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Marenigma
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E-book286 pagine4 ore

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Thriller - romanzo (233 pagine) - Un thriller psicologico e metafisico al tempo stesso, una favola nera. Una villa in un'amena località balneare è il teatro di una serie di inspiegabili eventi che coinvolgono un gruppo di adolescenti in gita.


Con gli stilemi del racconto gotico, Luca Raimondi racconta una storia di adolescenti in gita nell’atipico scenario tardo autunnale della località balneare di Fontane Bianche, che si confrontano con i misteri della natura, dell’ignoto, di Dio e dei propri nodi esistenziali irrisolti. Una villa nei dintorni di una spiaggia diventa teatro di una serie di inspiegabili eventi che hanno ripercussioni diverse su personalità esemplari: c’è l’intellettuale, la secchiona, la “ragazza facile”, il bullo, il timido; dieci caratteri apparentemente banali che invece nascondono ognuno un particolare stato psicologico che è forse innanzitutto paura del futuro, ma anche, come nel caso più drammatico di una ragazza coinvolta in un contrastato e ambiguo rapporto con i genitori, di un presente contraddistinto dalla mediocrità, dall’ignoranza, dal vuoto e dall’angoscia di vivere di una generazione di padri e madri che poco sembrano avere da insegnare ai propri figli. Nel corso di un’improvvisa e sovrannaturale tempesta, qualcosa annulla la volontà dei ragazzi o forse, al contrario, la fa venire fuori. Piccoli segnali preludono a imminenti cambiamenti, rinascite, lutti, delitti. Ogni personaggio segue un suo personale percorso di formazione accompagnato da inspiegabili eventi che sembrano generati da un mare, solcato da un misterioso vascello fantasma che forse attraccherà o forse scomparirà nel nulla portando qualcuno con sé.

“Pian piano, nel dipanarsi di ore in cui la realtà sembra sfumare nel torbido accavallarsi deglieventi, nel manifestarsi di segni scuri e in incubi e comportamenti macchiati di delirante follia, il“mare” che li attende, li ipnotizza e li minaccia porterà dentro le loro anime e le loro menti ondeinarrestabili: quelle che gridano il bisogno (e l’onere) di confrontarsi con i misteri della vita e dellamorte, del bene e del male, del materiale e del soprannaturale, della ragione e della follia, del vero edell’immaginato. Potremmo definire questo romanzo di Raimondi “thriller psicologico”, come è statofatto, oppure “noir metafisico”. Un viaggio in quel “cuore di tenebra”, insomma, che è l’animo dipersone che, crescendo e affrontando un difficile passaggio della propria esistenza, realizzano diessere come gusci di noce in balia di potenti flutti che si originano in un luogo sconosciuto.” (Dalla prefazione di Eraldo Baldini)


Luca Raimondi è nato ad Augusta (Sr) nel 1977. Laureato in Filosofia e in Scienze dell’educazione, vive a Siracusa. Tra le sue pubblicazioni il saggio Nient’altro che un sogno. Pasolini e la Trilogia della vita (Bastogi, 2005), nonché i romanzi Se avessi previsto tutto questo (Edizioni Il Foglio, 2013), Tutto quell’amore disperso (Edizioni Il Foglio, 2014), Cerniera lampo (Edizioni Il Foglio, 2016) e Il grande chihuahua (Augh! Edizioni, 2017), gli ultimi due in collaborazione con Joe Schittino.

Ha curato le antologie I signori della notte. Storie di vampiri italiani (Morellini, 2018) e Mosche contro vetro. Racconti sull’autismo (Morellini, 2019). Con Giuseppe Maresca ha scritto un film (C’era una volta il sud, 2007), curato le antologie 24 a mezzanotte. Storie italiane dell’orrore (Officina Milena, 2019) e L’isola delle tenebre (di prossima uscita) e fondato il blog di cultura horror italiana Il gorgo nero.

LinguaItaliano
Data di uscita12 gen 2021
ISBN9788825414356
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    Marenigma - Raimondi Luca

    nero.

    Prefazione

    di Eraldo Baldini

    Un gruppo di adolescenti diserta per qualche giorno la scuola e decide per una breve vacanza in una villa sul mare. Non sono propriamente amici, ma solo compagni di scuola e in alcuni casi di vita, diversi e insieme affini nella loro condizione di incertezza. È dicembre e il cielo è cupo come i pensieri di alcuni di loro.

    I ragazzi e le ragazze, di cui Raimondi tratteggia con abilità i caratteri, i pensieri e le storie, sono in cerca di una breve fuga dalla quotidianità e da piccoli e grandi problemi, e soprattutto vogliono una tregua, un momento, un modo per porsi di fronte alle tensioni del proprio vissuto ma soprattutto del proprio futuro, in quell’età che si colloca tra l’adolescenza e la maturità e che richiede decisioni e sguardi al domani. Ma il futuro, vicino e allo stesso tempo velato e insondabile, è grande e minaccioso, misterioso e impellente, gravido della potenza dei desideri, dei destini, del caso. Grande e oscuro come il mare, insomma, e come esso dotato di un’arcana potenza e di un ineluttabile e ingombrante gravare.

    Pian piano, nel dipanarsi di ore in cui la realtà sembra sfumare nel torbido accavallarsi degli eventi, nel manifestarsi di segni scuri e in incubi e comportamenti macchiati di delirante follia, il mare che li attende, li ipnotizza e li minaccia porterà dentro le loro anime e le loro menti onde inarrestabili: quelle che gridano il bisogno (e l’onere) di confrontarsi con i misteri della vita e della morte, del bene e del male, del materiale e del soprannaturale, della ragione e della follia, del vero e dell’immaginato. Potremmo definire questo romanzo di Raimondi thriller psicologico, come è stato fatto, oppure noir metafisico. Un viaggio in quel cuore di tenebra, insomma, che è l’animo di persone che, crescendo e affrontando un difficile passaggio della propria esistenza, realizzano di essere come gusci di noce in balia di potenti flutti che si originano in un luogo sconosciuto.

    Uno

    Il ricordo cocente del suo fango amaro

    Che bel cielo d’autunno chiaro e rosa sei!

    Ma in me cresce la tristezza: è un mare

    che lascia tra i riflussi sul mio triste labbro

    il ricordo cocente del suo fango amaro.

    Charles Baudelaire, Conversazione

    [O come quando il mare, il vento, la pioggia, tutti gli elementi godono di tenebra e d’Assoluto, inondano il Grande Vuoto tra il Tempo e lo Spazio, tra la percezione perpetua del presente, il ricordo del passato, la chimera imperituramente equidistante del futuro.]

    − Non.

    Una negazione nel silenzio, enunciata da un ragazzo di nome Carlo, da circa dieci minuti seduto davanti alla parete vuota del salone, color rosa antico. Guarda la parete. E a un tratto la sua bocca spara un altro pungente monosillabo.

    − Mai.

    La madre di Carlo sobbalza. Con una rivista femminile tra le mani è distesa sul divano, dall’altra parte dell’ampia sala. Lui depone gli occhi su di lei, poi li ritrae, come infastidito da quell’esile figura di donna d’età già avanzata, e li riporta alla parete. Cosa significa quel mai? E quella deflagrante negazione? Impossibile scoprirlo, anche per lo stesso Carlo. Ha cominciato da piccolo a guardare la parete e da allora ha continuato a farlo con una certa costanza, generalmente in corrispondenza di uno stato d’animo tra il depresso e l’insoddisfatto, o anche in coincidenza con conflitti interiori o più o meno atroci dubbi. In questo caso, forse, Carlo non è del tutto convinto di seguire i suoi compagni di classe e accettare l’invito di Bruno a trascorrere tre giorni di dicembre nella sua villetta, laddove il mare scarica le sue folate ventose tardo autunnali, nella località balneare di Fontane Bianche. Lei la considera un’iniziativa carina, un simpatico modo per socializzare e per cominciare ad avere un po’ di autonomia, ma lui è poco entusiasta. A volte ha l’impressione − per non dire la certezza − che Carlo tenda quasi fisicamente a volar via dal mondo terreno per andarsene in qualche altro posto creato da una misteriosa potenza creatrice della mente. Intendiamoci meglio, non fra le nuvole, ma in una dimensione che neanche il più qualificato degli psicologi avrebbe individuato – ne è certa, pur non essendosi mai rivolta ad alcuno specialista. Spesso lei nutre seria preoccupazione per quell’individuo figlio suo (non più ragazzo, non ancora uomo: individuo). Chissà, forse lo stare allegramente per tre giorni fra compagni, anziché amareggiarsi fra gli opprimenti professori, potrebbe sortire un effetto benefico. Carlo ha tenuto i suoi compagni sulle corde per un bel pezzo, prima di unirsi alla comitiva. È un ragazzo molto pigro. Non va mai alle feste, quando lo invitano, preferisce vedere la televisione o leggere uno di quei libri che tanto apprezza: saggi sul paranormale, raccolte di poesie, romanzi gialli e d’orrore. Deve scuotersi e lui stesso ne è consapevole, per questo alla fine è propenso ad accettare, nonostante la sua ritrosia.

    Carlo torna a guardare il vuoto e la madre ha la certezza che in quel vuoto lui veda qualcosa. Ma cosa?

    Forse

    niente, assolutamente niente. Ecco quello che vedevo. E non c’è niente di più accattivante del niente. Una persona guarda il nulla e pensa: Ma non c’è davvero niente, qui? Ma io guardo il nulla. Lo guardo. Quindi qualcosa da guardare c’è.

    Pensieri deliranti, lo so, ma questa è un’epoca in cui il delirio è la vita stessa, o forse no, forse siamo noi poveri pazzi che deliriamo e crediamo che dietro il nostro delirio vi siano secoli di evoluzione e una contingenza storica cui dobbiamo sottometterci. Eppure non ho mai creduto, né credo tuttora, che dietro i miei pensieri e le mie stranezze vi fosse una mente distorta, credo anzi che non sono mai stato così lucido come quando guardavo, vedevo, il nulla; il nulla, che io capivo e decifravo, il nulla di cui avrei potuto servirmi se non fossi stato così giovane e sprovveduto.

    Il mio guardare il nulla, il mio fuggire in quella tanto temuta dimensione oscura era fonte di preoccupazione per mia madre. E anche per me. Perché sapevo, ho sempre saputo, che al di là del nulla c’è il vuoto e nel vuoto sta l’intimo del futuro, la percezione e l’agguato del malefico. Una specie di Maelstrom che, se percorso in tutta la sua irreale presenza, porta a quei famosi presentimenti che sempre avrei dovuto ascoltare. Ma chi ha mai veramente ascoltato il proprio genitore mentre imita il Predicatore della Domenica? Quella dimensione è un terzo genitore che invece di predicare su azioni già fatte e da non ripetere in futuro, predice azioni future da non fare nella maniera più assoluta. E quel giorno, subito dopo la telefonata di Bruno, ebbi la più profonda di quelle percezioni… e non l’ascoltai.

    Sapete cos’è il pentimento? Sì, certo che lo sapete. Almeno una volta nella vostra vita vi sarete sorpresi a provare quella sorta di contrizione; magari vi hanno chiesto di venire a una gita e voi non ci siete andati. Cosicché, una volta tornati, i partecipanti hanno cominciato a farvi pesare la vostra scelta con frasi tipo: Bella vacanza, eh? Povero mentecatto, tu qui a vegetare, noi lì a divertirci… e via dicendo. E voi vi siete pentiti di non aver scelto la soluzione prediletta dalla massa.

    A me si presentò il pentimento opposto.

    Avrei dovuto ignorare la proposta di Bruno.

    Fontane Bianche?

    Non andarci.

    Non esserci.

    E oggi, invece di ripercorrere quei tre giorni, vi racconterei qualcosa di più allegro, né d’altronde posso evitarne la narrazione: ne ho bisogno. Devo seguire a ritroso le briciole che ho seminato, perché la favola che intendo raccontare non ha ancora la sua conclusione e spero che ritessendo la tela smagliata riuscirò a farmi un quadro d’insieme più coerente dell’accozzaglia di immagini e rapidi flash che ancora disturbano le mie notti, che ancora rivedo quando meno me l’aspetto, che ancora rivivo come se non fossero mai state cancellate dal trascorrere del tempo.

    Tutta colpa di una telefonata.

    Già, la telefonata…

    − Pronto?

    − Parla la segretaria del dottor Bruno Bruni − miagolò una vocetta imbecille. Dapprima pensai si trattasse dello stesso Bruno, poi riconobbi Mara, la sorella minore, anni sedici. Si udì qualche rumore confuso, poi la voce ferma e sicura del fratello disse: − Carlo? Sei tu?

    − Sono io.

    − Hai finito i compiti?

    Annuii e gli chiesi cosa diavolo volesse. Le sue telefonate erano sporadiche e sempre suggerite da interessi personali.

    Andò subito al dunque. − Ti va di passare tre giorni nella mia villetta a Fontane Bianche?

    − Hai una villetta tua?

    − Vabbe’… dei miei genitori, quindi mia. Ti ricordi? Ne parlavamo giusto martedì scorso.

    − Tre giorni?

    − Sì, tre, la prossima settimana.

    − E la scuola?

    − Che vada a farsi fottere, la scuola! − strombazzò.

    − Be', così, sui due piedi…

    − Dai, non fare l’imbecille.

    − Chi viene?

    − Giulio, Alba, Dario…

    − Dario Mascali?

    − Sì. E poi Nanni…

    − Con il fratello Elio?

    − No, per fortuna. E ancora Erica Devisi con il fidanzato Paolo Bini, Monica Campisi, Mauro Valfré.

    − Mauro Valfré − ripetei stupito, come a chiederne conferma.

    − Proprio lui. Che c’è, ti sta forse sulle scatole?

    Mauro Valfré era una conoscenza che risaliva al primo anno, al termine del quale era stato respinto. Mi tornò in mente un periodo in fin dei conti non molto distante − tre anni prima: cosa sono tre anni? − che avevo in buona parte già cancellato dalla memoria, piano piano, partendo da piccoli dettagli per arrivare a interi blocchi. Eravamo molto giovani e, si sa, da giovani il dialogo e la comprensione reciproca non sono all’ordine del giorno… non quanto una sana scazzottata. All’epoca Mauro era piuttosto rissoso, più di chiunque altro e i suoi bersagli preferiti eravamo io, Nanni e Bruno. Dal canto mio non avevo mai risposto alle sue provocazioni e anche quando cominciava a farmi assaggiare le sue nocche − in genere sulle braccia − avevo l’accortezza di non difendermi; se lo avessi fatto, sarebbe andato letteralmente in bestia e non sarebbe stato uno spettacolo divertente. Con Nanni e soprattutto con Bruno il discorso era diverso. Ricordo che entrambi fecero a Mauro una formale dichiarazione di guerra che comprendeva spiate, creazioni di figuracce, ostracismi e così via. La bocciatura di Mauro fu il risultato estremo del conflitto, ché altrimenti sarebbe riuscito a cavarsela, magari per il rotto della cuffia. Fu per questo che mi stupii sentendo nuovamente parlare di Valfré, dopo più di tre anni. Non ero certo io quello che avrebbe potuto soffrire la sua presenza.

    − Non sarà fonte di guai?

    − Non ti devi preoccupare − si limitò a dire Bruno. − Saremo dieci, ti va bene?

    − Come stiamo a posti letto?

    Sbuffò. − Mi sembra di averti descritto abbastanza chiaramente la villetta dei miei genitori…

    − Quando?

    − Come, quando? L’altro giorno, durante l’ora di Storia…

    − Ho la memoria corta. Fammi pensare un attimo…

    − Perché non mi parli della tua villetta a Fontane Bianche? − dice Alba, bisbigliando.

    Il professore di Storia − un uomo dall’aspetto contadino, tozzo, basso, grassoccio, con un paio di occhiali con la montatura nera come la pece sulla punta del naso aquilino − scorre con gli occhi i nominativi degli alunni per poi richiudere il registro.

    − Come sapete − esclama a un tratto, scuotendo la classe dal torpore mattutino − questo è l’ultimo anno. Ci sono gli esami, bisogna studiare e per studiare intendo che ogni rigo da me assegnato andrà letto e riletto una, due, tre volte, quanto basta insomma per stamparselo nella memoria.

    Era il rapido discorsetto che ogni giorno, prima di cominciare la lezione, pronunciava a voce ben alta senza mai cambiare un solo vocabolo. − Ora prendete tutti a pagina 25 del primo capitolo, il Congresso di Vienna. Come sapete, dopo l’abdicazione di Napoleone, nel 6 aprile 1814 la diplomazia si trova di fronte alla necessità di elaborare la nuova carta politica dell’Europa, cercando di comporre i contrasti che immediatamente insorsero tra i vincitori…

    Bruno si accarezza la folta capigliatura riccioluta. − È vicinissima al mare…

    − Vicina quanto? – s’intromette Carlo Piras.

    − La stessa distanza che c’è fra quest’aula e i cessi − sibila Bruno, stizzito. − Non è tanto grande − riprende − ma capirai, così vicina al mare dove la trovi? Comunque tre camere ci sono e tanto basta, aggiungendo l’altra camera, del tutto indipendente, nella piccola rimessa costruita accanto all’abitato principale.

    − Un garage, insomma.

    Il professore continua a parlare, infischiandosene del vocio sommesso che proviene dagli ultimi banchi. − … parteciparono Lord Castlereagh per la Gran Bretagna, il principe di Metternich per l’Austria, lo stesso zar Alessandro I e il conte di Nesselrode per la Russia, il principe von Hardenberg e il barone von Humboldt per la Prussia. E non dobbiamo scordare il plenipotenziario di Luigi XVIII, il Talleyrand, abile diplomatico francese, già ministro di Napoleone, che riuscì a far mantenere alla Francia un ruolo di grande potenza…

    − Non è un garage − corregge Bruno. − Non serve per conservare l’automobile.

    − L’hai chiamata rimessa − insiste Carlo.

    − Monolocale annesso ad appartamento vero e proprio. Ti suona meglio così? − dice Bruno, alzando un po’ troppo il tono della voce.

    Il professore s’interrompe. − Ehi, un po’ di silenzio!

    − Sì − dissi. − Ora ricordo. Tre camere, anzi, quattro.

    − Bene. Giulio e Alba pretenderanno un po’ d’intimità: una camera a loro. Erica e il suo accompagnatore vorranno la stessa cosa e io li accontento: una camera dove potersi divertire in due e non più di due. Nelle camere rimanenti, io, tu e gli altri. Allora, vieni?

    − Lasciami pensare… Giulio e Alba…

    − Se ti fa comodo, puoi anche fingere che non ci siano. Lo sai benissimo perché vengono.

    − Certo: genitori asfissianti e voglia l’un dell’altro. Bini ed Erica sono entrambi di un altro pianeta, Nanni… al solo pensiero di dormire assieme nella stessa stanza ho i brividi. Dario è un complessato, pieno di problemi peraltro inesistenti, mai ben disposto allo scherzo, non è l’ideale per divertirsi. Monica mi è indifferente. Però Mauro è un’incognita.

    − Con lui è tutto a posto, garantisco io.

    − Con i tuoi genitori come la metti?

    − Carlo caro! − esclamò con una punta di compassione. − Perché non fai scorrere quel tuo cervelletto su binari nuovi e funzionanti? Gesù, tu li conosci i miei genitori. Pensi che potrei trascorrere tre giorni nella villetta, se loro non fossero a centinaia e centinaia di chilometri più a nord? Domani partiranno, caro, e resteranno fuori per un bel pezzo.

    − Come puoi, a quasi vent’anni, avere ancora certi problemi?

    Bofonchiò qualcosa tra sé. − Be', pensaci. Come hai già intuito la compagnia che ho rastrellato non è tra le migliori… mi rimani solo tu − concluse, autocommiserandosi. Recitava, era evidente.

    Riattaccò e io rimasi davanti al televisore spento, nel soggiorno, in assoluto silenzio. Fingevo − con me stesso − di stare lì a pormi dubbi sulla convenienza di quella proposta, che in verità avevo già accettato prima ancora che Bruno mi telefonasse, prima ancora che lui sapesse della partenza dei genitori, prima ancora che parlassimo della sua villetta, interrompendo il professore di Storia.

    Non so l’attimo esatto in cui ebbi il primo presentimento. O forse lo so: fu prima di tutto. Quando ne ebbi consapevolezza, cercai di allontanarlo, poiché m’infastidiva e perché, ad ascoltarlo, non avrei seguito la mia linea del destino e non sarei giunto sulla cima del Grande Monte… e non ne sarei ricascato così violentemente.

    Bello.

    Non esisteva altro aggettivo che meglio di questo potesse definire l’aspetto esteriore di Bruno Bruni. Davanti allo specchio, quella sera, se lo ripeté più volte, guardando con ammirazione il proprio corpo riflesso. Credeva che la parte migliore di sé fosse lo sguardo, acuto, vivo, acceso. E da qualsiasi lato spostasse gli occhi, in qualunque direzione li facesse roteare e da qualunque prospettiva se li ammirasse, il risultato era sempre estasiante. Quando tentava di sedurre una ragazza, la sua arma era lo sguardo, che spingeva e mutava secondo la convenienza. Con gli anni aveva affinato tale arma micidiale e lo specchio era stato il suo istruttore, l’unico d’altronde che fosse in grado di impartire lezioni sull’Arte Suprema dello Sguardo. E ogni qualvolta entrava in bagno, dedicava qualche secondo a esercitazioni, non affidate al caso e all’improvvisazione ma programmate con esattezza e disciplina.

    Quella sera, dopo aver telefonato a Carlo Piras, fece la doccia, una lunga e accurata doccia calda. Quando ebbe finito, si asciugò e rimase nudo davanti al Precettore: appannato, umido, non era in serata e non poteva rendere al meglio gli sforzi facciali di Bruno, che ugualmente non rinunciò ad ammirarsi (non poteva rinunciare, non quando era nudo, non quando poteva raggiungere la Sicurezza Estrema Del Bello). Raccolse con cura il vapore depositatosi sopra il vetro, servendosi di un asciugamano, non quello usato per il corpo ma un altro pulito.

    Bene, si disse, ora va meglio.

    E si accorse che la lieve sfocatura dello specchio appannato non faceva altro che migliorare la sua struttura esterna. Il Supremo era lì, lo fronteggiava, e Bruno cercò, per qualche attimo, di raggiungere la vetta estrema del Sommo. Alzò l’avambraccio sinistro verso il tetto, mantenendo orizzontale il braccio. Tese i muscoli al massimo e il risultato ottenuto dall’innalzamento muscolare fu davvero eccellente. Ripeté l’operazione con il braccio maestro. Bellezza, prestanza fisica… in un uomo sono sinonimi. Si accorse di avere… sì, dei peli, tutt’intorno alla bocca, soprattutto sotto il naso. Aprì il cassettino del mobile accanto al lavabo e prese un rasoio Invicta del padre. Notò anche la presenza di una bomboletta di schiuma da barba. (Ebbe una fuggevole visione di sé stesso, poco più che undicenne, alle prese con una bomboletta simile durante una festa di Carnevale). La prese, schiacciò l’erogatore e un fiotto di (panna montata?) schiuma inondò la sua mano, che passò dove i peli erano più densi. Le due lamette del rasoio cominciarono a insinuarsi tra le colline biancastre e a falciare peli. Quando lo spazio tra le due lame fu riempito di schiuma, Bruno intinse quel piccolo ma delizioso oggetto nel flusso d’acqua corrente fino a quando non tornò al suo aspetto originario. Finita che ebbe la sua rasatura, si ammirò le labbra (Così carnose, sensuali… aveva detto la sorella maggiore, che di labbra maschili se ne intendeva da quando era alta appena un metro e quaranta). Sghignazzò. Con qualche sforzo bloccò l’ilarità, provocata da un pensiero che già sembrava remoto, e si affacciò sul corridoio. La sala da pranzo era poco più in là e la luce era accesa, segno inequivocabile che i vecchi stavano giocando a carte.

    Cataplasmi, pensò, squallidi e inerti cataplasmi.

    Per un attimo immaginò quei due a zonzo per una stazione del Nord aspettando la partenza del treno.

    Non poté trattenere un’altra risata.

    Fino a qualche anno prima si era vergognato dei suoi genitori. Suo padre era un sempliciotto allevato nel contado dell’entroterra. Un padre lavoratore, ma che non tentava neanche di acquisire un grammo di cultura spicciola. E poi era testardo e credeva di essere il comandante supremo: non si faceva nulla se non lo diceva lui. Il che non avveniva spesso. Sua madre era casalinga; Bruno non l’aveva mai presentata agli amici e quando riceveva qualcuno faceva in modo che ciò avvenisse in un suo raro momento di assenza. Era brutta, molto brutta. Ci aveva messo un bel po’ per capirlo, il buon Bruno. Invecchiata, la si poteva definire quasi mostruosa. Aveva un buon cuore, ma non sapeva parlare decentemente. La Bestia della favola almeno era un fine parlatore.

    Quello che accomunava quella coppia unita da un vincolo più che ventennale era l’assoluta immobilità, in ogni senso.

    Cataplasmi, squallidi e inerti cataplasmi.

    Era occorsa la morte di una cugina di lei per metterli su un treno. Un siffatto avvenimento non accadeva dal viaggio di nozze.

    Bruno aveva pensato bene di approfittarne. Il mare, i compagni, la libertà. Avesse avuto più soldi per la benzina, avrebbe organizzato qualcosa on the road, pur sapendo che solo il povero vecchio Mauro poteva vagliare l’ipotesi di mettersi in strada per un’abbuffata di chilometri.

    Il mare, i compagni, la libertà. E fuori i vecchi, via, lontano lontano.

    Uscì dal bagno e il suo corpo dovette sopportare la differenza di temperatura. Quando si decideranno a mettere i riscaldamenti? si chiese. Si diresse verso la propria camera e, con la coda dell’occhio, li vide mentre, guarda un po’, giocavano a ramino. E se glielo dicessi? Se gli dicessi che appena partono io vado a mettere a soqquadro la villetta di Fontane Bianche? Si diede dello stupido. Probabilmente avrebbero nascoste le chiavi, tutte quelle esistenti. O al massimo le avrebbero lasciate a quel rognoso dell’Ambrogio, il vicino di casa, un armadio di centoventi chili che aveva preso Bruno in particolare antipatia. Ma io sono più forte di lui. Si allungò per terra, accanto al suo letto, e fece dieci flessioni su un braccio solo. Alla decima crollò di schianto e riprese a ridere.

    La bamba cominciava a fare il suo effetto…

    Non era la prima volta che Nanni alzava la voce con il fratello minore Elio.

    − Dannato figlio di una cagna − così il fratellone concluse il suo rimprovero.

    − Che poi siamo entrambi figli della stessa donna. E sai dov’è ora quella donna?

    Nanni lo sapeva.

    Dannato fratello.

    Piaga perpetua.

    − Vattene! − urlò Nanni.

    Elio girò sui tacchi e uscì sbattendo la porta.

    E nel silenzio Nanni disse: − Dannato figlio di mia madre.

    − Andiamo a casa? − chiese Giulio, visibilmente preoccupato.

    − Aspettiamo ancora un

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