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Il testamento di Don Rodrigo
Il testamento di Don Rodrigo
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E-book368 pagine4 ore

Il testamento di Don Rodrigo

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Info su questo ebook

Aνθροπος μικρòς κòσμος: L’uomo è un piccolo mondo, affermava Democrito di Abdera. E Rodrigo de Triana, personaggio realmente esistito ma sconosciuto ai più, in una serena alba di più di cinquecento anni fa, per primo scorse il mondo “Nuovo”. Quello che cambiò per sempre la storia di tutti gli uomini. Un romanzo storico intenso, scritto con una prosa gradevole e curata, ambientato in Spagna e nell’area caraibica, tra il 1470 ed il 1535. La narrazione si dipana, sulla base di rigorose fonti storiografiche, attraverso la febbre esplorativa del tempo, il fascino della vita dei conventi medioevali (macchiata dalla profanità di laidi delitti), la crudeltà
della Santa Inquisizione, la difficile convivenza tra cristiani e musulmani (oggi così attuale) e la misteriosità delle pratiche alchimistiche. Il lettore avrà anche l’occasione di addentrarsi nei dettagli della vita quotidiana di un’epoca di grande fermento, quella di passaggio dal Medioevo al Rinascimento. Il tutto, attorno ad una trama sorprendente, densissima di flashbacks e colpi di scena. Sino all’ultima pagina.

LinguaItaliano
Data di uscita15 mar 2014
ISBN9781310858017
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    Il testamento di Don Rodrigo - Stefano Testa

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    L’uomo non è che un’ombra che passa, tutto il suo agitarsi non è che vanità accumula e non sa chi raccoglierà. (Salmi 39,7)

    DIECIMILA MARAVEDÌS

    «Avrò quei soldi! Avrò quei diecimila maravedìs, Pedro» – disse Rodrigo.

    «Non ci sperare amico mio, non li avrà nessuno; perché nessuno troverà niente, laggiù» – rispose Pedro Tegero, in dicando distrattamente con il capo un punto indistinto dell’orizzonte.

    «Chissà piuttosto se riusciremo mai a tornare indietro, a casa».

    Poi porse a Rodrigo un piatto pieno di mazzamora, ed un bicchiere di coccio con dell’acqua.

    Pedro – come del resto gran parte degli altri componenti dell’equipaggio – si era imbarcato in quell’impresa soprattutto per provare a riportare a casa almeno una delle leggendarie tegole d’oro dei tetti di Cipango. La smania esplorativa che agitava il suo tempo, infatti, poco lo toccava. Ciò che gli interessava era riuscire a mettere le mani su almeno uno di quegli embrici, in modo da potersi finalmente godere per il resto della vita un lungo ed agiato riposo.

    Quando Pedro era stato assoldato, il capitano Martin Alonso Pinzòn indossava un farsetto corto, rosso e blu. Sul molo grande, quella sera, li guardava tutti negli occhi, i marinai di Palos. Aveva preteso il silenzio e poi, con voce solenne, aveva detto con entusiasmo ad una piccola folla curiosa: «Amici e compagni di tante spedizioni, unitevi a noi! Non ve ne pentirete. Il viaggio che vi propongo di fare verrà compiuto con la benedizione di Dio e l’avallo del re. E non è un azzardo. Vi aspettano case con tetti d’oro, gemme, spezie, belle donne e chissà quant’altro!».

    Pedro aveva ascoltato interessato e attento, lisciandosi i baffi e grattandosi il mento.

    E aveva deciso di rischiare.

    Avrebbe potuto salpare ancora una volta verso sud con la nave di Pablo Casal, prossima alla partenza, destinazione Guinea. O al soldo di Garcia Cantalapiedra, che stava facendo affari d’oro trasportando in Africa o in Portogallo molti ebrei, in precipitosa fuga a causa del crudele editto che aveva da poco originato una nuova diaspora.

    Tanto valeva allora credere alla folle intuizione di Cristobal Colòn ed affrontare, sotto la guida dei famosi fratelli Pinzòn, l’ignoto del Mare Oceano. E come lui, per necessità o gusto della sfida, aveva pensato buona parte degli altri marinai imbarcati; chi pur di provare ad uscir fuori da una miseria nera, chi dalla inutilità di una piatta vita, chi dalla meritata galera.

    Anche Rodrigo c’era sul molo grande, quella sera.

    Anche Rodrigo aveva annuito alle parole di Pinzòn e, come Pedro, si era eccitato non poco all’idea di vedere la mitica Cipango ed i suoi tetti d’oro.

    Ed anche Rodrigo aveva accettato di partire, pur se con il pensiero di dover lasciare sola la giovane moglie Maria per chissà quanto tempo.

    Il rumore del mare era appena percepibile, la brezza serale quasi assente. Calma piatta tutt’intorno, stessa direzione da giorni, stesso monotono paesaggio.

    Le fioche luci delle altre due navi, poco più dietro, faceva no intravedere ancora le rispettive prue. Ben presto però la notte avrebbe avvolto tutto, serena e calma ma implacabile.

    Il silenzio lasciò giungere alle orecchie di Rodrigo una risata sguaiata; proveniva dalla «Mariagalante» – così la chiamava ironico Pinzòn – che inseguiva le altre due, affannata e goffa.

    Buon segno.

    L’equipaggio era tornato tranquillo, dopo l’agitazione creata dalla misteriosa deviazione delle bussole verso nord ovest di una quarta abbondante. Pinzòn aveva convenuto con il comandante che quel fenomeno era semplicemente dovuto all’improvviso ed imprevisto spostamento della stella polare nel cielo. Tale singolare interpretazione, in verità, non era apparsa ai più per niente convincente. Molti credevano infatti che in errore fossero gli aghi della bussola, piuttosto che la stella polare, diretta e mirabile rappresentazione del Signore Iddio.

    Ed in proposito c’era anche chi aveva detto la sua, oltre a pensarlo. Tra questi Juan Arias, che aveva urlato a Pinzòn tutto il suo scetticismo, chiedendogli di invertire subito la rotta prima che fosse troppo tardi.

    Pinzòn, con la camicia bianca di lino appena gonfiata da una bava di vento, lo aveva ascoltato sorridendo con aria vagamente paterna. Ed aveva risposto che tutto stava proseguendo secondo i piani prestabiliti da Colòn.

    Non era vero. Ed anche lui lo sapeva.

    Per tale motivo era sempre più preoccupato.

    Nemmeno il comandante Martin Alonso Pinzòn, abilissimo marinaio, era contento di come stessero andando le cose.

    «Niente altro che mare, mare, mare, mare, e per giunta senza troppo vento; né per andare avanti, né per tornare in dietro» – pensava spesso guardando avanti a sé, dritto sul casseretto.

    In cuor suo incominciava a temere che se i venti non avessero ripreso subito a sbuffare dentro quelle bene dette vele quadre, la traversata sarebbe stata ancora lunga, impedendo loro di riuscire a tornare indietro fino alla barra di Sàltes, fino a casa.

    Nel silenzio del tramonto ed in coincidenza con l’inizio del primo quarto notturno, il mozzo di guardia disse ad alta voce:

    «La guardia è presa, il tempo nell’ampolla passa, ma avremo un buon viaggio, se il Signore Iddio lo vuole».

    Poi qualcun’altro incominciò a recitare lamentoso il Salve Regina.

    Le voci dei marinai ben presto si affievolirono, confondendosi con lo scricchiolio dei paranchi ed il ritmico stridere delle sartie.

    Salì un filo di brezza. E calò la notte.

    «Avrò quei soldi, avrò quei diecimila maravédis!» – pensò Rodrigo prima di addormentarsi.

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    CAPITOLO 2

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    È il carattere che segna il destino di ciascuno.

    (Cornelio Nepote – De viris illustribus).

    RODRIGO

    L’infanzia di Rodrigo era trascorsa tutto sommato serena. Per quanto serena possa essere definita la vita di un bambino diventato troppo presto orfano del padre Sebastian, stroncato in pochi giorni da una improvvisa febbre quartana. Avvenne poco dopo Natale, di un anno di grazia che tanto di grazia, ovviamente, non fu.

    Del padre serbava un vago ricordo. Gli era sempre sembrato alto e robusto, con gli occhi neri, il naso grande e la voce roca.

    Ed in realtà così era stato.

    Privo di tale importante punto di riferimento, Rodrigo era cresciuto sotto le premurose cure di mamma Ines, donna severa e di pochissime parole la quale, dopo la fatalità, per vivere aveva iniziato a lavorare come perpetua di padre Alvaro Lopez.

    Alla morte dell’amico Sebastian, Pablo Ortega, il cavapietre, si era infatti preso a cuore la sorte di quella povera vedova; ed avendo saputo da un parente che nelle campagne attorno a Moguer vi era un parroco che abbisognava dell’aiuto di una donna pia, aveva convinto Ines ad accettare l’incarico. Già dalla primavera successiva al trapasso del marito, con le poche bagattelle che possedeva e i due figli, Ines si era dunque recata laddove era stata richiesta, iniziando a dar man forte alla casta fede di quel gentile prelato quale era padre Alvaro Lopez.

    Uomo semplice e colto.

    Lo si vedeva spesso trotterellare, con la sua esile figura, lungo stradine assolate o fangose; bussare agli usci delle casupole alla ricerca di elemosine e di anime perse; e lo si sentiva concludere i suoi sermoni, dal pulpito, con una bella frase del libro della Sapienza: «Quanti confidano nel Signore comprenderanno la verità; coloro che gli sono fedeli vivranno presso di lui nell’amore, perché grazia e misericordia sono riservate ai suoi eletti».

    Padre Alvaro sapeva essere padre senza esser marito. Severo il giusto, tenero alla bisogna, premuroso sempre, assente mai.

    E a Ines questo bastava.

    Aveva accolto quella famiglia sbandata con affetto, imparando ad apprezzare ben presto la silenziosa devozione della donna e la chiassosa vivacità di Rodrigo e di suo fratello Miguel.

    Fino a quando le forze glielo consentirono, Alvaro insegnò ai due ragazzi molte cose. A leggere i testi sacri, a scrivere, a far di conto, oltre ai rudimenti della filosofia e della storia.

    Ma anche ad adoperar le mani. Per costruire un piccolo mobile, per coltivare l’essenziale nell’orto, per battere il ferro, per tosare le pecore. Tutte cose che – diceva giustamente – «era bene saper fare». Furono gli anni di un’adolescenza tutto sommato normale, che trascorse lenta come un pomeriggio estivo. Ma la sonnacchiosa vita che ruotava attorno alla piccola parrocchia di padre Alvaro, sotto sotto trasudava energia. Ben presto i due bambini crebbero, divennero ragazzi; e tenerli legati alla monotonia dell’aia e dell’orticello fu sempre più difficile. Rodrigo e Miguel sempre meno sopportavano lo schiamazzo dei polli che razzolavano stolti nell’aia assolata. I loro ciuffi si opponevano con sempre maggior vigore alla brezza serale, inconfondibile richiamo del mare, da lì non troppo lontano.

    Con il maturar dell’età, l’idea di andare in cerca di fortuna verso Huelva ed il suo porto vivace incominciò a tentarli. Li tratteneva però il pensiero di dover lasciare da sola mamma Ines.

    Ma – ahimé – non fu per molto.

    Un malessere improvviso divenne ben presto vera e propria malattia, che la condusse alla morte in breve tempo. Non bastarono i salassi e i cataplasmi ordinati da Carlo de Alarcòn, stimato medico di Niebla, né le incessanti preghiere di padre Alvaro e le amorevoli veglie di Rodrigo e di Miguel.

    La tenera Ines esalò l’ultimo respiro nella notte del solstizio d’estate di un anno di grazia che tanto di grazia, ovviamente, non fu.

    Rodrigo e Miguel presero la strada del mare. Dapprima assieme, poi su navi e verso porti diversi. Ciascuno, insomma, incontro al suo destino.

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    CAPITOLO 3

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    Fallace è la grazia e vana la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare.

    (La donna ideale – Libro dei Proverbi

    – Antico Testamento – 31, 10-13. 19-20. 30-31).

    MARIA

    «Sono certa che Rodrigo tornerà».

    Maria sospirò pensosa e poi, passandosi delicatamente una mano sul vestito a fiori, sembrò accarezzarsi l’anima.

    «So che tornerà presto. E magari anche ricco. L’imperatore li avrà già ricevuti, e riempiti d’oro, di spezie e di gemme».

    «Non farti del male, figlia mia» – disse mamma Esmeralda girandosi di scatto – «che te ne fai di un marito che è sempre lontano da casa? Tuo padre ti avrebbe voluta in sposa a un uomo diverso, non a un buono a nulla!».

    «Non dire questo, mamma, lui non se lo merita… mi ha sempre trattato bene e poi, se non fosse stato per me, non avrebbe mai perso il lavoro al convento… ma non mi ci far pensare ancora, ogni volta che il mio ricordo va a quel maledetto giorno ed a quella drammatica notte, mi viene da piangere».

    Esmeralda, visibilmente scossa, con un gesto istintivo prese uno straccio ed incominciò a togliere la polvere dal tavolo di legno scuro sul quale troneggiava una fruttiera tristemente vuota. Maria si avvicinò alla finestra della cucina e guardò fuori. Nella stradina dove affacciava la casa non c’era nessuno. Un gatto grigio entrò furtivo nella stanza e si andò ad infilare sotto il tavolo. Si avvicinò ad una ciotola piena d’acqua che era a terra in un angolo e bevve. Fuori una pioggerellina sottile stava chiudendo settembre ed anticipava, almeno nei suoi bigi propositi, il prossimo autunno. I rintocchi di una campana lontana scossero appena l’aria e stemperarono la tensione che avvolgeva la stanza come una coperta.

    Le due donne si guardarono negli occhi.

    Maria si fece incontro alla madre e l’abbracciò teneramente.

    Rimasero così per un po’.

    Poi Esmeralda disse: «Perché non vai a chiedere notizie? Forse al porto sanno qualcosa».

    «È una buona idea» – rispose Maria.

    Un raggio di sole fendette la stanza, rimbalzò sul tavolaccio tarlato e diffuse una luce rasserenante.

    Maria prese lo scialle di cotone azzurro, se lo avvolse sul capo ed uscì dalla porta guardando rapida il cielo da un lato all’altro. Aveva smesso di piovere, ma preferì comunque procedere rasente il muro della casa di Conchita, prima di sbucare nel vialone che conduceva sino al lungomare e di lì, poi, dopo un breve tratto, fino al porto.

    Mentre camminava a capo leggermente chino, stretta stretta nella sua schienuccia un po’ incurvata, incontrò Miguel Mendez, l’arrotino, che tornava a casa soddisfatto con in mano una lepre ancora sanguinante, appena comprata. Probabilmente, con quel po’ di cacciagione, si apprestava a festeggiare la ricorrenza di San Michele. Lo salutò con un cenno del capo al quale lui rispose cordialmente. Nella strada sterrata e malconcia che percorreva a passo svelto, si mescolavano odori di diversa origine. Da una finestra arrivava il profumo di pesce arrostito; tutt’intorno si spandeva quello tipico dell’aria estiva dopo uno scroscio d’acqua, mischiato con quello del vicino porto; da una canalina, ai bordi di una casa, proveniva un forte puzzo di letame e di orina.

    Maria giunse all’altezza della piazza del mercato. Banchi di merce varia occupavano parte della strada. Due donne anziane stavano acquistando delle grosse verze per la cena, ma la trattativa sembrava ancora in alto mare. Il fruttivendolo, un omone grasso, esaltava le qualità della propria merce, poggiata su una bilancia chissà quanto sincera. Una delle donne masticava a bocca aperta un pezzo di pane. Una mano la teneva poggiata sul fianco, impaziente ed annoiata.

    Prima di arrivare al porto, in un vicoletto silenzioso in fondo alla strada, vi era una chiesetta piuttosto antica. Lì, soprattutto nelle ore vespertine, non era difficile trovare vedove inconsolate, madri canute, mogli o fidanzate ansiose.

    Maria entrò in punta di piedi; il cigolio della porta di ingresso coprì per un attimo la ripetitiva preghiera dei fedeli. Una vecchia, che sulla testa indossava un velo bianco, stava recitando il rosario ondeggiando appena, con il capo inclinato. Un’altra, esibendo una voce sgraziata, dettava i tempi dell’Ave Maria.

    Il piccolo edificio sacro – che dava su una piazzetta circondata da casupole addossate e vicoletti bui – era sostanzialmente spoglio, e poteva ospitare al suo interno non più di una trentina di persone. Poche le panche, pochi gli addobbi sacri; alle pareti un affresco raffigurante la Madonna che salvava un’imbarcazione dal naufragio. E attorno alcuni doni votivi: un brandello di rete da pesca, una piccola ancora, la pala di un remo. Il confessionale, posto subito alla sinistra dell’entrata, era costituito da un semplice inginocchiatoio.

    Padre Miguel era seduto sulla prima panca, alla destra dell’altare. A mani giunte, pregava ad occhi chiusi e bocca semiaperta, assorto. Maria si segnò ed incominciò a pregare sommessamente. Chiese – come ogni giorno – la divina intercessione, affinché Rodrigo tornasse a casa, sano, salvo e in breve tempo. Sostò pochi minuti. Poi uscì di nuovo nel vicoletto, nell’indifferenza generale.

    Quando fu di nuovo sulla strada riprese a passo svelto a camminare verso il porto. Due ampie braccia protese in mare per difendere il paese dalle tempeste. Giunta all’imboccatura, Maria si diresse verso la capitaneria. Lì avrebbe avuto notizie dell’eventuale approdo di nuove navi, perché in quegli uffici i mercanti provvedevano a versare i balzelli reali, gravoso tributo dei traffici di ogni tipo che in quelle acque nascevano, transitavano o morivano. Era il pedaggio che la corona chiedeva a tutti per poter soddisfare i propri lussi, finanziare guerre e cullare costose mire espansionistiche.

    Ogni volta che Maria si recava presso la capitaneria per chiedere notizie, si rivolgeva a Francisco Mirabal, vecchio amico di suo padre.

    Qualsiasi nave arrivasse o stesse per arrivare in porto, Francisco lo sapeva.

    Era un uomo molto alto, di lineamenti forse un po’ grossolani. Tutto era enorme in lui. La pancia, il collo sudato, le mani, i piedi, e i baffi, lunghi e curatissimi, attorno ad un sorriso sincero.

    «Niente di nuovo, Maria bella, niente di nuovo» – disse Francisco – «non si hanno notizie».

    «Signor Mirabal più passano i giorni e più l’attesa mi agita l’animo».

    «Non disperare bella mia… vedrai che prima o poi, Rodrigo tornerà a riabbracciarti. Porta i miei saluti a tua madre ed a tua sorella Anna».

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    CAPITOLO 4

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    Così era scritto.

    (Ovidio, Fasti, I, 481).

    PINZÒN

    Il capitano Martin Alonso Pinzòn era un uomo molto ricco ed influente. Era di media statura, ma dal fisico atletico e le spalle larghe. Capelli corvini, naso adunco, occhi furbi e vivaci. La naturale bramosia di conoscenza e la non comune passione per le cose nuove, lo avevano spinto ad andar per mare sin da bambino. E così il giovane marinaio, dopo aver combattuto contro i venti, i marosi, le tempeste e soprattutto i portoghesi, era ben presto diventato un abile ed audace navigatore. Abilità che, a dire il vero, non mancava nemmeno ai suoi fratelli: Vicente Yanez e Francisco Martin.

    Con perspicacia non di certo inferiore al suo coraggio, Martin Alonso Pinzòn aveva saputo unire la propria capacità marinaresca ad una non comune lungimiranza mercantile. Aveva intuito il modo migliore per mettere a frutto le proprie doti. Ed infatti, oltre ad essere il padrone di una piccola flotta, vantava importanti e proficui contatti in tutto il Mediterraneo e l’Africa nord occidentale. In più, come ogni uomo d’affari che si rispetti, sapeva guardare lontano; ed aveva capito meglio di altri che la febbre delle nuove scoperte poteva rappresentare la nuova vera frontiera economica e militare del suo tempo.

    Era tuttavia la cosmografia la sua vera passione. Ed infatti custodiva gelosamente diverse carte geografiche.

    Alcune molto antiche.

    Queste raffiguravano prevalentemente la costa spagnola del sud tra Almeria e Huelva, la vicina Africa, il regno portoghese sino alle fredde acque di Vigo, la Francia meridionale e la bella e frastagliata Italia.

    «Guarda…è meravigliosa» – diceva alla moglie Catalina mentre prendevano il fresco nel rigoglioso giardino della loro dimora – «è una riproduzione dettagliata della costa di Malaga… questa invece è Gibilterra… e qui c’è Tossa de Mar, con il suo castello, poi ancora Lloret, con il suo mare incantevole. Ti ci devo portare qualche volta… e… questa, questa… guarda… questa è magnifica, riproduce fedelmente le anse del Guadalquivir dalla sorgente sino alla foce ….».

    Catalina lo guardava sorridendogli teneramente. L’entusiasmo di Martin per molte delle cose della vita, la affascinava. Quell’uomo intelligente ed impulsivo le aveva spezzato il cuore ben prima che la precedente moglie, Maria Alvarez, morisse prematuramente; e che lui stesso, rimasto vedovo, forse solo per desiderio di compagnia, le chiedesse di sposarla.

    In realtà, a Catalina Alonso, di quelle mappe, non importava granché. Anche perché, a dire il vero, le carte geografiche realmente importanti della collezione di Pinzòn, erano solo due. Una, che riproduceva il mondo secondo la visione tolemaica e dalla quale era possibile capire la vastità delle terre emerse e la marginalità del Mare Oceano. L’altra – di incerta epoca e provenienza – rappresentava ciò che a largo delle Azzorre si pensava di trovare: non nulla come per comune e radicata opinione, ma qualcosa di indefinito, misterioso, irraggiungibile. Pinzòn se l’era procurata grazie alla cortese disponibilità dell’amico Saverio Coletti (abile cosmografo addetto al servizio di Papa Innocenzo VIII), durante un suo recente viaggio a Roma.

    Questo prezioso documento, però, non arrivava ad avere il fascino di quello in possesso di Cristobal Colòn, abilissimo marinaio dal cattivo carattere, ossessionato da ciò che nascondeva l’infinito ponente. Era stata proprio quella magnifica carta, a quanto pare opera del fiorentino Paolo del Pozzo Toscanelli, che aveva definitivamente convinto Martin a prendere il mare per raggiungere Cipango; non seguendo però le orme di Marco Polo, bensì passando per occidente. Per questo – ed anche per le pressioni subite dalla corona – aveva accettato di finanziare quella folle impresa, anticipando ben mezzo milione di maravedìs (ma riservandosi il diritto di accaparrarsi un ottavo di tutti i profitti che da quel viaggio, a Colòn, sarebbero eventualmente derivati). Pinzòn aveva rischiato così tanto anche perché aveva intuito che quell’ostinato italiano aveva altri segreti documenti che dimostravano, al di là di ogni ragionevole dubbio, la possibilità di raggiungere le Indie passando via mare, da ponente.

    «Amore, ti prego, non andare» – aveva supplicato più volte Catalina Alonso.

    Ma Martin non le aveva risposto, mentre guardava, dal molo, piloti, marinai e mozzi caricare sulle due caravelle e sulla Santa Maria tutto l’occorrente per la spedizione. Si affaticavano sudati, i membri dell’equipaggio, nell’opprimente afa del tardo luglio andaluso, a riporre in buon ordine nella stiva tutto l’occorrente: acqua a volontà, olio per l’illuminazione, legna per la cucina ed il riscaldamento, lardo affumicato, vizcocho, pesce salato, farina, miele, formaggio di Gomera, cipolle, legumi ed ortaggi in abbondanza e poi vino, aceto e biscotti; ma anche palle di granito per le bombarde e proiettili di minor calibro per spingarde e falconetti.

    Per ogni evenienza. Non si sa mai.

    «Non posso non cogliere questa occasione, amore. Questo viaggio mi consentirà di trovare la via per Cipango senza passare per le terre d’Asia, aprendo nuove rotte commerciali. Potrò dar vita a proficui contatti con le genti dell’estremo oriente, ingrandire la mia flotta e magari diventare uno dei maggiori mercanti del Mediterraneo».

    Gli occhi gli brillavano.

    «Non abbiamo bisogno di tutto questo, Martin. Siamo già ricchi a sufficienza. A me non serve il miraggio delle spezie orientali. Ho invece bisogno della certezza di averti per molto tempo ancora. Ho paura. Del viaggio, dell’ignoto e di questa maledetta febbre che quell’uomo ti ha lasciato dentro. Non devi seguire le sue utopie. Non capisco come hai potuto arrivare ad accettare di rischiare così tanto».

    Il vento scuoteva il velo del grazioso cappello a punta di Catalina. E lei tratteneva con la mano ossuta la sua gonna ampia.

    «Quell’uomo ha ragione, e comunque sia adesso è troppo tardi per tornare indietro. Il re ha imposto la spedizione ed io ho dovuto finanziare il viaggio, ho reclutato gran parte dell’equipaggio, ho convinto i miei cari ad unirsi a me… come potrei rimangiarmi la parola data? Tutta Palòs mi riderebbe dietro, e penserebbe che sono un codardo. Ho fatto bene i miei calcoli, e se tutto andrà come spero ed immagino, otterrò notevoli vantaggi; inoltre, così facendo, mi sono fatto bello agli occhi di Ferdinando. Sono convinto che, al ritorno, saprà essere riconoscente nei confronti di chi ha potuto rendere possibile la riuscita dell’impresa, ed ha consegnato nelle sue mani nuove terre e grandi ricchezze».

    «Spero tanto che potrai veder realizzati questi tuoi sogni, amore mio. Non posso impedirti di partire ma, sappilo, i mesi e forse gli anni che mi togli andando via, non potranno non lasciare il segno nella donna che ti ha sposato».

    «Capisco quello che provi e so quanto mi ami. Ma ad un uomo non si può chiedere di rinunciare al proprio destino. Vorrei che rimanessi ad aspettarmi senza pensare di aver subito un torto. È vero che a differenza di molti dei membri dell’equipaggio io partirò per scelta e non per effettiva necessità, ma le motivazioni, se ben ci pensi, sono sempre le stesse. La voglia di dare ai propri cari un futuro migliore».

    «A me basterebbe un futuro sereno con te. E così ai nostri figli, che invece non

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