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Lo Specchio
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E-book195 pagine2 ore

Lo Specchio

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Una prigione. Quattro personaggi: Giacomo sognatore e poeta, Eugenio pragmatico e cinico, Maria donna fragile e Lucrezia femme fatale. A tratti le personalità opposte di Eugenio e Giacomo, protagonista del racconto, si scontrano ma in genere tutto si risolve e torna la solita calma. Un giorno però la svolta: esasperato, Giacomo si ribella al suo alter ego. Una reazione inaspettata per un inetto come lui che si trova a dover fare i conti con sé stesso. Punto di partenza per questo percorso di autoanalisi è lo specchio. Per la prima volta dopo tanti anni, in una sorta di diario-confessione tra passato e presente, tra sogno e realtà, Giacomo riflette sulla sua vita. Incapace di gestire le sue azioni ma spinto dalla voglia di emerge è caduto in una spirale sempre più cupa di dissennatezza. Ma la mente sa come agire per tutelarsi: cancellare, soffocare, non ricordare...Ora però è arrivato il momento della resa dei conti. Niente potrà più rimanere nascosto.
LinguaItaliano
Data di uscita13 mar 2020
ISBN9788831662987
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    Anteprima del libro

    Lo Specchio - Valentina Querini

    Presentazione

    È da an­ni che or­mai vi­via­mo co­sì. Chiu­si qua den­tro, tra que­ste quat­tro spo­glie mu­ra. Un pic­co­lo bu­co per fi­ne­stra, pic­co­la fe­ri­to­ia dal­la qua­le la­scia­re en­tra­re una fio­ca lu­ce per ri­schia­ra­re il buio d’in­tor­no in cui sia­mo co­stret­ti a so­prav­vi­ve­re. Già, per­ché la no­stra non è più vi­ta: è me­ra esi­sten­za. Non ab­bia­mo più mo­do di usci­re da que­sto spor­co e lu­ri­do po­sto in cui sia­mo sta­ti con­fi­na­ti. Non ab­bia­mo più mo­do di espri­me­re noi stes­si, le no­stre idee, i no­stri so­gni, le no­stre il­lu­sio­ni, con­vin­zio­ni. No. Per noi non c è più spa­zio nel mon­do di fuo­ri e co­sì ogni tan­to al­zan­do­ci dal no­stro can­tuc­cio in cui sia­mo a for­za spin­ti e ri­le­ga­ti, le­via­mo a tur­no la no­stra fle­bi­le vo­ce, in­trec­cian­do le no­stre umi­li e mi­se­ra­bi­li esi­sten­ze e spe­ran­do di es­se­re ascol­ta­ti an­co­ra una vol­ta.

    Sia­mo in quat­tro qui: io, Gia­co­mo, un tem­po gran­de ar­ti­sta e poe­ta; poi c’è Lu­cre­zia, don­na fer­ma e de­ter­mi­na­ta nel­le sue con­vin­zio­ni; Ma­ria fra­gi­le crea­tu­ra di Dio, scon­vol­ta dal­la ma­li­gni­tà del mon­do in cui si è tro­va­ta a vi­ve­re e per ul­ti­mo Eu­ge­nio, uo­mo prag­ma­ti­co ed am­bi­zio­so le­ga­to al­la mon­da­ni­tà ed al­la ma­te­ria­li­tà del mon­do.

    A di­re il ve­ro non so co­me ci sia­mo ri­tro­va­ti qui, tut­ti in­sie­me. Si, a vol­te ci sia­mo in­con­tra­ti, ab­bia­mo scam­bia­to qual­che pa­ro­la o con­si­de­ra­zio­ne, ma co­me si fa con un co­no­scen­te, nien­te di più. Ep­pu­re ora ci tro­via­mo qui a con­di­vi­de­re que­sta len­ta ago­nia in cui ci stia­mo spe­gnen­do a po­co a po­co, co­me si spe­gne la fiam­ma di un ce­ri­no in una stan­za sen­za più os­si­ge­no. Co­sì di­ver­si e co­sì ugua­li nel­la no­stra col­pe­vo­lez­za, con­di­vi­dia­mo og­gi, me­si, an­ni nel­la cu­pa lor­du­ra di que­sta ca­me­ra, un va­no stret­to e lun­go per l’esat­tez­za, po­ve­ro nel­lo sti­le e nel mo­bi­lio: una scri­va­nia sot­to al­la fi­ne­stra, di rim­pet­to al­la por­ta; un ta­vo­lo al cen­tro del­la stan­za. Sul­le pa­re­ti la­te­ra­li bian­che e vuo­te – com’an­che quel­le al­tre due - ap­pog­gia­ti al mu­ro dei let­ti. Una pic­co­la por­ti­ci­na sul­la de­stra che con­du­ce al ba­gno. Sul­la si­ni­stra un ar­ma­dio.

    La mi­se­ria d’in­tor­no è lo spec­chio del­le no­stre ani­me, co­stret­te in una con­vi­ven­za for­za­ta. Le no­stre vi­te, in­fat­ti, fi­no a qual­che an­no fa, era­no esi­sten­ze pa­ral­le­le.

    Io, scri­ve­vo di tea­tro e poe­sia ed ero an­che un’ar­ti­sta piut­to­sto fa­mo­so. Par­ti­to dal mio pic­co­lo pae­si­no di mon­ta­gna che mi sta­va piut­to­sto stret­to per­ché sof­fo­ca­va tra le sue chiac­chie­re ar­ro­gan­ti e ma­li­gne quel­lo che ero il mio spa­zio crea­ti­vo, ar­ri­vai a Ro­ma, gran­de cit­tà in cui per un at­ti­mo mi sen­tii smar­ri­to.

    Quan­ta gen­te! Quan­ta bel­lez­za e ric­chez­za in quei vi­co­li na­sco­sti die­tro ai gran­di ca­po­la­vo­ri del pas­sa­to! Ba­sta­va gi­ra­re die­tro al mae­sto­so Co­los­seo o die­tro ai su­per­bi Fo­ri Im­pe­ria­li che d’un trat­to ti per­de­vi con gli oc­chi e sen­ti­vi un ton­fo al cuo­re quan­do da­van­ti a te viuz­ze e vi­co­li ti mo­stra­va­no l’ani­ma di que­sta eter­na Cit­tà.

    E co­sì con tac­cui­no e pen­na mi di­ri­ge­vo ver­so il Vit­to­ria­no per poi sa­li­re al Cam­pi­do­glio e per­der­mi nel­la zo­na vi­ci­na a Cam­po de’ fio­ri in cui ero af­fa­sci­na­to ed am­ma­lia­to dal for­mi­co­lio e dal bru­sio not­tur­no in cui lo­can­die­ri ed al­ber­ga­to­ri si ab­ban­do­na­va­no  tra schia­maz­zi e ri­chia­mi per ac­ca­par­rar­si i clien­ti.

    For­se ne ri­ma­ne­vo esta­sia­to, in­can­ta­to per­ché in quel pic­co­lo an­go­lo di mon­do mi sem­bra­va di ve­de­re il gran­de pa­ra­dig­ma del­la vi­ta: l’ar­rab­bat­tar­si con­ti­nuo de­gli uo­mi­ni per con­qui­sta­te la fe­li­ci­tà, l’au­to­no­mia, la si­cu­rez­za per reg­ge­re al­la pres­sio­ne ed ai tur­ba­men­ti cui ci sot­to­po­ne la real­tà. Co­me for­mi­che, api ope­ra­ie qui pic­co­li uo­mi­ni si ar­ran­gia­va­no al­la me­glio per in­vo­glia­re i pas­san­ti a fer­mar­si da lo­ro, nel­la fra­gi­le lu­ce del­la lu­na. Pas­sa­vo le mie cal­de se­ra­te ro­ma­ne co­sì, nel­la fol­la ma lon­ta­no da es­sa, con lo spi­ri­to di chi os­ser­va ma non si ca­la nel­la con­fu­sio­ne d’in­tor­no. Os­ser­va­vo l’an­di­ri­vie­ni del­la gen­te; ascol­ta­vo le vo­ci me­sco­lar­si nell’aria; as­sa­po­ra­vo gli odo­ri che sa­li­va­no dal­le ta­ver­ne im­ma­gi­nan­do di gu­sta­re quel­le pre­li­ba­tez­ze che fa­ce­va­no ri­ma­ne­re di stuc­co gli as­sag­gia­to­ri. Toc­ca­vo con ma­no quel­la bru­li­can­te real­tà e mi per­de­vo nel­le de­scri­zio­ni, nell’im­ma­gi­na­zio­ne più pro­fon­da rac­con­tan­do le sto­rie di chi mi pas­sa­va da­van­ti, in­cro­cian­do la sua vi­ta per un pic­co­lo istan­te di una se­ra d’esta­te con la mia.

    Que­gli igna­ri pas­san­ti, ve­nu­ti chis­sà da do­ve, di­ven­ta­va­no per me spun­to di ri­fles­sio­ne, og­get­ti da stu­dia­re, sto­rie da rac­con­ta­re nel­le cro­na­che pro­lis­se di un tem­po. È co­me se le lo­ro esi­sten­ze toc­cas­se­ro in pun­ta di pie­di le cre­ste agi­ta­te del mio ani­mo in fer­men­to e gli des­se­ro all’im­prov­vi­so una scos­sa, una spin­ta per usci­re fuo­ri dal tor­po­re ed ini­zia­re a guar­da­re il mon­do con oc­chi nuo­vi, scri­ven­do sen­za ri­ser­va al­cu­na del­le emo­zio­ni, dei sen­ti­men­ti, del­le co­se vi­ste e pro­va­te, in una ca­tar­ti­ca ela­bo­ra­zio­ne di fram­men­ti di vi­ta al­trui.

    La pa­gi­na bian­ca a quel tem­po era la mia mi­glior con­fi­den­te ed ami­ca. Scri­ve­vo tut­to quel­lo che mi ac­ca­de­va, tur­ba­va, sol­le­va­va; scri­ve­vo di me, del­le mie con­vin­zio­ni, del­le mie emo­zio­ni, fis­sa­zio­ni, ma­nie. Ma que­sto ac­ca­de­va un tem­po…poi...

    Poi, d’un trat­to, tut­ta la mia crea­ti­vi­tà, tut­ta la mia emo­ti­vi­tà, si è spen­ta co­me una can­de­la ac­ce­sa quan­do sof­fia il ven­to.

    Si è spen­ta, an­nul­la­ta, az­ze­ra­ta co­me se non fos­si dav­ve­ro più ca­pa­ce di emo­zio­nar­mi. E for­se in ef­fet­ti per un po’ di tem­po è sta­to co­sì. È co­me se la mia men­te nel suo ci­ni­smo e nel­la sua fred­da ra­zio­na­li­tà aves­se spen­to il mio cal­do cuo­re. È co­me se le pa­ro­le, i di­scor­si, en­tras­se­ro nel­la mia te­sta, si im­pri­mes­se­ro nel mio cer­vel­lo sen­za ge­ne­ra­re tur­ba­men­to o emo­zio­ne al­cu­na. Per un pe­rio­do ho vis­su­to in so­spe­so, in bi­li­co tra il vi­ve­re e l’esi­ste­re, in pie­di per for­za, so­ste­nu­to for­se dai so­li fi­li in­vi­si­bi­li del Fa­to. Il pro­ble­ma di que­sta con­di­zio­ne è sta­to che seb­be­ne pro­tet­to da ogni pos­si­bi­le af­fli­zio­ne o do­lo­re dell’ani­mo, non ero più ca­pa­ce di es­se­re me stes­so e pa­ra­dos­sal­men­te pur de­si­de­ran­do di es­se­re di­ver­so da me, vi­ven­do que­sta for­ma di alie­na­zio­ne ho ca­pi­to quan­to gra­ve sia la con­di­zio­ne di es­se­re in sé ma di ve­der­si esi­ste­re; in­ten­do di­re che sa­pe­re di es­ser­ci ma non con il cuo­re è una sen­sa­zio­ne piut­to­sto sgra­de­vo­le.

    Ov­vio che do­po la sof­fe­ren­za, do­po il do­lo­re, que­sto sta­to di fat­to sem­bra il mi­glio­re se non per­ché ap­pun­to ti di­spo­ne al non-ascol­to, al non-sen­ti­men­to. Ma quan­do ti ri­pren­di da que­sto tor­po­re è co­me se cer­cas­si la for­za di ri­pren­de­re le bri­glia di un ca­val­lo im­biz­zar­ri­to che cor­re ver­so l’in­fi­ni­to ga­lop­pan­do nell’im­men­sa pra­te­ria. È una mos­sa az­zar­da­ta. Va pon­de­ra­ta be­ne. Non si può ri­schia­re di ca­de­re da un ca­val­lo in cor­sa. Poi, d’un trat­to fai un bal­zo; un ra­pi­do sal­to e sei in grop­pa. Ora puoi ca­val­car­lo ma non hai an­co­ra il pie­no con­trol­lo del tut­to. Af­fer­ri le bri­glia per non ca­de­re, le im­pu­gni, le tie­ni stret­te, le ti­ri per fer­ma­re quel­la fol­le cor­sa sen­za mè­ta. Il ca­val­lo ral­len­ta. Ti sen­ti già al si­cu­ro; ciò no­no­stan­te non mol­li la pre­sa. Ti tie­ni sal­do al suo cor­po. Non al­len­ti la stret­ta si­cu­ra. Ti­ri an­co­ra le bri­glia cer­can­do di ri­sta­bi­li­re una si­tua­zio­ne in cui l’ani­ma­le, con i mu­sco­li te­si dal­la paz­za ca­val­ca­ta, si pla­chi e tu rie­sca a ri­ma­ne­re in sel­la sen­za es­se­re di­sar­cio­na­to an­co­ra e sen­za ri­schia­re una ro­vi­no­sa ca­du­ta. Una vol­ta ri­pre­so il con­trol­lo la ten­sio­ne ca­la e tu puoi tor­na­re a re­spi­ra­re ed a sen­ti­re sen­za pau­ra al­cu­na il tuo cuo­re bat­te­re.

    È la vi­ta che tor­na a flui­re, a cam­mi­na­re drit­ta sul suo bi­na­rio, sen­za usci­re dal suo scor­re­re, sen­za sbal­zi im­prov­vi­si, im­mu­ta­bi­le nel suo mu­to pro­ce­de­re de­si­gna­to dall’in­vi­si­bi­le De­sti­no.

    E co­sì ho ri­pre­so pian pia­no con­fi­den­za con me stes­so, con la vi­ta, con quel fo­glio bian­co in cui ca­tar­ti­ca­men­te riu­sci­vo a fis­sa­re gli sta­ti d’ani­mo più pro­fon­di, le emo­zio­ni più in­ten­se che pro­va­vo. E co­me si ha un po’ d’im­ba­raz­zo nel ri­ve­de­re un ami­co ca­ro do­po mol­to tem­po, co­sì è sta­to per me ri­tro­var­mi di nuo­vo a scri­ve­re del­la mia ani­ma. E do­po l’im­pat­to im­pac­cia­to dell’ini­zio si pro­va gio­ia, qua­si un sol­lie­vo nell’ini­zia­re una con­ver­sa­zio­ne con quel­lo che sep­pur lon­ta­no non puoi de­fi­ni­re un estra­neo, co­sì da­van­ti al flui­do an­da­men­to del­la pen­na sul fo­glio ho pro­va­to un mi­sto tra li­be­ra­zio­ne e con­ten­tez­za per­ché ma­no a ma­no che le pa­ro­le pro­ce­do­no, i pen­sie­ri flui­sco­no ed il cuo­re ri­na­sce nel­la sua espres­sio­ne più pro­fon­da, in un’esplo­sio­ne di emo­zio­ni per trop­po tem­po ri­ma­ste pri­gio­nie­re.

    Co­me un car­ce­ra­to che eva­de do­po es­se­re sta­to rin­chiu­so per un lun­go pe­rio­do co­sì le mie an­sie, pau­re, gio­ie, so­no usci­te d’im­pe­to met­ten­do­mi nel­la ne­ces­sa­ria con­di­zio­ne di guar­da­re an­co­ra in me stes­so e di get­ta­re fuo­ri la par­te più pro­fon­da del mio io.

    Ed al­lo­ra ec­co­mi, pron­to a rac­con­tar­mi an­co­ra, pron­to se pur so­lo con la for­za del pen­sie­ro a fug­gi­re da que­sta an­gu­sta stan­za le­van­do­mi al di là di quel­la stret­ta fe­ri­to­ia per guar­da­re an­co­ra il cie­lo e il ma­re al di fuo­ri di que­sto po­sto li­mi­ta­to, pron­to an­co­ra una vol­ta a guar­da­re in vi­so la real­tà, a scru­ta­re nel­la mia ani­ma, a ro­vi­sta­re tra le cian­fru­sa­glie del mio cuo­re per ve­de­re se, tra tut­to quell’ac­cu­mu­lo di co­se ce ne sia­no an­co­ra di uti­liz­za­bi­li.

    È co­me vo­ler fa­re un esplo­ra­zio­ne nel­lo spa­zio: sai quel­lo che tro­ve­rai ol­tre l’at­mo­sfe­ra ma non sai co­sa può ac­ca­de­re una vol­ta che ti ci tro­vi. Sa­li ver­so il cie­lo, ol­tre le nu­vo­le, ol­tre la gra­vi­tà; guar­di al Ter­ra, tua ma­dre e tuo por­to si­cu­ro, e la ve­di co­me pic­co­lo fra­gi­le pun­ti­no im­mer­so nel blu pro­fon­do d’in­tor­no. Flut­tui: la gra­vi­tà non ti tie­ne più sal­da­men­te in­col­la­to. Ti muo­vi a sal­tel­li, a scat­ti, in una spe­cie di dan­za im­prov­vi­sa­ta che non ter­mi­ne­rà fi­no a quan­do non  tor­ne­rai  a ter­ra. E an­che il viag­gio di ri­tor­no non sa­rà fa­ci­le: sai do­ve de­vi ar­ri­va­re per es­se­re sal­vo ma non sai co­me sa­rà la di­sce­sa. E quan­do il por­tel­lo­ne si apre e tut­ti ti por­ta­no in trion­fo per la buo­na riu­sci­ta del­la mis­sio­ne, in cuor tuo avrai mil­le emo­zio­ni, un’esplo­sio­ne im­prov­vi­sa di sta­ti d’ani­mo che qua­si per­de­rai di nuo­vo il con­trol­lo co­me quan­do flut­tua­vi nel­lo spa­zio si­de­ra­le.

    Que­sto è ri­pren­der­si sé stes­si, que­sto è sa­per viag­gia­re nell’ani­ma con lo sco­po di esplo­ra­re le pro­fon­di­tà dell’in­con­scio dan­do sfo­go al­le pul­sio­ni e pas­sio­ni che vi­vi.

    È que­sto quel­lo che in­ten­do tor­na­re a fa­re, pur se ri­le­ga­to lon­ta­no, pur se per­so in que­sto oblio e re­mo­to an­go­lo di mon­do in cui ora mi tro­vo; an­che se non sa­rà fa­ci­le, an­che se met­te­rò an­co­ra a nu­do il mio cuo­re nel­la sua com­ples­sa fra­gi­li­tà, que­sto è quel­lo che fa­rò: non pos­so fa­re al­tri­men­ti. La vi­ta mi chia­ma a vi­ve­re.

    Eugenio

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    <>.

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    E co­sa vuol di­re in­dos­sa­re una ma­sche­ra? ti sta­rai chie­den­do ora nel­la tua men­te cu­rio­sa e co­me si sce­glie la ma­sche­ra da in­dos­sa­re? Quel­la al­le­gra, quel­la tri­ste, per­ples­sa, ar­rab­bia­ta…con qua­le cri­te­rio si de­ve sce­glie­re di fin­ge­re? Qua­le abi­li­tà ser­ve per na­scon­der­si agli al­tri?. Si­cu­ra­men­te la tua men­te ava­ra poe­ta si sta­rà po­nen­do que­sti que­si­ti. Ri­spon­de­rò io a tut­ti, ascol­ta­mi at­ten­ta­men­te e ca­pi­rai al­lo­ra sen­za giu­di­ca­re per­ché io so­no un uo­mo che vi­ve co­me vi­ve e pen­sa co­me pen­sa e par­la co­me par­la e

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