Piazza dei Crisantemi Gialli
Di Luca Valente
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Anteprima del libro
Piazza dei Crisantemi Gialli - Luca Valente
mondo
29 aprile, ore 14
Il respiro non mente, si adatta a ogni situazione.
Fino a qualche istante fa rimaneva ancora attaccato a questa mia vita. Adesso è appena percettibile, breve e languido in fondo al petto. Un soffio incerto, seguito da pause lunghe e silenziose. Praticamente irrilevante, direbbe un osservatore neutro.
Quasi avesse abdicato.
Come se accettasse la sconfitta.
Se solo mi ricordassi contro chi, o che cosa, sto lottando.
Mi immergo nel mare oscuro della memoria, scivolando in apnea tra pensieri confusi e intervalli vuoti. Ogni tanto affiorano rottami di ricordi, detriti informi di coscienza. Non sono che fragili relitti, ai quali mi aggrappo con disperazione.
La sola immagine di cui ho una visione nitida è la vetrina della libreria che si frammenta in mille pezzi. Poi tutto ridiventa buio, come uno schermo che si è spento d’improvviso perché qualcuno è inciampato nel cavo e ha staccato la spina. La sensazione è sgradevole, mi disorienta ancora di più.
Il rumore lo percepisco meglio. Prima dell’esplosione, però, era più chiaro, riconoscibile. Poi è diventato diverso, confuso; eppure sempre presente, come un solerte guardiano. Non c’è una pausa, nemmeno dopo l’immenso frastuono che mi ha respinto con violenza, come se una forza invisibile, sovrumana, mi avesse afferrato e scaraventato lontano.
Mi libro in aria, mi accompagna il battito del mio cuore.
Tum-tum. Volo al rallentatore.
Tum-tum. Il tempo sembra non esistere più.
Tum-tum. Anch’io sono prossimo all’oblio.
La pavimentazione della piazzetta è dura e scivolosa. L’avrò calpestata infinite volte, ma non l’ho mai osservata così da vicino. Almeno ci vedo di nuovo, qualcuno ha riattaccato la spina, ma il segnale arriva disturbato. Ci sono crepe qui e là, qualche angolo delle mattonelle è scheggiato, il rosa salmone che dall’alto appare uniforme si rivela screziato, granuloso. A volte basta trovare una nuova prospettiva e cambia il mondo. Se solo riuscissi a mettere a fuoco la vista, scoprirei di sicuro qualche altro dettaglio. Magari una colonia di microscopici insetti tra le fughe di cemento screpolato.
Non avverto alcun dolore e questo è strano. Neanche mi sono accorto delle schegge di vetro che mi sono arrivate addosso, come uno sciame di vespe arrabbiate. Eppure i frammenti taglienti saettano precisi, quasi fossero guidati da un radar, e mi si conficcano sul dorso delle mani, sulla guancia e sullo zigomo. Non sento nulla, ma so che accade.
Ombre che mi scorrono a fianco, mentre il cuore riprende a battere sommessamente nel petto.
Tum-tum. Chi siete?
Tum-tum. Dove andate?
Magari è qualcuno che abita qui vicino e che cerca di rientrare in casa. I piedi sfilano veloci, non mi basta per capirne l’identità. Meglio non sapere, forse; fingersi cadavere, se già la vita non mi ha lasciato e questi pensieri nascono nell’oltretomba.
Un minuto dopo la scena si ripete. Passa una lunga fila di scarponi scuri, si muovono rapidi e sincroni come le zampe di un gigantesco millepiedi, a distanza serrata ma regolare, ancora a pochi passi dal mio corpo immobile. Questi sono chiaramente loro , non posso sbagliare, nonostante una nebbia grigia mi stia scivolando sugli occhi.
Non riesco a oppormi, è una forza irresistibile a rendere le mie palpebre pesanti come il piombo. Si chiudono, infine, vinte dal torpore. Ma io ci sono ancora, anche se ignoro in quale forma.
Intanto qualcuno è uscito dalla fila e si è fermato qui accanto. Ne avverto la presenza e la paura risale dallo stomaco alla gola, fredda come il ghiaccio. Forse vuole rendersi conto se respiro ancora, perché mi preme la canna della sua arma sulla spalla e tenta di scuotermi. Poi più niente. Deve essere andato via e anch’io vorrei farlo.
Uno strano odore metallico mi è entrato nelle narici. Mi disgusta, sa di qualcosa di artificiale, di pericoloso soprattutto. Lontano si ode sparare ancora, raffiche e colpi singoli, ogni tanto qualche scoppio attutito che fa vibrare la pavimentazione della piazza. O forse accade tutto lì, a pochi passi, ma non sento con chiarezza, c’è tanta confusione nella mia testa. Ogni rumore giunge filtrato da un monotono e sgradevole ronzio che mi satura le orecchie, dilatando il tempo e rendendolo infinito. Devo fare un grande sforzo per riaprire gli occhi.
Il fianco destro implode improvvisamente di dolore, togliendomi quel poco fiato che mi è rimasto. E poi la gamba sinistra, appena sotto il ginocchio. È un tormento che pulsa e cresce istante dopo istante. Perché nessuno mi aiuta? Ogni secondo che passa peggiora e averne consapevolezza mi terrorizza. Come posso rialzarmi, se mi mancano le forze?
Va bene, mi arrendo, aspetterò ancora qualche minuto. Intanto dormo un po’.
Non so quanto tempo sia passato. Mi ha destato un piacevole calore, che si diffonde lento attorno a quell’involucro di carne e ossa malridotte che sono diventato; ma almeno mi avvolge come farebbe una soffice trapunta, gentile e rassicurante. Mi ricorda certe serate in cui il freddo e l’umidità ti entrano nelle ossa, quando è bello abbandonarsi al tepore creato dal proprio corpo sotto le coperte e per niente al mondo si vorrebbe uscire da quel bozzolo accogliente.
Immagino che stessi così anche nel ventre di mia madre, dove nulla e nessuno poteva farmi del male. Per qualche istante, allora, dimentico la pioggia sottile ma gelida che cade sulla città da ventiquattrore e che ha da un pezzo inzuppato i miei abiti, i jeans grigi e la giacca a vento dello stesso colore. Li ho messi nell’ingenua speranza di essere meno visibile, una macchia incolore nel grigiore annacquato della città.
Vorrei addormentarmi ancora come facevo d’inverno nel mio letto quando ero piccolo, ma quel bambino non c’è più. È il dolore delle ferite, spietato, a mantenermi cosciente. Eppure questo calore mi piace, mi attira a sé, mi vuole portare via da lì.
Ma dove? Cosa mi sta succedendo? Sto abbandonando questo corpo, questa città, questa vita?
Sono passati pochi minuti o chissà, ore. Un riverbero di luce attira il mio sguardo sfocato. La testa è inchiodata al suolo, lo zigomo un tutt’uno con le fredde piastrelle di pietra. Riesco appena a ruotare le pupille verso l’alto e capisco da dove viene il dolce tepore che mi scalda il cuore e nello stesso tempo, lo so, è ingannevole.
La visione mi paralizza.
Un muro di fuoco incombe sulla piazza: le vetrine della libreria non ci sono più, orbite vuote e spettrali nel teschio dell’edificio mutilato che geme tra le fiamme.
Il rogo divora con ferocia un libro dopo l’altro, indifferente e impietoso al cospetto di ciò che sta vigliaccamente consumando. Sugli scaffali contorti migliaia di pagine svaniscono senza un lamento, tra vampe arancioni e giallastre sempre più alte, sempre più fameliche. Le parole trasmutano in cenere sapere e sogni.
Un’insopportabile tristezza mi appesantisce l’anima. Era l’ultima libreria della città, l’unica che continuava a vendere libri veri, di carta, anche se ormai tutti usati. Li avevo comprati qui quelli che conservo nella mia stanza, reliquie di un tempo non troppo lontano ma già dimenticato. Vorrei alzarmi per salvare almeno qualche volume, ma se anche ci riuscissi dovrei affrontare una parete invalicabile di fuoco e caligine rovente. Neanche un demone dell’inferno potrebbe superarla incolume.
Il fumo, ecco la nuova minaccia. Si avvicina nero e ostile, come se avesse vita e volontà proprie e volesse ghermirmi, per poi trascinarmi nell’oscurità dalla quale proviene. Entra lento e inesorabile nelle narici, nella gola, s’insinua nei polmoni. Brucio dentro.
La tosse è solo l’inizio, poi finisce l’aria. È una sensazione angosciante, deve essere questo il sapore della morte. Devo allontanarmi da lì, ma tutto mi gira attorno vorticoso fino a scomparire.
Lo scoppio secco dell’insegna della libreria, esplosa dopo un lungo e orripilante sfrigolare, mi riporta per un attimo nel mondo dei vivi. Ma poi basta un niente per sprofondare ancora nell’incoscienza, annaspando convulsamente per una molecola d’ossigeno.
Il respiro non mente. E nemmeno lo si inganna.
Cosa ci faccio qui? Non riesco a ricordare, tutto è sfocato, immateriale. Anche i pensieri si dissolvono, svaniscono appena nati nella mia mente anestetizzata.
Ma ecco, d’improvviso, nell’ultimo lembo lucido della mia coscienza, prima che anche su di esso cali l’ombra, materializzarsi la risposta: Giulia.
Tre ore prima
Dalla finestra mezza aperta s’insinua in casa uno scroscio sommesso. È da ieri che viene giù un’acqua sporca e regolare, leggera ma incessante. Odora di muffa, di stantio, di una storia che è deperita e non appare più recuperabile. Andata, insomma. Si poteva sperare in una premessa migliore per il giorno in cui saremo liberi.
Se davvero sarà così.
Intanto la pioggia continua a cadere, incurante delle nostre speranze. E allora penso che ci sarà il sole quando io e Giulia ci sposeremo. E tante lanterne colorate, da adagiare dolcemente sull’acqua di fiume appena increspata dalla brezza, o da liberare nel cielo limpido di una notte d’estate per far compagnia ai grilli e alle stelle. Ne abbiamo parlato qualche volta, sognando un giorno che forse non verrà mai.
Così, almeno, pensano quei pochi che sanno di me e di lei. Ma noi no. Io e Giulia crediamo che tutta questa follia avrà fine e che le cose cambieranno, non solo per me e lei. Lo faranno, sì, me lo sento nella pancia che i giorni a venire saranno diversi. Ma cosa succederà dopo, nei prossimi mesi e nei prossimi anni?
Mi inquieta il futuro, non posso negarlo. Quasi ogni giorno una paura sottile mi penetra nelle ossa, nelle budella, e insidia l’anima. La sento anche in questo istante, mentre là