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Fantasmi a Milano
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E-book420 pagine5 ore

Fantasmi a Milano

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Info su questo ebook

Lo spettro di un morto suicida e il compiersi di un antico rito druidico scatenano i fantasmi a Milano. I trapassati si manifestano in una danza di morte senza che alcun esorcista possa respingerli. Il mondo dei vivi si mescola a quello dei morti nella sfera di un mistero variamente interpretato dagli antichi. Le ricostruzioni storiche sono fedeli, taluni fatti sono ripresi da studi effettuati "sul campo" e da testi classici. Il narrato non è frutto di sola fantasia, ma ripercorre anche episodi realmente accaduti.
LinguaItaliano
Data di uscita14 lug 2017
ISBN9788892674677
Fantasmi a Milano

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    Anteprima del libro

    Fantasmi a Milano - Gianluca Padovan

    Indice

    FANTASMI A MILANO

    Gianluca Padovan

    IL DISEGNO DEL CASO

    Una figura a mezz'aria

    Funerale a un morto già sepolto

    Come non investire il fantasma

    Sul filo dei ricordi

    Lungo la cresta di cipressi

    Rifugi antiaerei e morti ammazzati

    Fantasmi del passato

    Le origini di Milano

    Apparizioni nel quartiere di Porta Romana

    Chi non si veste? Il disincarnato!

    Tutto ha un senso!

    Cannonate sulla folla

    Energie, ectoplasmi e teleplasmi

    Tra Celti e celtici

    Ventotto fortezze celte

    Il passato torna sempre

    Il nemeton di Medehlanon

    L’inestinguibile sete d’oro

    La maledizione dell’oro

    Giasone e il Vello d’Oro

    Morti e sepolcri

    La struttura dell’impalpabile

    Il dilagare dell’improbabile

    Gl’inquietanti e surreali fatti di El Alamein

    La nera signora

    La consuetudine del reale

    Dura spada su solida strada

    Tra legioni e Ultima Thule

    L’uroburos

    Mattino in Cittadella

    Mediolanodunon

    Patibolo ed esorcisti

    Il maleficio del rospo

    I segni del fato

    Attraverso le unghie del Lago Dragone

    Scontri nelle paludi

    L’assedio di Akwa

    Il vento caldo del Nord

    Tra le anse dell’Eridano

    Verso la lunga notte

    La certezza della morte

    Tutto si chiude come in un cerchio

    Tutto si conclude riprendendo

    Arduino

    Come l’acqua…

    Il Drago

    FINE

    APPENDICE

    Gianluca Padovan

    FANTASMI A MILANO

    Gianluca Padovan

    Testo: Gianluca Padovan 

    Foto: Gianluca Padovan 

    Progetto grafico: Marco Romagnoli 

    Grafica di copertina: Marco Romagnoli 

    Proprietà letteraria riservata – Tutti i diritti riservati 

    La riproduzione dei testi, anche parzialmente e in qualsiasi forma, 

    se non autorizzata, sarà perseguita a norma di legge

    Finito di stampare nel mese di Giugno 2017

    Codice ISBN: 9788892674677

    Youcanprint Self-Publishing

    Ad Amelia, il mio caro ricordo 

    «Non disse nulla. Andava e veniva come un sonnambulo, con lo sguardo convulso d’orrore»

    Arthur Conan Doyle

    Il disegno del caso

    La città riposa.

    La sera è tarda e la notte s’impone con una lieve brezza. Taglia a fette il caldo, stempera la cappa della metropoli nella quale si mescolano molteplici odori, tutti omogeneizzati in un unico fiato plumbeo che sa d’asfalto e verze bollite.

    Una falce di luna grande e rossiccia si staglia bassa sull’orizzonte, appena al di sopra dei circostanti palazzi, quasi presagio di cose arcane. Il caldo è una costante nel manifestarsi delle cose che c’incupiscono, assai più del freddo che talvolta addormenta.

    Il noioso lavoro di sciacquare i piatti e riporli nella lavastoviglie mi occupa i pensieri vuoti, dopo la giornata passata in ufficio a telefonare e smistare pratiche.

    L’acqua gorgoglia giù nello scarico del lavello e il resto è silenzio.

    Ma ho la netta sensazione che nell’aria si muova qualcosa e non è il venticello umido che agita appena le tende della cucina. È quella sensazione che ti passa la mano sulla nuca, lievemente, untuosamente, lasciando l’impronta del disagio. Quel disagio che t’impone, anche se non vorresti, di guardarti attorno per vedere che cosa ti turbi.

    Mi giro di scatto e lo vedo lì, seduto al tavolo, con la sua faccia larga e triste, che mi fissa. Mi rendo conto che non è possibile, perché a casa sono da solo.

    Starò sognando ad occhi aperti. Sogno senz’altro ad occhi aperti.

    Ma lui è sempre lì. Mi guarda con gli occhi azzurri e limpidi, tristissimi.

    Mi si è inaridita la bocca, sto sudando, sudando qualcosa di freddo e viscido. Sono così pieno di sgomento da non riuscire a provare terrore, oppure anche solamente una banale sorpresa, …non so. Non so che pensare, sono improvvisamente vuoto e paralizzato.

    I secondi passano lenti come giorni di fame.

    «Non volevo spaventarti», mi dice con pacata naturalezza.

    Istintivamente mi appoggio con le spalle al frigorifero, tenendo d’occhio l’intera cucina, quasi per timore che si materializzi dell’altro. Vorrei afferrare il coltellaccio da carne poc’anzi posato sul lavello. Mi rendo conto d’essere stupido, ma al contempo voglio una difesa tangibile, materiale. Qualche cosa da impugnare come in un atto d’estrema difesa. Ma rimango immobile e continuando a provare un freddo glaciale. Lui è morto quasi un anno fa e non è possibile che sieda qui, al mio tavolo. Ma lo vedo...

    Lo vedo fin troppo chiaramente.

    «Non volevo spaventarti...», riprende lentamente, «ma sentivo il bisogno di avvisarti», e abbassa finalmente lo sguardo.

    Ho uno scatto involontario, come se una scarica elettrica mi avesse percorso, ma serbo il controllo e non mi scosto dal frigorifero. Non credo che scappare via da lì serva a qualcosa, ma voglio uscire, uscire al più presto possibile da questa situazione improbabile.

    Scappare non serve, non servirà. Devo ritrovare il sangue freddo. Stare calmo, devo innanzitutto stare calmo, controllarmi e soprattutto controllare questa situazione paradossale, innaturale, malsana.

    Mi faccio forza. Torno mentalmente indietro nel tempo, lo rivedo sdraiato nella bara di legno scuro, con la testa poggiata sul cuscino grigio perla. Non posso cancellare il ricordo della sua fronte bianca, gelida, quando una volta entrato nella camera mortuaria dell’ospedale gli ho posato il palmo della mano destra proprio sulla fronte.

    «Vai sereno, Arduino», avevo mormorato a fior di labbra.

    L’ho forse in qualche modo legato a me con quella frase? La sfera della morte è qualcosa d’intangibile, d’inconosciuto, che rifuggiamo e a cui non desideriamo pensare. Sbagliando.

    Abbandono repentinamente i ricordi prima che mi avvolgano.

    Lo fisso, qui, adesso, nel momento assolutamente presente. Ora non sembra più così nitido e corporeo, mi dà quasi la nausea capire che quanto percepito come reale in effetti non lo è. O almeno non lo sembra.

    Pare che i suoi contorni si sfilaccino, per poi riconsolidarsi e sfilacciarsi ancora. Non è reale, sto vaneggiando.

    «No, non vaneggi, sono io e sono morto», esclama.

    Torna a guardarmi negli occhi e prosegue: «Per un ben preciso motivo io sono tornato ad avvisarti di ciò che nessun vivo ti potrà dire, di ciò che nessun’altro ti vorrà spiegare».

    Mi sale l’impulso di prendere una seggiola e sedermi di fronte a lui, dall’altro lato del tavolo. Ma rimango sempre in piedi, impietrito.

    Nella mia mente ricordi strani premono per uscire allo scoperto, sono turbini di luci e di ombre resi tangibili dall’ansia che si fa strada come un serpente tra l’erba alta. Vorrebbero quasi giustificare e spiegare l’incredibilità e l’impossibilità, o meglio l’improbabilità, del momento presente. Ma nessuno di questi ricordi è pari a quanto sta avvenendo in questi istanti. Le passate visioni non riescono a prendere il sopravvento sugli impulsi nervosi trasmessi dal nervo ottico al mio cervello, in questo preciso momento, in quest’aria che s’è fatta rovente.

    Rimetto a fuoco la situazione, la stanza, la sua presenza. Riprendo il controllo di me stesso.

    «Qualcosa sta tornando dal passato ed io ne sono la prova», mormora.

    Abbassa ancora lo sguardo, posa le mani sul tavolo e com’era solito fare, quando affrontava un argomento delicato, magari semplicemente serio e inerente il nostro lavoro, con insistente cura cerca di stendere le piegoline della tovaglia riunendo su di un lato le piccole briciole di pane.

    Mormora ancora: «È come se si fosse rotto un velo, perché talune cose sono state rimosse…». Prende fiato, proprio come quand’era vivo. «Talune cose del passato, dal più recente al più remoto, ritornano... i morti ritorneranno qui, a Milano…».

    «Ma che diamine…», balbetto incoerentemente sentendo che il sudore m’invade le spalle.

    «Te l’ho sempre detto, in passato…». Adesso sembra ansimare pure lui. Tiene gli occhi sul tavolo, ma poi si riprende: «La storia è maestra, ricorda…, la nostra storia è tutto… te lo dicevo a suo tempo e te lo ricordo ora…», i suoi contorni si slabbrano e si ricompongono.

    Alza gli occhi, mi fissa e il suo volto si scompone lentamente intanto che sussurra: «Io ne sono la prova, per te, qui ed ora. Ma ti spiegherò... più avanti, ora me ne manca la forza... mi manca l’energia..., qualcosa non vuole... lo so che potenze ben più forti mi ostacolano…». E si dissolve.

    La stanza della cucina è quella di sempre, io sono solo, non percepisco né rumori né tantomeno odori al di fuori della norma, dell’usuale. Che cos’è accaduto?

    Respiro piano.

    Voglio uscire, ma non so dove potrei andare. Fuori è notte ed io sono qui in compagnia di me stesso, delle paure ancestrali che galoppano sul filo dell’accaduto. Ricaccio l’impulso di scappare immediatamente dalla mia casa. Non ho voglia di vedere gente, non ho voglia e basta.

    Meccanicamente chiudo lo sportello della lavastoviglie e quella comincia a ronfare, a darmi la prova tangibile del momento reale. Meccanicamente mi dirigo nel bagno e mi spoglio, proprio come se volessi togliermi di dosso quanto è accaduto. Mi tuffo sotto una doccia veloce, con acqua tiepida, nell’intento di sciogliere la pessima sensazione provata poc’anzi, la quale mi si è spalmata addosso come un qualcosa d’unto e non richiesto. Poi torno in cucina, quasi per rassicurarmi che nulla sia cambiato, che tutto sia come prima. Mentendomi.

    Se qualche cosa accade, la quieta pacatezza del consueto s’increspa e tutto potrebbe mutare.

    Finisco di sparecchiare la tavola, pulisco con cura inusuale e quasi maniacale la stanza, nell’istinto inconfesso di voler sottolineare la mia condizione materiale, tangibile, reale.

    Lascio ovunque le luci accese, cammino lentamente fino a varcare la porta della camera e mi butto sul letto vestito, senza nemmeno togliere il copriletto. Ho il timore viscerale di chiudere gli occhi, ma una sorta di sfinimento, di spossatezza, mi vince il corpo, pervade il cervello sovraccaricato dagli stimoli conflittuali, non compatibili con la realtà del mio quotidiano.

    Dormo un sonno agitato, popolato di cose dense, svegliandomi spesso.

    Ed è di nuovo mattino.

    Il sole della prima estate sorge accarezzandomi attraverso le tapparelle non completamente abbassate, fino a destarmi.

    Il ricordo della sera precedente è purtroppo ben chiaro nella mia mente e so che devo fare qualche cosa. Come evitare che quanto accaduto ieri si possa ripetere?

    Non era un sogno, non si trattava di una visione. Non posso negare la reale e al contempo irreale sequenza dei fatti solo perché istintivamente preferirei una pigra e umanamente comoda alzata di spalle.

    Mi raso frettolosamente, mi rinfresco ed esco. Fuori è tutto come sempre. Sempre?

    Milano non è una metropoli.

    Milano è un’antica città monocentrica cresciuta a dismisura.

    Il cuore è di pietra e di mattoni, ma il resto sono cerchi concentrici dati dal cadere di un sasso su di uno specchio d’acqua. Solo che tali cerchi sono di cemento, asfalto e materiali sintetici.

    Esco e me ne vado a piedi, con una certa fretta, seguendo un pensiero ben preciso. Solo una volta giunto sul sagrato della chiesa rallento il passo e cerco mentalmente le giuste parole per ottenere un colloquio.

    Meccanicamente evito un paio di persone che tendono la mano, mormorano le frasi usuali di chi cerca qualche moneta per drogarsi, per bere, per tirare avanti. Mi coglie sempre un senso d’impotenza mista a sconforto nel vedere tanta gente ridotta a mendicare, ma i veri indigenti giungeranno qui solo all’ora del pranzo, per accedere alla mensa dei poveri.

    Tocco leggermente la porta di legno facendola cigolare sui cardini. Alle mie spalle rimangono i rumori cacofonici della città moderno-medievale. La barriera si richiude e m’immergo nella quiete e nel silenzio, percorrendo la navata laterale della vecchia chiesa.

    Domando al sacrestano di poter parlare con un frate e vengo fatto entrare in una stanza della canonica. Che cosa dovrei dirgli per non sembrare uscito di senno? La verità.

    Mi aspettavo una persona anziana, con il saio marrone e un po’ liso, ma chi siede alla scrivania della bella stanza adibita a ufficio non ha più d’una quarantina d’anni, indossa un vestito richiamante l’antico saio, ben stirato e composto, e mi accoglie cordialmente.

    Comincio con qualche disarticolato preambolo per introdurgli i fatti delle sera prima, con una certa titubanza.

    «Non si deve preoccupare», mi tranquillizza il frate, «lei non ha veramente idea di che cosa mi capiti di ascoltare». Mi fa un cenno con la mano, invitandomi a proseguire.

    «Come le dicevo, Padre, avevo appena terminato la cena, stavo riordinando la cucina e mi sono sentito insistentemente osservato». Faccio una pausa per trovare le parole adeguate, per chiamare a gran voce della fluida saliva che ammorbidisca il cavo orale disseccatosi.

    «Ho volutamente continuato a rimanere fisso davanti al lavello», spiego, «ma poi non ho resistito e mi sono voltato di scatto e così l’ho visto seduto lì, al tavolo, il mio amico e collega morto l’anno scorso». E guardo il frate dritto negli occhi per cogliere il suo pensiero.

    Rossa falce di luna nel cielo di Milano.

    Lui mi fa un silenzioso cenno d’assenso invitandomi a proseguire.

    Riprendo leggermente concitato, un po’ più sicuro delle mie parole: «Ci tengo a dire, sa, di questi tempi...», faccio una pausa e guardo ancora il suo volto imperturbabile, «io non assumo stupefacenti e generalmente, a tavola, bevo solo acqua. Si, solo acqua e così anche ieri sera ho bevuto solo acqua e mangiato con moderazione».

    «Si, ho capito», dice il frate senza il minimo turbamento, «ma con precisione, con la massima precisione, sia così gentile da ripetere che cosa le ha detto l’apparizione e come lei ha reagito».

    Rivivo attimo per attimo i momenti d’angoscia, ma anche di sorpresa. Una sorpresa che mi sarei evitato, se lo avessi potuto, con la massima gioia.

    Il religioso ascolta sempre con attenzione, senza più interrompermi, ma senza lasciar trasparire alcunché dal volto.

    «Così, vede, Padre, ho dormito poco e stamane ho percepito la necessità di capire che cosa fosse successo e, soprattutto, perché proprio lui mi sia apparso». Lo dico con una certa apprensione, dopo aver concluso la descrizione dei fatti.

    «Le ho già detto che non si deve preoccupare per quanto è accaduto!», esclama.

    La mia espressione stupita e senz’altro disorientata gli accende sul bel volto ascetico un altro caldo sorriso.

    «Certamente sono cose che colpiscono», prosegue, «ma le ripeto che non si deve affatto dare pensiero, perché non sono cose inusuali».

    «Inusuali! Non mi dica che veder apparire un amico morto la considera una cosa normale», riprendo con meno fermezza, ma sforzandomi a non lasciare trapelare alcunché dal mio tono di voce e dalla mia espressione.

    Non mi sento completamente sincero, non lo sono affatto, ma non voglio confessare che questa non è la prima volta che mi capita qualcosa di strano. Certo, mai in questi termini. Però, me lo ricordo, non è la prima volta.

    «Vede», riprende il frate, «siamo abituati a vivere la nostra esistenza terrena senza considerare che l’unica cosa certa che possediamo è la morte, la nostra morte».

    «E questo che c’entra?», mormoro un po’ interdetto.

    «Non mi dica che non ci ha mai pensato, perché non le crederei», e mi fissa diritto negli occhi.

    «Si, lo so che siamo di passaggio», faccio io conciliante, «ad ogni buon conto una volta morti noi siamo, come si suole dire, cibo per i vermi... mi scusi l’espressione!».

    E riprendo con una certa titubanza: «L’energia vitale che ci fa vivere, l’anima in parole povere, se ne torna a Dio, dal nostro Creatore».

    «Non è mia intenzione dispensarle prediche, mi creda», sospira con pazienza e pacatezza il religioso. «Nemmeno intendo ricordarle la Bibbia e i dettami Cristiani, i quali sono ben chiari in materia: una volta trapassati noi si attende il giorno del Giudizio Universale». Mi guarda ancora con quegli occhi che sanno.

    «Tuttavia...», riprende con voce ferma e con un tono leggermente più alto, «tuttavia capita che lo spirito di una persona morta si manifesti. Allora noi, comprensibilmente e naturalmente, ne abbiamo timore».

    «Diciamo terrore», sottolineo a mezza voce.

    Ignorando la mia interruzione prosegue: «Perché, non neghiamolo, la morte come fenomeno evidente e tangibile fa paura a tutti». Trae un lungo respiro e conclude: «Fa paura a quasi tutti, soprattutto a coloro i quali non si sono adeguatamente preparati ad accettarla nel corso della propria vita..., se non si è pronti a riceverla, se non si è pronti ad abbandonare la propria materialità per tornare alla vera luce». Mi fissa ancora.

    Sono stanco, non so che cos’altro dire.

    Da un lato la chiara affermazione dell’amico morto sul fatto che tornerà, per dirmi dell’altro, mi ha mosso una certa curiosità, oltre all’ansia. Ma l’idea che lo spettro di un morto possa tornare a visitarmi crea in me solo un forte timore, per non dire una incontrollabile paura. Me lo immagino accanto al letto mentre dormo.

    Io, al frate, gli ho raccontato solo le mie paure, non il resto, ovvero che, secondo il supposto spirito di Arduino, i morti ritorneranno per chissà quale disegno del caso o del fato. Quello no, quello proprio non gliel’ho detto.

    Le parole dell’amico mi risuonano ancora nella testa: «Si è come rotto un velo, perché talune cose sono state rimosse... e talune cose del passato, dal più recente al più remoto, ritornano... i morti ritorneranno».

    Il frate riprende, distogliendomi da ogni altro pensiero. «Lei non ha idea di quante persone m’interpellino per fatti analoghi al suo».

    E prosegue: «I miei confratelli ed io facciamo celebrare delle messe in ricordo dei defunti ed altre ancora affinché essi possano trovare la pace divina».

    Taglio corto: «Ma perché si manifestano?».

    Alza le sopracciglia e quasi impercettibilmente drizza la schiena. «Taluni non trovano la pace perché sono morti improvvisamente e senza la grazia del Signore». Scruta la mia reazione, prima di soggiungere: «Altri sono morti di morte violenta, oppure non volevano affatto morire e si sono aggrappati spasmodicamente ad ogni attimo che potevano ancora trattenere».

    Prosegue nella casistica, quasi salmodiando ogni prospettiva del trapasso e le possibili reazioni del trapassato.

    In realtà desidererei sapere come fanno, diciamo tecnicamente, a manifestarsi. Ma non oso domandarlo.

    Infine mi accordo per tre messe, pago, ringrazio e guadagno l’uscita.

    Il sole è oramai alto nel cielo solcato da poche bianche nuvole. I clacson delle auto strombazzano come sempre, un’imprecazione vola fuori dal finestrino abbassato, gomme stridono leggermente sull’asfalto cotto, un pedone distratto raggiunge d’un balzo il marciapiede e nulla appare diverso dal solito.

    «Questa città è tangibile», mi dico, «fors’anche troppo».

    Non mi va di raggiungere l’ufficio, devo riflettere, devo assolutamente e necessariamente capire.

    Telefono, dico alla segretaria del capo che oltre alla mezza giornata di oggi, mercoledì, mi prenderò anche la seconda metà più due giorni interi. Non sto bene e devo assolutamente sottopormi a visite di controllo, ma non desidero mettermi in malattia. Grazie. Adesso ho davanti a me il resto della settimana per pensare adeguatamente al da farsi.

    Mi avvio verso casa, ma non salgo all’appartamento. Cerco con lo sguardo la macchina, estraggo le chiavi, monto e avvio immediatamente il motore. Potrei andare in biblioteca, a consultare qualche libro sull’argomento fantasmi. Non che la mia piccola biblioteca personale ne sia sprovvista, ma qualcosa di diverso mi aiuterebbe forse a capire di più.

    Dopo un paio d’isolati ci rinuncio, inverto la marcia e mi dirigo al supermercato, edificio grande, impersonale, pieno di gente e soprattutto fresco. Entro, giro distrattamente tra gli scaffali, compero delle confezioni di barrette energetiche, del succo di frutta, pane e affettati. Poi esco, riguadagno la calura attraversando lentamente il parcheggio che sa di catrame.

    L’apparizione non è stata un semplice caso e a ben vedere mi sono sempre detto che il caso non è mai tale, ovvero come usualmente s’interpreta tale vocabolo. Noi crediamo che l’avvenimento casuale sia estraneo alla nostra volontà, che capiti indipendentemente da noi.

    In una certa misura ciò è vero.

    Invece per taluni il caso non è semplicemente un avvenimento fortuito ed imprevisto, ma si tratta di un qualcosa che certamente avviene indipendentemente dalla nostra volontà, ma il quale rientra in un disegno più ampio, che va al di là della nostra vita quotidiana. E, magari, ci era predestinato.

    Stanotte vedrò il da farsi.

    Intanto rimugino su talune vicende del mio passato, cercando di ricordarle con la massima precisione possibile. Potrebbero essermi d’aiuto per capire meglio quanto è accaduto ieri.

    Mentalmente torno indietro nel tempo…

    Resti di una casa d’epoca romana nell’area archeologica di Bolsena (Viterbo).

    Una figura a mezz'aria

    Eravamo in un’area archeologica del Centro Italia e faceva caldo, troppo caldo.

    Questo ricordo si è insinuato lesto tra le mie reminiscenze, piombandomi addosso come una secchiata d’acqua, inaspettato, ma non rinfrescante. Tutt’altro che rinfrescante…

    Sono nuovamente in cucina. Ho appena ricordato quell’accaduto che il boccone di barretta energetica che stavo masticando s’è piantato in gola come un paletto. Tossisco, sputacchio, trangugio una sorsata di succo d’albicocca, ma è peggio. Mi alzo di scatto dalla seggiola, reclino la testa sotto il rubinetto del lavello, sputo e ingollo una lunga sorsata di acqua caldiccia, per poi tornare a sedermi al tavolo, imprecando ad alta voce.

    Nella nostra chiusa intimità siamo noi, imprescindibilmente ciò che siamo, senza veli, senza filtri, scevri dal timore dell’altrui giudizio. La mia casa è sempre accogliente, sempre sicura, nonostante tutto, e mi permette di riflettere. Mi guardo dentro e so di non essere stato sincero, stamane.

    No, al frate non ho detto tutto, anzi, non ho detto assolutamente alcunché degli strani episodi capitatimi nel passato. Non me la sono sentita. Ma questo dettaglio, o meglio questo ricordo, non mi era tornato alla mente nell’impetuosa marea del vissuto che rigetta sulla battigia cerebrale solo gusci di molluschi morti e rottami. Questo l’avevo seppellito ben bene nel profondo di me stesso. Adesso è lì che mi attende.

    Lui pure, metaforicamente parlando, mi osserva.

    Ora ricordo che Arduino, io e gli altri della squadra eravamo in un’area archeologica situata a breve distanza dalle acque del lago di Bolsena, in Centro Italia, tanti anni fa. Lungo le pendici terrazzate già in antico si stava riportando alla luce una porzione dell’antica città etrusco-romana, sopravvissuta per buona parte del medioevo.

    Durante gli scavi dell’antico abitato era venuta alla luce la soglia in pietra consunta d’una casupola, dandoci una rinnovata carica per procedere a liberare dai sedimenti del tempo anche questi resti architettonici.

    Si trattava di una bottega artigiana che avevamo inquadrato al II secolo, ovvero attorno all’anno 150, stando ai reperti rinvenuti. Difatti si erano recuperati piccoli frammenti di anfore, il fondo di una scodella, il vago di una collana in pasta vitrea, alcune monete d’epoca romana, tra cui il classico sesterzio in bronzo.

    Queste poche e povere cose le avevamo rinvenute incastrate nelle connessure del rovinato pavimento in cocciopesto, una sorta di miscela composta da calce e frammenti battuti di mattoni, tegole e altro materiale fittile, un tempo utilizzata sia come pavimentazione, sia per impermeabilizzare vasche, cisterne, impianti termali ed altro ancora.

    La bottega, caduta in disuso, venne riutilizzata negli anni successivi. L’originario pavimento era stato ricoperto con una gettata di malta biancastra dall’impasto grossolano, oramai polveroso, e lo specchio della porta ridotto impiegando un paio di esili colonne in pietra, spezzate e prive di capitello, stagnate tra loro con la stessa malta.

    Le vicende umane e soprattutto il tempo avevano completato l’opera con l’ulteriore abbandono, il cedimento del tetto e il parziale crollo delle pareti. I resti del complesso rimanevano così relegati tra le cose del passato sepolto e dimenticato, che noi archeologi amiamo indagare.

    La bottega, come gli altri piccoli edifici adiacenti, erano stati costruiti a ridosso di una bancata di roccia trachitica, la quale era parzialmente franata a più riprese sulle strutture sottostanti contribuendo in modo determinante al loro seppellimento, sigillando definitivamente un’epoca.

    Rimuovendo i resti dei crolli avevamo trovato un paio di gradini che puntavano verso il basso, sempre all’interno della bottega e nel punto in cui la parete di fondo era stata tagliata a colpi di piccone nella roccia e pareggiata in modo accurato quasi ovunque, usando uno strumento a punta piatta.

    Anche gli scalini erano stati scolpiti con perizia nella tenera roccia d’origine vulcanica che a noi ricordava, almeno per la leggerezza, ma non per colore e compattezza, la pietra pomice. Quella pietra con cui una volta ci si limava i calli dei piedi. Mi viene quasi da ridere al ricordo…

    Intanto si lavorava alacremente e alcuni giorni di sterro condotti vigorosamente con l’aiuto di una piccola ruspa, dotata di braccio lungo e di una piccola benna, avevano rimosso massi franati e strati di crollo.

    Era così venuta alla luce una lunga e stretta scalinata discendente la quale dava accesso ad un largo pianerottolo, al cui termine si stagliava, sempre ricavata scolpendo la roccia, la classica porta etrusca composta di piedritti in rilievo e piattabanda sommitale sporgente.

    L’ingresso, però, risultava murato fin quasi alla sommità da blocchi di pietra sbozzati e impermeabilizzati con malta idraulica. Osservando accuratamente la tamponatura ci accorgemmo che nella parte inferiore usciva un tubo di piombo dotato di rubinetto in bronzo, o almeno quello che ne rimaneva. Al di là della muratura vi era una stanza sotterranea rettangolare, grande e buia, anch’essa parzialmente interrata.

    Altro lavoro, altro sudore e catene interminabili di secchi pieni di sedimento rimosso con cura ci permettevano ora di ammirare l’ipogeo. Si trattava di una tomba inquadrabile al VI secolo avanti l’anno zero, la quale riproduceva l’interno di una casa con tetto stramineo, a imitazione di un’abitazione con volta ogivale fatta di erbe secche e paglia, con la trave di colmo in rilievo che simulava un tronco d’albero squadrato a sezione rettangolare.

    I letti di deposizione dei cadaveri, ricavati anch’essi a risparmio nel corso dello scavo dell’ambiente, erano stati quasi interamente scalpellati e asportati in un successivo momento, destinando così il luogo di sepoltura ad altra funzione. Curiosamente tutto l’ambiente risultava impermeabilizzato con malta idraulica fino all’imposta di volta. Ancora più curiosamente, appena al di sotto di tale imposta, vi erano, contrapposti, due cunicoli che s’inoltravano nel buio. Evidentemente doveva trattarsi di una tomba etrusca riutilizzata in epoca romana come cisterna connessa a un acquedotto sotterraneo.

    In pratica un cunicolo alimentava e riempiva la tomba-cisterna; il corrispettivo consentiva all’acqua di defluire e proseguire nel suo percorso, sicuramente per raggiungere un’altra cisterna, oppure una fontana pubblica sgorgando così a giorno. Almeno questa era l’ipotesi da noi formulata.

    I ricordi ora si fanno via via più netti. Adesso è come se fossi fisicamente tornato a Bolsena.

    Scalinata scavata nella roccia che scende nell’ambiente sotterraneo a Bolsena.

    Nel pomeriggio di caldo torrido cerco Arduino.

    Non ha il volto segnato dalla fatica e dagli affanni di vent’anni più tardi, quando inaspettatamente morì. Sta seduto su di uno sgangherato sgabello, sotto una tettoia che ripara bene dal sole feroce. Posato a terra tra le gambe ha un vecchio mastello in lamiera, con acqua non più limpida e qualche reperto archeologico a mollo. Lava con cura una lucerna in terracotta, aiutandosi con uno spazzolino da denti. Spazzola delicatamente e immerge. Spazzola delicatamente e reimmerge l’oggetto, osservando ogni volta l’effetto dei motivi in rilievo liberati dall’argilla.

    Mi guarda e sorride, spalancando gli occhi azzurrissimi e increspando leggermente le labbra.

    La lucerna è una lampada a combustibile liquido in cui si versava, generalmente, olio minerale o vegetale. Questa è composta da un recipiente di terracotta a forma circolare, con un piccolo manico per trasportarla e un pronunciato beccuccio rotondeggiante, da dove un tempo usciva lo stoppino intriso di liquido. La parte superiore, concava e a disco, presenta in rilievo una scena pastorale composta da una figura umana appoggiata ad un albero ricurvo e attorniata da tre figure animali. Verosimilmente dovevano essere delle pecorelle. Un foro quasi centrale serviva poi ad immettere il liquido all’interno.

    Una storia è racchiusa in un recipiente piccolo e apparentemente insignificante.

    È la storia di chi l’ha impastata e modellata a seconda dei gusti e della moda del momento, è la storia di chi l’ha usata, per abbandonarla consumata ma intatta dentro una buca pontaia della bottega che stiamo indagando.

    «Mentre te la spassi al fresco e con le mani in mano, pardon, nella tinozza», esclamo faceto, «io vado a prendere umido nella tomba-cisterna, anche se non ne ho molta voglia». Lo saluto con un cenno della mano.

    Lui ammicca col capo e tacitamente prosegue nella pulizia dell’oggetto.

    «Che bel chiacchierone!», esclamo assestando meglio lo zaino che ho gettato negligentemente sulla spalla. Contiene un caschetto da alpinista con impianto d’illuminazione a led,

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