseguenza nessuno si era meravigliato di vedergli cedere lo studio professionale per la metà di quello che valeva. Il signor Plantat voleva ritirarsi in un posto dove vivere tranquillamente, in compagnia dei propri dolorosi ricordi, con la certezza di non essere disturbato da nulla e da nessuno.

    Ma, col passare del tempo, l’intensità del suo dolore era diminuita mentre cominciava a farsi sentire sempre più forte la noia provocata dalla mancanza di un’attività. Il seggio di giudice di pace di Orcival era vacante; il signor Plantat lo aveva chiesto, e lo aveva ottenuto.

    Entrato in carica, aveva cominciato ad annoiarsi un po’ meno. Lui che aveva creduto che la propria vita fosse finita, adesso non poteva fare a meno di interessarsi alle mille cause, fra le più svariate, che gli venivano affidate. Quindi aveva cominciato ad applicare nella professione tutte le migliori capacità di un’intelligenza superiore e tutte le risorse di uno spirito mirabilmente equilibrato nel distinguere il vero dal falso in mezzo alle numerose menzogne che era costretto ad ascoltare.

    Continuava a vivere in solitudine, malgrado le esortazioni del signor Courtois, affermando che la compagnia del suo prossimo lo affaticava e l’uomo triste e infelice non poteva che diventare un guastafeste per tutti. Così dedicava a un’impareggiabile collezione di petunie il tempo che il tribunale gli lasciava libero.

    La sfortuna che, in genere, fa modificare il carattere, a volte in meglio, a volte in peggio, lo aveva fatto diventare, almeno in apparenza, terribilmente egoista. Dichiarava sempre di interessarsi alle cose della vita né più né meno come un critico, dal gusto ormai rovinato, di fronte a ciò che si recita su un palcoscenico. E gli piaceva ostentare la sua profonda indifferenza per tutto ciò che lo circondava, arrivando perfino al punto di dichiarare che, se anche una pioggia di cenere e lapilli si fosse rovesciata su Parigi, un fatto del genere non avrebbe provocato in lui il minimo interesse. Pareva che fosse impossibile suscitare la sua commozione, cosa volete che me ne importi! era il suo ritornello preferito.

    Ecco, dunque, chi era il personaggio che, un quarto d’ora dopo essere stato mandato a chiamare da Baptiste, arrivò in casa del sindaco d’Orcival.

    Il signor Plantat era alto di statura, magro, tutto nervi. La sua fisionomia non aveva niente di straordinario. Portava i capelli corti; i suoi occhi avevano un’espressione inquieta e pareva che cercassero sempre qualcosa, il naso era lungo ma affilato come una lama di rasoio. Dopo tutte le sue disgrazie, la bocca, anche quella lunga e sottile, aveva cambiato forma; il labbro inferiore, più molle e afflosciato, gli dava un’aria ingenua e un po’ sciocca, del tutto ingannevole.

    — A quanto mi dicono — esclamò appena entrato dalla porta — la contessa di Trémorel sarebbe stata assassinata.

    — Perlomeno è quello che affermano questi uomini — rispose il sindaco, rientrando anche lui in quel momento.

    Il signor Courtois non sembrava più quello di prima. Aveva avuto il tempo di riacquistare un po’ il controllo di sé e, adesso, faceva del suo meglio per assumere un aspetto freddo e maestoso, ma continuava a rimproverarsi di aver mancato di dignità manifestando liberamente il proprio turbamento e il proprio dolore davanti ai due Bertaud.

    Niente deve commuovere fino a questo punto un uomo nella mia posizione si era detto, e quindi, adesso, per quanto fosse profondamente sconvolto, si sforzava di mostrarsi calmo, impassibile, freddo.

    Quanto al signor Plantat, lo era già di natura. — Sarebbe un incidente molto increscioso — esclamò con un tono assolutamente privo d’interesse — ma, in fondo, ci riguarda relativamente, vero? A ogni modo è necessario andar subito a vedere di che si tratta; ho già fatto avvertire il brigadiere della gendarmeria che verrà a raggiungerci.

    — Allora, andiamo — disse il signor Courtois. — Ho la mia fascia tricolore in tasca.

    Si avviarono. Philippe e suo padre per primi, il giovanotto con un’aria ansiosa e spazientita, il vecchio con la faccia cupa e preoccupata.

    Il sindaco, a ogni passo, si lasciava sfuggire una nuova esclamazione. — Cerchiamo di capirci — mormorava. — Un delitto nel mio comune... un comune dove a memoria d’uomo non è stato mai commesso un crimine?

    E scrutava i due Bertaud con occhi colmi di sospetto.

    La strada che conduceva alla villa — in paese la chiamavano il castello — del signor Trémorel non aveva niente di bello, incassata com’era tra due muri alti qualche metro. Da una parte costeggiava il parco della marchesa de Lanascol, dall’altra il grande giardino di Saint-Jouan. Tutto quell’andirivieni aveva richiesto parecchio tempo e, quindi, erano quasi le otto quando il sindaco, il giudice di pace e le loro guide si fermarono davanti al cancello della villa Trémorel.

    Il sindaco suonò. La campana era squillante e soltanto un piccolo cortile con il fondo coperto di sabbia, largo cinque o sei metri, separava il cancello dall’ingresso della villa. Tuttavia nessuno comparve.

    Il sindaco suonò di nuovo, con rinnovato vigore, e poi più forte ancora, con tutte le sue forze, ma invano.

    Davanti al cancello della proprietà della signora de Lanascol, situato quasi di fronte, un palafreniere era intento a lucidare alcuni finimenti.

    — È inutile prendersi la briga di suonare, signori — disse costui. — Al castello non c’è nessuno.

    — Come! Non c’è nessuno? — domandò il sindaco sorpreso.

    — Voglio dire che ci sono soltanto i padroni — rispose il palafreniere. — I domestici sono partiti ieri sera, con il treno delle otto e quaranta, sono andati tutti a Parigi alla festa di nozze della ex cuoca di casa, la signora Denis. Dovrebbero rientrare stamattina con il primo treno. Ero invitato anch’io ma...

    — Gran Dio onnipotente! — lo interruppe il signor Courtois. — Allora il conte e la contessa sono rimasti soli questa notte?

    — Sì, completamente soli, signor sindaco.

    — Ma è orribile!

    Sembrava che il signor Plantat cominciasse a spazientirsi di fronte a quel dialogo.

    — Sentite un po’ — disse. — Non possiamo restare in eterno davanti a questo cancello. I gendarmi non arrivano. Andiamo a chiamare il fabbro.

    Philippe stava già per avviarsi quando dalla strada si sentirono provenire canti e scrosci di risa e ben presto comparvero cinque persone, tre donne e due uomini.

    — Ah! Ecco la servitù del castello — disse il palafreniere che sembrava singolarmente incuriosito da quella visita mattutina — E devono avere una chiave.

    I domestici, da parte loro, accorgendosi del gruppetto di persone fermo davanti al cancello, ammutolirono e affrettarono il passo. Anzi uno del gruppo si mise addirittura a correre, precedendo gli altri; era il cameriere personale del conte.

    — I signori desiderano parlare con il signor conte? — domandò, dopo aver salutato il sindaco e il giudice di pace.

    — Abbiamo già suonato energicamente almeno cinque volte — disse il sindaco.

    — È molto strano — osservò il cameriere — Fra l’altro, il signore ha il sonno molto leggero. Potrebbe darsi, però, che sia uscito.

    — Che sciagura! — si mise a gridare Philippe. — Saranno stati assassinati tutti e due!

    Queste parole ottennero subito lo scopo di far passare tutta l’allegria ai domestici che, a giudicare dalla loro aria giuliva, dovevano aver brindato abbondantemente alla felicità dei novelli sposi.

    Quanto al signor Courtois, invece, stava studiando attentamente il modo di comportarsi del vecchio Bertaud.

    — Un assassinio! — mormorò il cameriere. — Ah! Deve essere stato per la faccenda dei soldi, allora... qualcuno sarà venuto a sapere che…

    — Che cosa? — domandò il sindaco

    — Il signor conte ieri mattina ha ricevuto una grossa somma di denaro.

    — Già, è vero, molto grossa — aggiunse una domestica. — Era un pacco così, tutto di biglietti di banca. Perfino la signora ha detto al signor conte che non avrebbe chiuso occhio per tutta la notte con una simile quantità di denaro in casa!

    Seguì un silenzio. I presenti si scrutavano con aria spaventata. Il signor Courtois rifletteva.

    — A che ora siete partiti ieri sera? — domandò ai domestici.

    — Alle otto. Avevamo servito con un po’ di anticipo la cena.

    — Siete partiti tutti insieme?

    — Sì, signore.

    — Non vi siete mai lasciati?

    — Neanche per un minuto.

    — E siete anche tornati tutti insieme?

    I domestici si scambiarono una strana occhiata.

    — Sì, tutti — rispose la cameriera che sembrava più loquace delle altre. — Cioè no. C’è stato uno di noi che, arrivati alla Gare de Lyon, a Parigi, ci ha lasciato; si tratta di Guespin.

    — Ah!

    — Sì, signore, se l’è squagliata per conto suo dicendo che ci avrebbe raggiunto da Wepler, a Batignolles, dove si teneva la festa di nozze.

    Il sindaco allungò una robusta gomitata al giudice di pace, come per raccomandargli di stare attento, e continuò l’interrogatorio.

    — E questo Guespin, come lo chiamate... non l’avete più visto?

    — No, signore. Per tutta la serata, mi è capitato più di una volta di domandare sue notizie, ma inutilmente; la sua assenza mi pareva poco chiara.

    Era evidente che la cameriera tentava con ogni mezzo di farsi passare per una persona straordinariamente perspicace; a lasciarla fare, si sarebbe addirittura messa a parlare dei presentimenti di una disgrazia, che credeva di aver avuto!

    — Torniamo a questo domestico — continuò il signor Courtois. — Si trovava da molto tempo a servizio qui, in casa?

    — Dalla primavera.

    — Quali erano le sue incombenze?

    — Era stato mandato dalla ditta del Gentil Jardinier per curare i fiori rari della serra della signora.

    — E... era al corrente anche lui di quella somma di denaro?

    I domestici si scambiarono ancora altri sguardi mollo significativi.

    — Sì, sì — risposero in coro. — Ne avevamo parlato in merito anche fra di noi.

    — Figuratevi — aggiunse la cameriera linguacciuta — che ha perfino detto, parlando proprio con me: E pensare che il signor conte, nella sua scrivania, ha quello che basterebbe a fare la fortuna di tutti noi!

    — Che tipo di uomo sarebbe questo Guespin?

    Bastò questa domanda a far ammutolire del tutto i domestici. Nessuno osava parlare, rendendosi conto che sarebbe bastata anche la minima parola a fornire elementi sufficienti per una gravissima accusa nei confronti di un loro compagno.

    Ma il palafreniere della casa di fronte, che moriva dalla voglia di intromettersi, non ebbe tanti scrupoli.

    — È un bravo ragazzo, Guespin — rispose. — Un ragazzo che conosce il mondo. Perdio, se non lo conosce! E racconta anche certe storie! È molto istruito, quel brav’uomo, anzi sembra che, in passato, sia stato anche ricco e se avesse voluto... ma, perbacco, certo che non gli piace troppo lavorare! Ci sono pochi ai quali piace far la bella vita e spassarsela come a lui e, come se non bastasse, gioca a biliardo in un modo formidabile!

    Per quanto ascoltasse in modo apparentemente distratto queste dichiarazioni o meglio, a voler esser più giusti, questi pettegolezzi, il signor Plantat stava esaminando con somma attenzione il muro di cinta e la cancellata. A un certo momento si voltò bruscamente per interrompere il palafreniere e disse in un tono che scandalizzò, letteralmente, il signor Courtois: — Bene, adesso finiamola! Prima di procedere con questo interrogatorio, sarà meglio constatare l’esistenza del delitto, se poi di delitto si tratta, perché, a ben pensarci, non è ancora stato dimostrato. Chi di voi ha la chiave, apra il cancello.

    Il cameriere personale del conte, che ne era in possesso, si fece avanti per aprire ed entrarono tutti nel piccolo cortile. In quel momento arrivarono anche i gendarmi. Il sindaco diede ordine al brigadiere di seguirlo e fece disporre due uomini ai lati del cancello con l’incarico di non lasciar né entrare né uscire nessuno senza il suo permesso.

    Soltanto a questo punto il cameriere aprì la porta della villa.

    II.

    Se anche non si trattava di un delitto, certo doveva essere successo qualcosa di ben singolare in casa del conte di Trémorel. Perfino l’impassibile giudice di pace si vide costretto a convincersene appena messo piede nel vestibolo.

    La grande porta vetrata che dava sul giardino era completamente aperta e tre dei suoi vetri in frantumi. La passatoia di tela cerata che collegava tutte le porte era stata strappata e sui riquadri di marmo bianco del pavimento si notavano qua e là grosse gocce di sangue. Ai piedi della scala era visibile una chiazza più grande delle altre e sul primo gradino uno spruzzo di sangue lasciava agghiacciati solo a posarvi gli occhi.

    Il bravo signor Courtois, poco abituato a simili spettacoli e a missioni come quella che stava compiendo, si sentiva svenire. Fortunatamente, la coscienza della propria importanza e della dignità della carica che ricopriva gli consentì di sfoderare un’energia completamente estranea al suo carattere. Più gli pareva difficile l’inchiesta preliminare su quanto era accaduto, più ci teneva a condurla nel modo migliore.

    — Accompagnateci nel luogo dove avete scoperto il cadavere — disse ai due Bertaud.

    Ma il signor Plantat intervenne.

    — Secondo me sarebbe più saggio e più logico — obiettò — se cominciassimo a ispezionare la casa.

    — Certamente, si; infatti è proprio quello che pensavo anch’io — disse il sindaco aggrappandosi al consiglio del giudice di pace come chi sta per annegare si aggrappa a un pezzo di legno.

    Ordinò che tutti si togliessero di mezzo a eccezione del brigadiere e del cameriere che doveva fare da guida.

    — Ehi, voi gendarmi — gridò ancora, rivolto agli uomini messi a sentinella davanti al cancello — badate che nessuno esca da questa casa e impedite a chiunque di entrare e soprattutto che nessuno vada nel giardino!

    Soltanto allora salirono al piano superiore.

    Lungo tutta la scalinata c’erano chiazze di sangue. Ce n’erano anche sulla balaustra e il signor Courtois si accorse, inorridito, di essersi macchiato le mani.

    Arrivarono sul pianerottolo del primo piano.

    — Ditemi, figliolo — domandò al cameriere — i vostri padroni dormivano nella stessa camera da letto?

    — Sissignore — rispose costui.

    — E, allora, dove sarebbe questa camera?

    — È quella là, signore.

    Ma, nello stesso momento, il cameriere indietreggiò terrorizzato e gli indicò una porta, sul pannello superiore della quale appariva l’impronta di una mano insanguinata.

    Il disgraziato sindaco si accorse di avere la fronte imperlata di gocce di sudore, anche lui si era lasciato cogliere dal panico e si reggeva a stento sulle gambe! Ahimè quanti e tenibili doveri impone il potere! Il brigadiere, un vecchio soldato che aveva combattuto in Crimea, visibilmente sconvolto, esitava.

    Solamente il signor Plantat, imperturbabile come se si fosse trovato nel suo giardino, aveva conservato il sangue freddo e scrutava gli altri con aria sorniona. — In ogni caso, bisogna decidersi! — dichiarò.

    Entrò e gli altri lo seguirono.

    La stanza nella quale si trovarono non rivelava nulla di insolito. Si trattava di un salottino tappezzato di raso azzurro, il cui arredamento era formato da un divano e da quattro poltrone imbottite di una stoffa di colore analogo. Una delle poltrone era rovesciata. Tutti passarono in camera da letto.

    Qui il disordine era indescrivibile. Non c’era un solo mobile né un solo oggetto che non dimostrasse come una lotta terribile, violenta e spietata fosse stata ingaggiata tra gli assassini e le vittime.

    Al centro della stanza, un tavolino laccato era rovesciato e, tutto intorno, si scorgevano zollette di zucchero, cucchiai di argento dorato, frammenti di porcellana. — Ah! — disse il cameriere. — Il conte e la contessa stavano prendendo il tè quando sono entrati quei miserabili!

    Anche tutti i soprammobili che si trovavano sulla mensola del camino erano stati scaraventati sul pavimento: la pendola, cadendo, si era fermata sulle tre e venti minuti. Vicino alla pendola, c’erano le lampade con i globi in mille pezzi. E l’olio era colato dappertutto.

    Il baldacchino era stato lacerato ed era crollato sul letto ai cui drappeggi qualcuno doveva essersi disperatamente aggrappato. Tutti i mobili erano rovesciati e la stoffa delle poltrone era stata lacerata a colpi di coltello con tale violenza che ne usciva qualche ciuffo di piume. Lo scrittoio era stato forzato; la ribalta semi-staccata pendeva dai cardini, i cassetti erano aperti e svuotati. Lo specchio dell’armadio era in pezzi e completamente sfasciata una civettuola cassettiera di Houle; il tavolino da lavoro ridotto in pezzi e la toilette sventrata.

    Dappertutto si vedeva del sangue, sul tappeto, sulla tappezzeria, sui mobili, sulle tende, soprattutto sulle cortine del letto.

    Evidentemente il conte e la contessa di Trémorel si erano difesi a lungo, coraggiosamente.

    — Sventurati! — balbettava il povero sindaco. — Oh, sventurati! Dev’essere qui che è avvenuto il massacro.

    E, al ricordo dell’amicizia per il conte, dimenticando l’importanza della propria posizione e abbandonando la maschera di impassibilità che si era imposta, scoppiò in lacrime.

    Pareva che tutti avessero perso la testa. Intanto il giudice di pace si dedicava a una perquisizione minuziosa, prendendo appunti su un taccuino e frugando anche negli angoli più nascosti.

    Quando ebbe terminato, disse: — E adesso, vediamo un po’ le altre stanze.

    Anche quelle erano state devastate allo stesso modo Si sarebbe detto che una banda di pazzi furiosi, o di delinquenti colti da una frenesia inconcepibile avessero trascorso la notte nella casa.

    Lo studio del conte era stato messo sottosopra peggio di tutto il resto. Gli assassini non si erano nemmeno presi la briga di forzare le serrature ma avevano lavorato a colpi di scure. Evidentemente erano sicuri di non poter essere sentiti perché dovevano essersi accaniti con colpi violentissimi sulla scrivania di quercia massiccia per sfasciarla come l’avevano sfasciata. I libri della biblioteca erano stati scaraventati alla rinfusa sul pavimento.

    Né il salotto né la sala da fumo erano stati rispettati. Divani, poltrone, canapè erano in tali condizioni da lasciar pensare che qualcuno vi si fosse accanito con la lama di una spada. Anche le due camere da letto riservate agli ospiti portavano tracce della devastazione.

    Salirono al secondo piano.

    Qui, nella prima stanza in cui entrarono, trovarono, davanti a una cassapanca già attaccata ma non ancora aperta, una scure che il cameriere riconobbe come quella che veniva usata in casa per spaccare la legna.

    — Dunque lo vedete anche voi — diceva intanto il sindaco al signor Plantat. — È evidente che gli assassini dovevano essere numerosi. Compiuto il delitto, si sono sparpagliati per la casa cercando dappertutto quel denaro che sapevano di poterci trovare. Uno di loro era qui, e stava tentando di sfondare il coperchio di questo mobile quando gli altri, ai piani inferiori, avevano messo le mani sulle banconote; lo hanno chiamato, si è affrettato a scendere e, convinto che ogni ricerca ormai fosse inutile, ha abbandonato la scure.

    — Sono d’accordo. È come se avessi anch’io la scena davanti agli occhi — approvò il brigadiere.

    Il pianterreno, che ispezionarono subito dopo, era stato rispettato. Tuttavia, commesso il delitto e trafugati gli oggetti di valore, gli assassini avevano sentito il bisogno di rifocillarsi. Infatti, in sala da pranzo, si trovarono i resti del pasto. Avevano divorato tutti gli avanzi trovati nella credenza e sul tavolo, di fianco a otto bottiglie vuote, di liquore e di vino, erano allineati cinque bicchieri.

    — Dunque erano in cinque — mormorò il sindaco.

    Con un enorme sforzo di volontà, quel brav’uomo del signor Courtois aveva riacquistato il solito sangue freddo.

    — Prima di metterci alla ricerca dei cadaveri — disse — vado a far avvertire il procuratore imperiale di Corbeil. Fra un’ora avremo qui un giudice istruttore che porterà a termine questo nostro compito ingrato.

    Fu quindi dato ordine a un gendarme di attaccare il cavallo al tilbury del conte e di partire in fretta e furia.

    Poi il sindaco e il giudice, seguiti dal brigadiere, dal cameriere e dai Bertaud si incamminarono verso il fiume.

    Il parco di Valfeuillu era molto grande, ma più in larghezza che in lunghezza. Infatti dalla villa alla Senna la distanza era poco più di duecento passi. Davanti alla casa si estendeva un bel prato verdeggiante interrotto qua e là da qualche aiuola fiorita. Per raggiungere il fiume si poteva prendere uno dei due viali che lo costeggiavano.

    I malviventi, però, non avevano imboccato questi viali ma, per fare più in fretta, avevano attraversato il prato. E le loro tracce erano perfettamente visibili. L’erba era schiacciata e pestata come se vi avessero trascinato sopra un pesante fardello. In mezzo a tutto quel verde si scorgeva qualcosa di rosso che il giudice di pace si fermò a raccogliere. Si trattava di una pantofola e il cameriere la riconobbe subito: apparteneva al conte. Più oltre trovarono anche una sciarpa bianca che il domestico dichiarò di aver visto spesso al collo del padrone. E questa sciarpa era macchiata di sangue.

    Finalmente arrivarono sulla riva del fiume, sotto quei salici, da uno dei quali Philippe stava per tagliare un ramo, e fu qui che rinvennero il cadavere.

    La sabbia, in quel punto, era segnata da tracce profonde, quasi tormentata, si sarebbe potuto dire, dall’andirivieni di molti piedi che cercavano un solido punto di appoggio. Era in quel punto, come tutto lasciava credere, che aveva avuto luogo una lotta disperata.

    Il signor Courtois intuì immediatamente l’importanza di tutte quelle impronte.

    — Che nessuno venga avanti — esclamò.

    Quindi, seguito soltanto dal giudice di pace, si avvicinò al cadavere.

    Per quanto non potessero vederne la faccia, sia l’uno sia l’altro riconobbero immediatamente la contessa. L’avevano vista tutti e due portare quell’abito grigio, guarnito da bordi di passamaneria azzurra. Come mai era finita laggiù?

    Il sindaco azzardò la supposizione che, tentando di sottrarsi alle mani degli assassini, si fosse messa a fuggire disperatamente. Ma quelli l’avevano inseguita e proprio lì avevano continuato a colpirla finché era caduta senza più avere la forza di rialzarsi.

    Questa versione dei fatti spiegava le tracce della lotta che doveva esserci stata. Dunque bisognava concludere che fosse il cadavere del conte quello che gli assassini avevano trascinato sull’erba.

    Il signor Courtois si mise a parlare animatamente, cercando di convincere delle proprie idee il giudice di pace. Ma il signor Plantat pareva che lo ascoltasse distrattamente tanto che lo si sarebbe potuto credere a mille miglia da Valfeuillu. Infatti non rispondeva che a monosillabi: sì, no, forse.

    Il sindaco, invece, si dava sempre più da fare: andava, veniva, prendeva qualche misura, ispezionava minuziosamente il terreno.

    In quel punto l’acqua era profonda sì e no trenta centimetri. Si trattava di un banco di fanghiglia sul quale crescevano alcuni ciuffi di gigli d’acqua e qualche ninfea. Scendeva dolcemente dalla riva verso il centro del fiume. L’acqua era limpida, pochissima la corrente; il fondo di melma, liscia e lucente.

    Il signor Courtois era assorto nelle indagini quando sembrò colpito improvvisamente da un’idea.

    — Ehi, Bisboccia — gridò — venite qui. — Il vecchio bracconiere ubbidì.

    — Voi, dunque, dite — gli domandò il sindaco — di aver intravisto il cadavere dalla barca?

    — Sì, signor sindaco.

    — E adesso dove si trova la vostra barca?

    — Lì in fondo, ormeggiata lungo il campo.

    — Bene, accompagnateci.

    Tutti i presenti notarono subito che questo ordine impressionò enormemente il vecchio. Infatti trasalì e, per quanto abbronzata e segnata dalle intemperie, la sua faccia diventò paurosamente pallida. Non solo, ma tutti lo sorpresero mentre lanciava al figlio uno sguardo quasi di minaccia.

    — Andiamo pure — rispose infine.

    Stavano per ritornare tutti verso il castello quando il cameriere propose di attraversare il fossato.

    — Si farebbe molto più in fretta — disse. — Corro a cercare una scala e la metteremo di traverso.

    Scappò via e tornò quasi subito con quella specie di passerella improvvisata. Ma stava per sistemarla sul fossato quando il sindaco gli gridò: — Tu, fermati!

    Infatti gli erano subito saltate all’occhio le impronte lasciate dai Bertaud sulle due sponde del fosso.

    — E queste?... Cosa sono! — esclamò. — Evidentemente qualcuno è passato di qui, non molto tempo fa, perché le impronte sono ancora fresche.

    E, dopo averle esaminate per qualche minuto, diede ordine che la scala fosse sistemata un po’ più lontano.

    Giunti vicino alla barca, il sindaco domandò a Jean Bisboccia: — Dunque sarebbe questa l’imbarcazione con la quale siete andati a pescare stamattina?

    — Sì, signore.

    — Ma, allora — riprese il signor Courtois — mi sapete dire quali arnesi avete usato? Il vostro giacchio è perfettamente asciutto; quanto alla gottazza e ai remi, non sono stati a bagno da almeno ventiquattr’ore.

    L’imbarazzo del padre e del figlio si faceva sempre più evidente.

    — Insistete proprio a confermare quel che avete detto, Bernaud? — domandò ancora il sindaco.

    — Certo.

    — E voi, Philippe?

    — Signore — balbettò il giovanotto — abbiamo detto la verità.

    — Davvero? — riprese il signor Courtois ironico. — Vuol dire che spiegherete a chi di dovere come avete potuto pescare qualcosa da una barca sulla quale non siete nemmeno saliti! Ah, perbacco! Non si pensa mai a tutto. Infatti vi potranno dimostrare che il cadavere è messo in modo tale che è impossibile, mi capite bene?, assolutamente impossibile adocchiarlo dal centro del fiume. Non solo, ma dovrete anche spiegare di chi sono le impronte che ho rilevato, poco fa, sull’erba e che – dalla vostra barca – conducono al punto dove il fossato è stato attraversato più volte, e da parecchie persone.

    I due Bertaud abbassarono la testa.

    — Brigadiere — diede ordine il sindaco — arrestate questi uomini in nome della legge e fate in modo che non possano comunicare fra loro.

    Philippe pareva sul punto di svenire. Quanto al vecchio Bisboccia, si accontentò di alzare le spalle, dicendo al figlio: — Te la sei voluta, eh?

    Poi, mentre il brigadiere conduceva via i due cacciatori di frodo con l’intenzione di chiuderli in guardina, l’uno separato dall’altro, sotto la custodia dei suoi uomini, il giudice di pace e il sindaco rientrarono nel parco.

    — Intanto, con tutto questo, non si è trovata traccia del conte! — mormorò il signor Courtois.

    Adesso era necessario recuperare il cadavere della contessa.

    Il sindaco mandò a cercare due tavole di legno che vennero posate sul terreno con infinite precauzioni e così fu possibile agire liberamente senza cancellare le impronte che potevano essere preziose per il giudice istruttore.

    Ahimè! Com’era ridotta la bellissima e affascinante contessa di Trémorel! Com’erano ridotti quel volto fresco e ridente, quegli occhi così espressivi, la bocca delicata, dalla piega arguta.

    Pareva quasi irriconoscibile. La faccia tumefatta, sporca di melma e di sangue, era una ferita sola, perfino un lembo di pelle della fronte le era stato strappato insieme a una ciocca di capelli. Quanto ai vestiti, erano in brandelli. Indubbiamente i criminali che avevano ucciso la povera donna dovevano essere stati in preda a una vera e propria furia omicida! Era stata colpita con più di venti coltellate e — come se non bastasse — anche aggredita con un bastone o, addirittura, con un martello, l’avevano trascinata per i piedi, tirata per i capelli!

    Nella mano sinistra stringeva ancora un pezzo di panno rustico, di color grigiastro, strappato probabilmente dal vestito di uno dei suoi assassini.

    Man mano che procedeva in queste lugubri constatazioni e prendeva qualche appunto per il verbale, il povero sindaco si sentiva le gambe che gli cedevano tanto che fu costretto ad appoggiarsi al braccio dell’impassibile papà Plantat.

    — Portiamo la contessa al castello — diede ordine il giudice di pace — Torneremo in seguito a cercare il cadavere del conte.

    Però il cameriere, insieme al brigadiere che li aveva già raggiunti, dovette chiamare in aiuto, per il trasporto, i domestici rimasti nel cortile. Intanto le donne si precipitavano anche loro in giardino. E, allora, si levò un terribile concerto di pianti, grida, menti e imprecazioni.

    — Che miserabili! Una donna così brava! Una padrona così buona!

    I signori Trémorel, lo si capì subito in quell’occasione, erano adorati dalla loro servitù.

    Avevano appena deposto il corpo della contessa a pianterreno, sul tavolo da biliardo, allorché vennero ad annunciare al sindaco l’arrivo del giudice istruttore accompagnato dal medico.

    — Finalmente! — mormorò quel brav’uomo del signor Courtois. E, a voce più bassa, aggiunse: — Ogni medaglia, anche la più bella ha il suo rovescio.

    Per la prima volta in vita sua, provava una gran voglia di maledire le proprie ambizioni e rimpiangeva la posizione che ricopriva, quella della persona più importante di Orcival.

    III.

    Il giudice istruttore del tribunale di Corbeil, a quell’epoca, era monsieur Antoine Domini, un magistrato di grande valore che, in seguito, sarebbe stato chiamato a ricoprire cariche più eminenti.

    Sulla quarantina, bello di viso, aveva una fisionomia singolarmente espressiva ma seria... troppo seria. Pareva l’incarnazione solenne e inflessibile della magistratura. Profondamente preso dall’importanza delle proprie funzioni, vi aveva sacrificato l’intera esistenza, rifiutandosi anche le distrazioni più semplici, i piaceri più legittimi.

    Viveva solo, lo si vedeva di rado, non riceveva che pochi amici, insomma non voleva – questo era ciò che ripeteva – che le manchevolezze umane potessero mettere in pericolo la sacralità del personaggio del giudice e sminuire il rispetto che gli era dovuto. Quest’ultimo motivo gli aveva impedito di sposarsi anche se era convinto di essere fatto per la vita di famiglia.

    Invece rappresentava il magistrato per antonomasia, sempre e ovunque, cioè il rappresentante, convinto fino al fanatismo, di ciò che vi è di più augusto al mondo: la giustizia.

    Per quanto avesse un carattere allegro e spensierato, si imponeva come un dovere di non ridere mai. Era anche spiritoso ma se gli sfuggivano una buona battuta o una frase arguta, si affannava subito a farne penitenza.

    In conclusione, si dedicava anima e corpo alla carica che ricopriva, nessuno avrebbe potuto impegnarsi con maggiore coscienza a fare quello che giudicava il proprio dovere. Quindi era più inflessibile di chiunque altro. Mettere in discussione un articolo del codice rappresentava, ai suoi occhi, qualcosa di semplicemente mostruoso. La legge parlava chiaro – e questo doveva essergli sufficiente: chiudeva gli occhi, si tappava le orecchie e obbediva.

    Dal giorno in cui dava l’avvio a un’indagine, non dormiva più e non aveva più

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