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Requiem
Requiem
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E-book261 pagine3 ore

Requiem

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Info su questo ebook

Questo è il volume conclusivo della trilogia del demone di stracci – un grosso, mostruoso libro di puro terrore non diluito, pieno di spaventapasseri.

Maddy e Wilfred, Earl e Wendy Joe Joel in un testa a testa con un incredibile esercito di spaventapasseri.

Se apprezzate il genere di horror della vecchia scuola, il “sta accadendo qualcosa di strano in quel bosco", il genere di horror che ha reso famose storie come “Le notti di Salem” di Stephen King o “Pumpkinhead” di Stan Winston, sicuramente vi piacerà il demone di stracci.

L’inferno sta per arrivare.

Ed è vestito di stracci...

LinguaItaliano
EditoreBadPress
Data di uscita12 gen 2017
ISBN9781507168851
Requiem
Autore

Steve Vernon

Everybody always wants a peek at the man behind the curtain. They all want to see just exactly what makes an author tick.Which ticks me off just a little bit - but what good is a lifetime if you can't ride out the peeve and ill-feeling and grin through it all. Hi! I am Steve Vernon and I'd love to scare you. Along the way I'll try to entertain you and I guarantee a giggle as well.If you want to picture me just think of that old dude at the campfire spinning out ghost stories and weird adventures and the grand epic saga of how Thud the Second stepped out of his cave with nothing more than a rock in his fist and slew the mighty saber-toothed tiger.If I listed all of the books I've written I'd most likely bore you - and I am allergic to boring so I will not bore you any further. Go and read some of my books. I promise I sound a whole lot better in print than in real life. Heck, I'll even brush my teeth and comb my hair if you think that will help any.For more up-to-date info please follow my blog at:http://stevevernonstoryteller.wordpress.com/And follow me at Twitter:@StephenVernonyours in storytelling,Steve Vernon

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    Anteprima del libro

    Requiem - Steve Vernon

    (Italian)

    La

    Trilogia del

    DEMONE DI STRACCI

    Libro Terzo

    REQUIEM

    UNA TRILOGIA

    DEL TERRORE

    DI SPAVENTAPASSERI ANIMATI

    STARK RAVEN PRESS

    LA TRILOGIA DEL DEMONE DI STRACCI

    LIBRO SECONDO – REQUIEM

    di Steve Vernon

    Copertina: Keri Knutson

    Prima Edizione – 25 Aprile 2013

    ––––––––

    (Nota: questo è il TERZO volume di un romanzo in tre volumi. Dovete aver letto REVENANT: VOLUME PRIMO DELLA TRILOGIA DEL DEMONE DI STRACCI e RESURREZIONE: VOLUME SECONDO DELLA TRILOGIA DEL DEMONE DI STRACCI prima di iniziare a leggere questo libro. Se proprio volete risparmiarvi un po’ di fatica e denaro, cercate L’OMNIBUS DEL DEMONE DI STRACCI – che raccoglie i tre volumi in un solo libro)

    DEDICA

    A mia moglie Belinda – Non sono altro che un vecchio spaventapasseri solitario in un vecchio campo solitario senza di te.

    CAPITOLO DICIASSETTE – Riflessi

    * 1 *

    Alcune cose le sai, alcune cose pensi di saperle, e alcune cose passi il resto della vita a cercare di dimenticarle.

    Lily sapeva che, se anche fosse vissuta in eterno, non avrebbe mai dimenticato l’odore del popcorn che rotolava nella polvere estiva. Sapeva che non avrebbe mai dimenticato il sapore della dolce carne di Raoul. Non avrebbe mai dimenticato il suono delle giostre e la sensazione di tutti quegli avidi occhi su di lei. E non avrebbe mai dimenticato il retrogusto acido di sedici vaschette di gelato.

    Era stesa sul divano come una balena spiaggiata a guardare attraverso lo sporco alone della sua finestra anteriore, cercando di vedere il suo stesso riflesso opaco. Fissava il paese di cui non avrebbe mai fatto parte.

    Era un’altra cosa che sapeva.

    Lei era un’emarginata.

    Se avesse vissuto a Crossfall per altri seicento anni, sarebbe sempre stata la grassa attrazione da circo, l’estranea.

    La reietta.

    Non le importava.

    Il paese stava morendo.

    Chi voleva unirsi a una veglia ambulante?

    Il cartello fuori da Crossfall, che diceva POPOLAZIONE 3400, era una spudorata bugia.

    La verità era che Crossfall era stata una città fantasma per molti anni. Un paese pieno di fantasmi sfocati che si nascondevano dietro un sudario di segreti dimenticati da tempo. Il paese era morto un’infinità di tempo prima.

    Alcuni dicevano fosse morto quando l’impianto di pesca al merluzzo aveva ceduto. Altri davano la colpa alla morte dell’impianto tessile. Altri accusavano i lontani grandi magazzini, raggruppati in periferia come una manciata di tumori di cemento, che allontanavano i clienti dai negozi locali, portandoli lentamente alla fame. Forse si poteva dare la colpa alla nuova autostrada, per aver dimenticato che Crossfall fosse mai stata sulla mappa. Forse si poteva accusare la chiesa, racchiusa nella sua bancarotta fiscale e morale.

    C’erano molte teorie, ma Lily sapeva la verità.

    Crossfall era morta molto prima di tutto ciò. Ormai giaceva accanto alla strada come un’automobile abbandonata. Un giorno perfino i fantasmi se ne sarebbero andati. Un giorno un forte vento secco l’avrebbe spazzata via dalle mappe.

    La vita era una linea tracciata tra il movimento e l’immobilità, la luce e l’ombra. Era la differenza tra un corpo e un burattino ben realizzato. A dire la verità, il paese stava morendo da molto prima di quanto chiunque potesse ricordare. Gli eventi che si erano messi in moto quando Maddy aveva ucciso e seppellito suo marito Vic avevano solo accelerato le cose un po’ di più.

    Come tessere del domino, ogni evento era caduto al suo posto.

    * 2 *

    Roland Friar sorrise a sé stesso nello specchio.

    Aveva lasciato la signora delle dolci bugie distesa in un letto che aveva pagato per molto più della sua permanenza.

    Non stava pensando alla morte quando salì nella cabina del camion Peterbilt.

    Stava pensando a cose belle.

    A quanto fosse bella la strada.

    A quanto potesse essere bella la vita, mentre si sistemava sul sedile al posto di guida, lasciando che l’impianto idraulico pre-programmato facesse la sua magia.

    Le impostazioni del sedile lo sollevarono finché non fu alto abbastanza da vedere al di sopra del cruscotto sagomato. Agitò le dita dei piedi entro i confini di cuoio dei suoi stivali da lavoro macchiati.

    Allungò le gambe fin dove riuscivano ad arrivare.

    Controllò due volte per amore della sicurezza.

    Sì.

    Arrivava comodamente ai pedali.

    Sorrise e si guardò attorno come un cocker spaniel felice. Si era già fatto valere con l’addetto, per il carico di biada. Il bastardo l’aveva fatto mettere in fila per portare quattro lastre di marmo a una fabbrica di lapidi. Quella cazzo di roba sembrava Stonehenge su ruote. Avrebbe creato problemi a qualunque autoarticolato e a qualunque guidatore abbastanza stupido da provare a trasportarla.

    Nossignore, lui aveva preso la biada. Niente altro che balle profumate di erba morta. Il peggio di cui avrebbe dovuto preoccuparsi era un attacco di febbre da fieno. Il carico era diretto a un giardiniere paesaggista di Halifax. Il bastardo le avrebbe vendute a quelli con più soldi che cervello, dicendo loro che non c’era niente di meglio di una balla di biada morta per dare ai loro cortili un po’ di quell’aroma di raccolto.

    Roland diede la sua scrollata magica al cappello da baseball fortunato dei Blue Jay. Era un interruttore segreto che lo trasformava dal piccolo ometto che era in Roland Friar, camionista di lungo percorso.

    Il cappello era un portafortuna datogli da Carmen il giorno del loro matrimonio. L’aveva indossato per ogni singolo chilometro di strada.

    Cazzo, adorava sedere così in alto. Quando eri il piccoletto in una famiglia di persone che arrivavano alle ginocchia di una cavalletta, l’altezza non era qualcosa da sottovalutare. Seduto lassù nel suo Peterbilt modificato si sentiva grande come King Kong su un paio di grattacieli usati come trampoli.

    Roland era alto quasi un metro e cinquanta. Uno e cinquantuno se si alzava in punta di piedi. Compensava con i muscoli, era largo quasi quanto un muletto. Per lo più grazie alla birra e alle uova degli autogrill, sicuro come il fatto che la morte cavalca un pony pallido.

    Ingranò la marcia e accelerò. Il grande camion prese vita ruggendo. C’erano fiamme e un nome dipinti sulla cabina. Un camion non valeva la scorreggia di un mendicante se non gli davi un nome. Roland si era ispirato al suo, chiamandolo Rolling Fire.

    Ruggì in avanti, felice come un uccellino in volo.

    Era una buona giornata.

    E poteva solo migliorare.

    * 3 *

    Ciò che restava di Vic Harker scosse via la terra della sua tomba dai pioli che aveva per piedi.

    Aveva faticato tutta la notte, e ora era libero.

    Stava rigido, come una calzamaglia lasciata a congelare in inverno sul filo del bucato.

    Merda.

    Come era finito così in profondità sottoterra?

    Forse era stato ubriaco.

    Forse era in parte marmotta?

    Cristo.

    La testa gli si spaccava. Si sentiva come se gliel’avessero rotta con un’ascia.

    Se la toccò.

    Non riusciva davvero a sentirla, aveva ancora le dita intorpidite dalle bevuta della notte prima.

    Cazzo.

    Non riusciva a sentirsi neanche le dita.

    E che cazzo ci facevano lì delle margherite in quel periodo?

    Erano quei cazzo di scienziati, che riempivano l’aria di merda e corruzione. Non si poteva dire che cazzo sarebbe cresciuto, ma loro continuavano a farlo. Vic scosse la testa e gli parve che potesse cadergli.

    Dannato doposbornia.

    Doveva essersela spassata davvero, probabilmente si era ubriacato come dieci puzzole in un barile di whisky.

    Ricordava una lite con Maddy.

    Qualcosa sulle uova.

    Cazzo.

    Le liti erano ciò che facevano le coppie sposate. Non erano la fine del mondo. I suoi genitori avevano avuto liti ben peggiori, e il loro matrimonio era durato.

    Guardò verso la casa.

    Cristo, che ci faceva là fuori?

    Come cazzo c’era arrivato nel campo?

    Fece un passo, ma si sentiva a stento i piedi. Cadde in terra come un albero abbattuto. Cercò di ridere della sua stupidità. La gola gli sembrava intasata, come se avesse fatto i gargarismi col fango. Cercò di sputare, ma neanche quello funzionò.

    Cazzo.

    Poi si vide le mani.

    Vide quello che ne restava.

    Che cazzo...?

    Anche le gambe.

    Nere e infangate, sembrava che fossero intrecciate di rametti.

    Cazzo.

    Barcollò verso casa.

    Doveva andare da Maddy. Lei l’avrebbe perdonato. L’avrebbe fatto stare meglio. Loro due avrebbero potuto baciarsi e fare la pace, non appena si fosse sciacquato la gola.

    Arrivò fino alla porta sul retro, ma le mani ancora non funzionavano.

    Cazzo.

    Che era successo?

    Si era amputato da solo? Guardò il suo riflesso nel vetro della finestra. In che cazzo si era cacciato? Era stato rapito dagli alieni? Aveva bevuto una bottiglia di moonshine tossico? Forse aveva fatto incazzare le fate dei boschi?

    Cazzo.

    Sembrava un costume di Halloween semovente, solo più brutto.

    Sembrava un incubo di diecimila Elm Street.

    Iniziò a ricordare delle cose, come dei lampi di luce, e il sapore della terra, che gli cadeva sul volto. Ricordò la sensazione della pala che lo colpiva e la puzza della sua carne morta polverizzata.

    La sua memoria si intasò, ebbe un conato secco e poi gli rigettò l’intera cena in faccia.

    Tutto in una volta si ricordò cosa era successo.

    «Che cazzo sono?»

    Il demone di stracci, sussurrò una dolce eco blu.

    Sei il demone di stracci.

    «Sono il demone di stracci».

    CAPITOLO DICIOTTO – Svegliarsi da un brutto sogno

    * 1 *

    Maddy sognò di disseppellire il corpo di Vic, solo che non riusciva a trovare una pala.

    Correva nei campi cercandone una. Quando infine la trovò, questa schizzò più in alto di un pino colpito da un fulmine. Il corpo pieno di larve di Vic pendeva dal manico come una pentolaccia. Si inginocchiò a pregare ai suoi piedi, i grani del rosario le scorrevano tra i denti come file di caramelle acide.

    Poi se lo ritrovò sulla schiena. Lo portò a cavalluccio attraverso il campo fin dove aveva seppellito papà. Papà era lì, tutto blu e sfrangiato, con in testa un cappello di paglia così grosso che lo faceva assomigliare a un gigantesco pagliaio. Lei soffiò sul cappello e la paglia la frustò, sferzandole le carni come un’ondata di api assassine rinsecchite. Sentì le ossa delle gambe di Vic che le si piantavano nella carne, e poi ne uscivano, come se fosse diventata un qualche genere di marionetta.

    Quando si svegliò, le cose erano molto peggiori.

    Aprì gli occhi.

    A restituirle lo sguardo c’era un cadavere infestato dalle larve.

    Non era Vic. Si ricordò tutto. Aveva ucciso Vic e l’aveva seppellito. Aveva colpito Marvin Pusser con una latta della vernice e dissacrato il suo furgone con l’altra.

    Le tornò tutto in mente lentamente, come una fotografia che si sviluppava.

    Helliard.

    Duane.

    «Guarda tu se non è la cazzo di bella addormentata. Hai fatto un bel pisolino?»

    Helliard era sulla porta. Aveva una delle sue bandane preferite avvolta attorno alle rovine dell’orecchio. Il sangue coagulato scuriva il motivo a ciliegie rosse.

    «Spero che tu abbia fatto il tuo sonno di bellezza, perché sono arrapato», le disse. «Un arrapamento mattutino regolare come il sorgere del sole, il mio cazzo si drizza ogni mattina».

    Maddy sorrise più dolcemente che poteva. Suppose che lei l’avrebbe uccisa, prima o poi, e non gli avrebbe dato la soddisfazione di mostrarsi spaventata.

    «Credo che Vic abbia lasciato un paio di riviste da sega in fondo all’armadio», gli suggerì, «in caos tu voglia sbrigartela da solo».

    Helliard neanche si sforzò di sorridere.

    Si fece avanti e spinse da parte Duane.

    «Fai pensieri bagnati, troia», le disse. «Sarà tutto più facile».

    Maddy sbatté i denti.

    «Vieni un po’ più vicino, testa di cazzo», gli disse. «Ho fame, e quell’orecchio aveva un buon sapore».

    Lui estrasse la pistola per ricordarle chi comandava.

    «Ti sei svegliata male, eh?» Le infilò la pistola in gola, con tanta forza da farle male. «Fatti venire strane idee e ti faccio un buco nella testa e me lo scopo mentre muori dissanguata».

    Poi qualcosa che era quasi una voce rantolò dall’ingresso.

    «Se c’è da scopare, sono io quello che lo farà».

    Helliard si voltò verso la voce.

    Maddy, che stava già guardando in quella direzione, rimase lì distesa a fissare Vic, o qualcosa che gli assomigliava terribilmente, in piedi sull’uscio.

    Era tornato.

    Era molto peggio che guardare lo sport in TV.

    Maddy ancora non sapeva per chi o per cosa fare il tifo.

    * 2 *

    Wilfred si svegliò da qualche parte a est del lato sbagliato di male.

    La gamba gli faceva un male cane per i lividi dell’incidente d’auto del giorno prima. Saltare giù dal freezer non aveva affatto migliorato la situazione, oltretutto. Si sentiva la bocca come se qualcuno ci avesse cacciato dentro una sabbiosa manciata di merda. Il cranio stava mettendo in scena un concerto rock per osso solista.

    Preparò una caffettiera di caffè alla Mike Tyson: nero, forte e brutto. Se ne portò una tazza di sotto, assieme a un paio di sigarette. Non c’era niente di meglio che svegliarsi con una salutare colazione per far partire bene la giornata.

    «Buongiorno, Emma. Come hai dormito?»

    Bevve un sorso di caffè.

    Per poco non gli bruciò del tutto le labbra.

    «Ho fatto un piccolo incidente ieri. Una di quelle cose così. Ho cercato di fare una gara contro un jet con un carretto scassato. Credo di essermi un po’ ammaccato la gamba».

    Le aveva già raccontato la sua storia la scorsa notte, ma a lei non sembrava dar fastidio. Il matrimonio era così. Le presone trovavano un qualche genere di conforto nelle ripetizioni. Minimizzò l’incidente d’auto, non volendo farla preoccupare.

    «Non ti stai perdendo molto, Emma. Non c’è molto che stia succedendo adesso che non sia successo già un anno fa. Niente cambia qui a Crossfall. Niente cambierà mai».

    Parlò per la durata di una tazza di caffè sorseggiata lentamente e di entrambe le sigarette.

    Una volta pensò di averla vista muoversi.

    Era folle, no?

    Stava diventando matto. Sapeva che era morta, ma sapeva anche di star lentamente abbandonando la realtà... il che non significava affatto che fosse sul punto di inchiodarsi alla parete di una chiesa. Era solo che fingere era molto più facile per l’anima. Gli piaceva parlare a sua moglie, tutto lì.

    «Merda».

    Avrebbe dovuto stendersi. Avrebbe dovuto dimenticare tutta quella faccenda dell’impiccagione. Avrebbe solo dovuto stendersi nel freezer e lasciare che la porta si richiudesse sopra di lui.

    Perché no?

    Si diceva che congelare fosse indolore. Sarebbe stato molto più facile che impiccarsi e molto meno costoso che comprare della corda. Non doveva fare altro che stendersi e lasciarsi andare. Quando l’avrebbero trovato sarebbe stato tra le braccia di Emma, proprio come piaceva a lui.

    Avrebbe dato loro qualcosa di cui parlare.

    Forse avrebbe potuto lasciare un appunto, un ultimo desiderio.

    Forse li avrebbero seppelliti tutti e due nel freezer.

    Ah.

    Gli sarebbe piaciuto vedere come se la sarebbero cavata quelli che avrebbero portato il feretro.

    Chiuse delicatamente la porta, cercando di non farla sbattere. Era ora di andare a lavorare. Nessun riposo per i cattivi.

    Andò di sopra.

    Quando la porta del freezer si chiuse, Emma aprì gli occhi.

    Fissò l’oscurità sopra di lei. Cercò di urlare, ma le sue corde vocali erano congelate da tempo.

    «Stai ferma», le sussurrò una voce di donna in profondità dentro di lei, una voce che scorreva dolce e spaventosa come il sussurro di un serpente.

    Emma, essendo morta, non obiettò.

    «Sei solo il tramite», disse la donna. «Aspetti di andare».

    Emma rimase distesa lì ad ascoltare.

    La voce proseguì.

    «Sei solo il veicolo. Niente altro che il mezzo. Io sono il guidatore».

    Emma rimase immobile, come le era

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