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Fiori di Primavera
Fiori di Primavera
Fiori di Primavera
E-book490 pagine8 ore

Fiori di Primavera

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Info su questo ebook

Paul è in barca, sono tanti anni ormai che, insieme a Harry, porta i turisti in giro per i porti della Grecia, tanti che il mare è la sua nuova casa ma anche la sua nuova prigione. Questa volta, però, insieme a lui c’è Chiara, e quel sentore di morte che gli inacidisce la bocca non vuole abbandonarlo. Ha dei poteri strani, Paul, poteri che lo avvertono del pericolo, solo che non è mai riuscito a farne davvero qualcosa, a parte salvare Chiara e ottenere in cambio il suo eterno rancore. È intorno a lei che ancora e sempre gira la vita di Paul, in un continuo avvicinarsi per allontanarsi ancora, con quel costante sapore che gli infesta il palato.

Ilan Lime collabora da oltre trent’anni con diverse prestigiose riviste nautiche e motoristiche in qualità di collaudatore, giornalista e responsabile tecnico. È autore di oltre un migliaio di articoli di critica e divulgazione tecnica.
Specializzato in yacht design, fluidodinamica numerica e ingegnerizzazione di prodotti compositi, lavora da quasi trent’anni nell’ambito del design e nella definizione di oggetti di natura complessa, dal disegno alla realizzazione esecutiva. Con il suo studio di progettazione, ha costruito e collaborato a costruire numerose imbarcazioni a vela e a motore, collezionando premi prestigiosi per il design e l’ingegnerizzazione, compresa la menzione d’onore al premio Compasso d’Oro per la prima imbarcazione elettrica da lavoro.
Ha navigato su yacht a vela di ogni tipo e dimensione, ha coperto il ruolo di timoniere, randista, stratega e comandante in competizioni costiere e oceaniche, dai monoscafi ai grandi multiscafi oceanici. Ha vissuto il mare in tutti i suoi risvolti, ne ha amato le meraviglie e ha dovuto lottare per sopravvivere alla sua furia.
Alimenta la passione per il volo in lunghe giornate a bordo del suo aliante, cavalcando termiche e correnti dinamiche sulle cime più alte delle montagne dell’arco alpino.
Ha iniziato a lavorare sin da giovane, coprendo ruoli i più vari, dall’operaio in segheria, all’ingegnere di produzione, al direttore di reparti di ricerca e sviluppo fino a sviluppare sistemi complessi di automazione per la coltivazione verticale. Ha svolto il ruolo di collaudatore per conto di aziende di pneumatici guidando nei circuiti di tutto il mondo prima motociclette e poi vetture sportive, collezionando decine di migliaia di chilometri, diverse fratture e ricoveri in ospedale.
LinguaItaliano
Data di uscita12 ott 2023
ISBN9788830691032
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    Anteprima del libro

    Fiori di Primavera - Ilan Lime

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di Lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    A Costanza,

    che lei davvero profuma di fiori di primavera,

    sa fermare il tempo quel tanto che basta a togliere il fiato

    ed è più bella ogni volta che la guardo

    1 – Ulisse

    Il baratro è la sua fredda dimora.

    Un baratro profondo mille chilometri, buio come le notti nuvolose d’inverno e circondato da un’iride azzurra, come il cielo limpido di primavera: un confine netto tra l’infinito e lei, fra due grandezze distinte, incommensurabili. Lei, un essere perduto per sempre, un ricordo che è vivo solo nei meandri oscuri di una mente furiosamente corrotta, un ricordo che ogni giorno rinasce fulgido, come fosse reale, tangibile, di carne viva.

    Ecco, di nuovo rimbalzano impazzite quelle immagini di giorni lontani, quando quegli occhi verdi si soffermavano distrattamente sull’orizzonte e dalle sottili labbra prendevano vita parole aliene, ma dolci, che attraversavano in un solo istante l’infinito nulla che la divideva da lui.

    Lui, un uomo unico, perennemente sospeso nel limbo di un mondo impossibile, fingeva di capire. Ma, in realtà, neppure ascoltava. Parole che nel tempo hanno perso ogni significato senza che l’avessero mai avuto, che oggi paiono buone solo a creare nuovi dubbi irritanti e angoscianti, nuovi tremori che, ancora, attraversano le sue meravigliose mani da pianista. Mani che hanno fatto cose terribili.

    Un uomo unico per motivi diversi, non solo per i suoi mille vizi o per la dipendenza dall’eroina.

    Come infinite altre volte, i suoi pensieri si muovono cavalcando vite vissute fino a fermarsi ad un preciso momento, una fotografia in bianco e nero che piano piano prende colore. Qualcosa che è accaduto in un tempo perduto nelle sinuosità della memoria prende vita fino a divenire così nitido da essere surreale. Un caldo torrido, da far fatica a respirare. Ha la nausea. L’aria pare priva di ossigeno e brucia i bronchi ormai irritati dalla polvere sottile che, in quell’inferno, domina ogni cosa. Polvere, polvere ovunque. L’effetto Morgana prova a confonderlo mentre, disteso immobile da ore insieme al suo Remington, aspetta. Aspetta circondato da mille suoni soffusi, rumori quasi impercettibili, ma che alle sue orecchie suonano violenti, fastidiosi: i suoni della natura, delle sabbie mosse dal vento, del tamburellare di piccoli insetti che si muovono goffi alla ricerca di cibo o che fuggono da famelici predatori.

    Ogni cosa pare essere cominciata da lì, l’eroina e tutto quanto.

    Un occhio è volto all’orizzonte, attento e vigile, che osserva il mondo da lontano, con distacco, attraverso potenti focali antiriflesso. L’altro è spento, vuoto: è l’occhio in cui si riversano ricordi passati e futuri, l’occhio che lo aiuta a vedere più lontano di quanto possa fare con quel mirino telescopico fissato al suo prezioso fucile. È l’occhio triste, di una tristezza infinita, quello che accoglie tutti i peccati dell’universo. E in quel piccolo globo di umida carne viva, i pensieri corrono a non finire, pensieri che lo dilettano e tormentano allo stesso tempo, pensieri che non può scacciare in alcun modo. Pensieri che provano a distrarlo da quell’impegno che ha preso con l’universo, ma che la sua anima non è mai stata in grado di sopportare: uccidere.

    È dai tempi del Darfour che convive con universi paralleli, che si scontrano in manifestazioni curiose, irreali, sicuramente già vissute, ma irrimediabilmente disperse in quel calderone di ricordi frammentati che tiene chiusi in una mente tormentata dall’angoscia. Lui è semplicemente parte di un sogno, anche se comincia a prendere coscienza di essere morto da molto, molto tempo. Eppure, ancora, respira.

    Ogni cosa gli galleggia intorno senza toccarlo, lo sfiora e poi se ne va, e lui osserva immobile, pacioso e silente. Rassegnato. Guarda il mondo, attonito e intorpidito da sensi atrofizzati e da un incedere impetuoso del tempo. Secondi, minuti, ore, giorni, mesi e anni. E poi decenni. E nulla sembra cambiare.

    Ricorda ancora quei vorticosi e disordinati pensieri che impegnavano la sua mente, ricorda con nostalgia i periodi in cui i bagliori intensi della speranza potevano illuminare la sua anima riuscendo a farla brillare. Eppure, già allora, provava un odio intenso per il buio e la luce, il freddo e il caldo e le cose amare e quelle troppo dolci. Odiava una moltitudine di cose.

    Poi, sotto la spinta di quei reconditi pensieri, sorride, e lo fa piano per non rovinare la pelle delicata che riveste il suo volto stanco.

    Ecco, di nuovo, ricorda. C’è stata un’epoca in cui è stato persino capace di amare, che pare così lontana…

    Lei stava al sole ore e ore, immobile come un cadavere, la sua pelle chiara non voleva saperne di scurirsi e lui la guardava divertito, mentre quei meravigliosi capelli corvini si mescolavano alla sabbia e il suo corpo cuoceva lentamente, inesorabilmente, ma senza fretta.

    Lei fermava il tempo.

    Profumi e sapori nuovi, insieme ad altri antichi, s’insinuavano prepotenti nell’anima assopita e inerme di quell’uomo. Percezioni confuse d’interfacce imperfette: lui e l’universo. E poi lei.

    Già allora le sinapsi di quel cervello complesso sembravano fare sporadicamente cilecca, ma, in quel caos di pensieri ed emozioni, la cosa pareva irrilevante. Stranamente irrilevante. Profumi nuovi e visioni uniche si alternavano ai suoi incubi migliori con un’intensità e una frequenza sempre maggiore.

    Avrebbe voluto essere come lei, forte e implacabile, un guerriero anche in tempo di pace. Invece, piacevolmente insensibile, dopo averla persa si è affidato al trascorrere dei giorni e dei mesi che, così dicono in molti, livella ogni spigolo, ogni acuto. L’ottusità è come l’eroina, rende le cose più semplici e chiare.

    Niente più sfumature.

    Il vento, carico di gocce d’acqua che lo ricoprono di sottili strati di bianco sale, gli colpisce le guance. La pelle si tende sugli zigomi come la tela sulle centine delle ali dei vecchi biplani. Qualche sbuffo d’acqua lo raggiunge senza trovare grandi ostacoli e si abbatte sulla cerata cercando di riportarlo in mare con sé. Alcuni rivoli entrano dal colletto della giacca passando prima sotto i suoi preziosi Ray Ban, lenti scure che non bastano a tener lontani il vento, il sale e la luce del sole da quegli occhi ormai irritati. La maglietta di cotone riesce misteriosamente a tenergli caldo nonostante sia bagnata fradicia, ma sono le mani il suo punto debole. Meravigliose e delicate mani da pianista dalle lunghe dita affusolate. Fatica a sentire le dita, strette con forza alla ruota del timone e all’acciaio frastagliato della battagliola da quasi sette ore.

    Sono due giorni che quel veliero risale il vento, e la bolina non è per niente un’andatura comoda. La barca sbanda sottovento, l’acqua sfiora la tuga. Qualche volta uno dei cavalloni riesce a farla inclinare ancora di più, così, scendendo nel cavo, la prua s’infila sotto l’onda successiva che attraversa tutta la coperta prima di picchiare contro le sue gambe molli. Il pozzetto rimane per un istante pieno d’acqua, come una grande vasca da bagno. Si tiene forte vincendo la tentazione di lasciarsi andare per poi provare a nuotare come quand’era bambino, quando suo padre lo portava in piscina sostenendolo con quelle sue rassicuranti grandi mani forti.

    Di bolina rimane sotto vento, vicino al passavanti sommerso dall’acqua, e lo fa solo per guardare il piano di coperta che pare lì lì per cadergli addosso, sospeso in un equilibrio precario. Sembra che la barca voglia affondare sotto l’impeto del vento, ma poi, all’ultimo, ci ripensa.

    Ascolta i rari scricchiolii della vetroresina, le sartie che vibrano e la drizza dello spinnaker che rintocca con violenza sull’albero. Poi osserva le vele gonfie e tese e ode per ore l’ululato dell’aria che sfugge loro facendone vibrare la balumina. Le scotte del fiocco e della randa si lamentano sui grossi winch, l’albero si scuote e pompa rabbiosamente sulle onde mentre le sartie si danno incessantemente da fare per tenerlo su.

    Trentacinque nodi di vento e onde di oltre tre metri non affievoliscono la spavalderia con cui quella barca da quaranta tonnellate è abituata a muoversi. Come un treno, non scavalca gli ostacoli, ma li sfonda, alza dai suoi fianchi muri d’acqua che sommergono la base di quel coriaceo fiocco teso come la pelle di un tamburo. Forze mostruose imbrigliate in equilibri apparentemente precari.

    Perso in sentieri lontani, dedica un pensiero a Harry, che intanto dorme. Non si sa come possa fare anche solo a chiudere un occhio con tutto quel trambusto. Harry è un uomo con il quale è cresciuto, coltivando gli stessi interessi e forse anche gli stessi sogni; ciò che li tiene uniti è il legame dei vecchi ricordi, belli e brutti. Harry è un buon capitano, che ha una presenza da lupo di mare e sa infondere sicurezza all’equipaggio, anche quando il mare fa paura. A soffrire la mancanza della terraferma, invece, è lei, Chiara, che nelle ultime diciotto ore ha vomitato tante di quelle volte da perderne il conto. Le è stato detto di stare fuori a timonare un po’, che le sarebbe passato. Ma, in certi momenti, tutti i consigli sembrano stupidi almeno quanto chi te li dà.

    L’equipaggio stremato si è rifugiato sottocoperta lasciandolo solo. Chiara, però, segue una sua faticosa routine salendo di tanto in tanto: sbuca dal tambuccio e si butta sulla battagliola a vomitare. Si dà la pena di farlo sottovento. Ogni volta che finisce di rantolare, lo guarda senza vederlo, gli occhi cerchiati di blu, vuoti per la sofferenza e disperati per ciò che ancora l’attende. Carponi, raggiunge di nuovo il tambuccio e sparisce. Chiara, del resto, è l’unica che viene a trovarlo, forse solo per il fatto di essere legata a lui da un da un filo che, seppur delicato, sembra non rompersi mai.

    Harry ha il dono di piacere alla gente. Lui, invece, si ritrova inevitabilmente solo nel pozzetto a fissare il mare, i tramonti, le albe e le stelle, lontano da ogni sciocco problema che troppo spesso nasce fra strette e anguste stanze, che poco o nulla concedono all’insofferenza e all’intimità.

    È solo.

    Dopotutto, si è circondato da un vuoto invalicabile che incute un certo timore: il suo sguardo distratto è senza vita, spento. È solo.

    – Ehi, Paul, sei nella stessa posizione di quando sono sceso… – Ecco la voce di Harry che esce dal tambuccio e lo guarda divertito. Paul, quel nome sembra appartenere ad un’altra vita, quando era ancora un essere umano, prima che il suo sguardo perdesse luminosità, prima che la sua bellezza magnetica si trasformasse in un sinistro potere incantatore.

    Paul accenna un sorriso, solo un piccolo moto delle labbra, ma tanto prezioso da illuminare l’universo anche se per un solo tiepido istante. Harry si sveglia apposta per vedere il sole nascondersi nella foschia dell’orizzonte. Il tramonto dipinge ogni forma lontana di un rosso striato da infinite sfumature. Un istante magico, un regalo prezioso dal mondo dei sogni. Harry scruta il cielo, le vele, poi il mare e si siede accanto a Paul, con un movimento leggero.

    – Dormono – dice Harry.

    Dormono. Guarda Paul che, per un solo istante, sorride; sorride di un sorriso stanco, quasi dovesse sopportare il peso di un’eternità fatiscente, inutile. Solo allora la pelle del suo volto si rilassa sotto il velo di sale che la riveste come una maschera e, d’incanto, diviene umano; una mutazione rara, ma che lascia intravedere una tristezza infinita da cui persino le sue ombre fuggono spaventate.

    – Allora? – chiede Paul.

    – Un casino – dice Harry.

    Chiara sta male, il resto dell’equipaggio litiga oppure dorme in continuazione e, quando si sveglia, si annoia. C’è chi si lamenta di tutto e di tutti, l’unica certezza è che nessuno pare divertirsi. E questo, curiosamente, è l’aspetto che più mette a proprio agio Paul.

    Harry sta seduto sulla panca sottovento e ogni tanto tossisce. Spiega a Paul che si devono fermare ad Ios. E lo fa con pazienza, una grande pazienza, come se avesse a che fare con un bambino capriccioso e testardo. Eppure Paul non si mostra indispettito, sta zitto, immobile, e le sue ombre lo assistono in quel niente che sta facendo. Poi, quasi fosse un movimento venuto dal nulla, fa un cenno d’assenso scrutando il fiocco, anche se non ce n’è bisogno.

    Ios, del resto, se non fosse per il gran casino che la tormenta, sarebbe solo un’altra delle fottutissime isole di quell’Egeo infinito. Frequentata da ricchi ragazzi stranieri, affollata di discoteche, locali e negozi. La notte è molto più rumorosa del giorno. Atti di vandalismo e delinquenza cominciano con l’arrivo dei turisti e finiscono con la loro dipartita. Chissà cosa spinge le persone ad andare così lontano, quando tutto quello che cercano sta già a casa loro.

    Il vento sta rinforzando e le prime stelle compaiono timide ad Est. Paul timona in piedi con le mani ben salde alla grande ruota, la barca è diventata troppo orziera e sa che dovrebbe lascare un po’ la randa. Con un piede puntato alla parete del pozzetto guarda avanti. Forse, per un istante che è lungo un’eternità, è Ulisse. Sorride a sé stesso e le sue ombre lo osservano incuriosite.

    Qualcosa cade sottocoperta, la barca sbanda troppo e bisogna ridurre le vele, ma lui è stanco e di indole pigra. Eppure va con la prua al vento lasciando portare leggermente il fiocco. Harry lasca un po’ la scotta di randa, molla la drizza ammainando la vela fino ad incocciare la bugna dei terzaroli, cazza la borosa poi la drizza della randa. Mentre tira il boma fino quasi a centro barca fa un cenno col capo a Paul, e lui poggia di nuovo, leggermente. Lentamente, ma senza esitazione, lo scafo si adagia sul fianco e accelera lasciando dietro a sé una lunga e alta scia che si gonfia di schiuma bianca. Un brivido intenso corre veloce lungo la schiena di Paul, che accosta le palpebre per catturare ogni sfumatura di quella sensazione intensa, e lo fa per ricordarla bene, casomai non accadesse più. È tutta lì la lungimiranza di Paul.

    Harry riduce e mette a segno il fiocco e la barca va da sola, senza pesare sul timone. La luna piena è sorta. Illumina le creste delle onde come un nuovo sole: sarà una lunga nottata. Harry aggancia il moschettone della cintura di sicurezza al paterazzo e Paul stacca il suo dalle life-line lasciandogli il timone, guarda il cielo, poi va nel pozzetto centrale e scende sottocoperta. E un senso di nausea pervade il suo corpo stanco.

    Paul è un uomo solo, di una solitudine senza tempo, le sue ombre lo accompagnano incerte e lui, per ripicca, le ignora. Si stende nel quadrato perché a prua, nella sua cabina, il movimento della barca si fa sentire con maggior violenza e ha il timore di trovarsi a emulare la situazione di Chiara. Si addormenta spiando le stelle dall’oblò, con tanti sogni strani che fanno a gara per impadronirsi del suo sonno. Qualcuno ci riesce, lo cattura per portarlo via con sé.

    Lo sveglia una figura smilza, che gli pare ignota; a Paul secca profondamente non riuscire a ricordare i nomi delle persone dell’equipaggio, ma non fa nulla perché questo non accada. Guarda quel ragazzo faticando a metterlo a fuoco fra la nebbia di pensieri e di occhi socchiusi dentro i quali corrono insieme sequenze di immagini reali e oniriche. Lui, solo una delle tante anime grigie che circondano l’egocentrica esistenza di Paul, dice che ognuno deve dormire nella sua cabina e non nel quadrato. Paul chiede scusa e si mette a sedere mentre il piacevole torpore che culla il suo corpo si allontana piano piano. La barca sbanda dallo stesso lato. Guarda l’orologio e scopre che ha dormito quasi quattro ore. La figura grigia dà uno spintone a Paul chiedendogli se ha capito, lui fa cenno di sì pur non avendo ascoltato nulla. A Paul non piace essere toccato, non gli piace neppure il tono di quel ragazzo, così come non gli piace quello che ha sempre da dirgli. A Paul basterebbe poco impegno per levarselo dalle scatole, eppure decide di non farlo e rimane immobile mentre quella sagoma dai contorni che piano piano si stanno delineando lo manda ripetutamente a quel paese.

    Paul sale in coperta a raggiungere Harry, gli si siede accanto e gli racconta di aver fatto incazzare uno dell’equipaggio: lui lo guarda e scoppia a ridere, tossisce e ride. Harry, quando ride, tossisce. Lo fa da una vita.

    Il mare si è calmato, ma il vento rimane teso. La luna brilla talmente forte che tutte le cose riflettono la sua luce azzurra e le stelle faticano a vedersi. La barca cammina a dieci nodi, il plancton verde fluorescente punteggia i fianchi dove il mare si scontra con le murate. Qualche sbuffo d’acqua arriva sulla coperta che, per un solo istante, brilla. Qualcuno di quei piccoli animaletti resta incastrato nel teak a morire e a Paul dispiace, gli provoca un disagio intenso da cui fatica a liberarsi. Eppure non fa nulla, rimane immobile a guardare. Rassegnato. La vita corre, e lui la guarda con distacco, come se non ne facesse parte.

    Alcuni pesci saltano fuori attratti dalle luci di via. Qualcuno è grosso e, quando ricade in mare, fa un rumore più forte degli altri. Paul riprende il timone, un momento perché la barca ritorni sua, uno sguardo alla bussola illuminata di verde, la sua anima pare voler sorridere, ma poi si ferma, rassegnata ad un nuovo e crudele presagio di morte.

    2 – Ios

    Lasciando Santorini sulla sinistra, il veliero si tiene lontano dalle brulle terre vulcaniche. Su un mare nero come petrolio, Paul è solo, lui e le sue ombre si nascondono fra le tenebre. Una volta, forse mille anni prima, era voluto passare sottocosta a Paros per accorciare la rotta e una raffica di vento aveva mosso l’anemometro da dodici a quasi trenta nodi in un istante. La barca era partita in una lunga straorzata, la deriva era uscita dall’acqua e lo scafo, con la linea di galleggiamento nel pozzetto, aveva preso a correre ad una velocità folle verso il vento. Si era spaventato, e non gli è mai piaciuto spaventarsi. Per quel motivo c’è più di un miglio di distanza tra la loro barca e la costa, una scelta decisamente conservativa; del resto, i suoi sono poteri strani, curiose capacità che a volte lo abbandonano senza preavviso. Non ha paura di morire, a volte ha paura e basta, una paura forte, intensa, dall’odore acre che pervade ogni pensiero e ogni meandro della sua mente.

    I bagliori della città di Thira sorgono timidi dalle alte creste nere e nient’altro brilla su Santorini. Le coste sassose cadono a picco nel mare e le loro ombre senza sfumature, più scure del buio della notte, sono immense, opprimenti. Spettri di storie antiche si nascondono in quelle acque profonde, spettri che nell’oscurità ritornano in vita, carichi di visioni ancestrali che il trascorrere dei secoli ha lasciato incise nel profondo dell’anima umana. D’incanto, il tempo perde autorità come se non fosse di alcuna importanza e Paul, spettatore recente, assiste immobile. Chissà quali e quanti mostri si nascondono fra quegli abissi.

    Una nausea infinita comincia a risalire dal suo stomaco. Sale senza freni.

    Cinquanta miglia ad Ios. Quasi novantatré chilometri, circa otto ore. I pesci seguono instancabilmente la barca, la luna è alta, il vento è teso e l’acqua batte senza tregua il suo ritmo sullo scafo. I rumori del mare sono suoni famigliari, a cui Paul è abituato da mille anni e, nonostante tutto, un po’ ne è inquietato. Nel suo animo corrotto si inseguono strascichi di apprensione e disagio: le sue ombre, incuriosite, osservano silenziose come poche altre volte accade. I rumori del mare sono suoni famigliari che cullano attraverso il tempo, verso altri mille anni di mare. Paul ha bisogno di conforto, del conforto dell’eroina.

    Al sorgere del sole compare il contorno della costa di Ios, forse il secolo scorso qualcuno dall’albero di maestra avrebbe gridato per l’avvistamento della terra. Paul, invece, ne è un po’ scocciato.

    La lasciano sulla destra.

    Fra le mille cose di cui Paul sente un’estrema mancanza, c’è anche una Coca Cola. Quel profumo dolciastro e l’esplosione di migliaia di bollicine nella bocca sono stati per lui un violento richiamo alla vita, il sogno ricorrente nei suoi mille appostamenti, il premio per essere riuscito a portare di nuovo a casa la pelle. Eppure, nonostante tutto, qualcuno riesce ancora a prendersi pericolosamente gioco di lui. Lui, un uomo unico, ormai privo di una coscienza sufficientemente forte da poterlo frenare, un uomo che può fare cose terribili con una semplicità disarmante. Sorride al pensiero di quel pazzo che è riuscito in poco tempo a far sparire tutte le sue lattine di Coca Cola accuratamente nascoste sotto al paiolo del quadrato.

    I raggi tenui dell’alba sono delicati e troppo timidi perché infondano un po’ di calore. Cede il timone a Harry, va a lavarsi il viso dal sale che ha screpolato le sue labbra delicate e ritorna in pozzetto con pane e marmellata di lamponi. Su di lui, la marmellata di lamponi ha un ascendente fortissimo: odia tutti quei semini che si fermano fra i denti, eppure ne ama il sapore tanto dolce ma tanto delicato.

    Quando Harry scende per cercare sul portolano una rada dove gettare l’ancora in attesa che l’equipaggio si svegli, il vento è sceso a dieci nodi e il mare si è calmato. La barca viaggia a velatura piena già da quattro ore e fila veloce, poco sbandata, senza sollevare neanche uno spruzzo.

    Due delfini la seguono saltando insieme fuori dall’acqua, passano più volte sotto la chiglia riemergendo prima da una parte, poi dall’altra. Paul li osserva affascinato senza quasi respirare. Vorrebbe toccarli, osservarli per giorni interni, condividere i loro pensieri e le loro angosce. Eppure, allo stesso tempo, deve resistere all’istinto profondo di ucciderli. Un istinto che riesce a dominare con orgoglio, ma con cui è costretto a convivere da mille anni. Paul è malato, ma ha imparato a controllare le proprie pulsioni con una certa tenacia. I delfini continuano a giocare senza sosta, poi, così rapidamente come sono arrivati, spariscono. Chissà cos’altro fanno là sotto oltre a trangugiare pesciolini.

    Alle sei e mezza Paul accosta lentamente entrando nella rada dove Harry ha deciso di gettare l’ancora. Poggia, Harry avvolge il genoa, poi Paul orza a mettere la prua nel vento. La barca rallenta fino a fermarsi con la randa che sbatte pigramente: otto metri di fondo, Harry sblocca il salpancora e, rumorosamente, una trentina di metri di catena scivolano in acqua mentre la barca retrocede sotto la spinta costante del vento. Si intraversa leggermente, ma la catena si tende strattonando l’ancora sul fondo. Ammainano la randa e la legano al boma. Paul osserva paziente la sua ombra immobile, un cadavere scuro e oblungo, e un fastidioso sapore amaro infesta la sua bocca secca.

    Un po’ di stanchezza arriva a ricordargli del sonno arretrato che ha da recuperare e allora si stende sulla dura panca del pozzetto, in attesa che l’equipaggio si svegli. Per lui è un lusso quello di potersi coricare e dormire senza l’assillante pensiero di dover risorgere al minimo brusio, al più leggero cambiamento del profumo dell’aria…

    E dorme come un angelo, cullato da quegli incubi che lo accompagnano da mille anni, senza sosta e senza pietà.

    A ridestarlo è il caldo del primo mattino, del sole nuovo che si alza sul mare prima timido, poi irruente ed è amplificato dalla spessa cerata che indossa quasi fosse la sua seconda pelle. Harry dorme.

    Paul si libera dei suoi indumenti pesanti rimanendo in pantaloncini e maglietta a maniche lunghe, si controlla le scottature sulle braccia per constatare una guarigione davvero troppo veloce per essere il solo frutto di un metabolismo normale. Del resto, solo ogni tanto, quei poteri che lo tengono separato dal resto dell’universo sembrano lavorare anche a suo favore. I suoni del mare riempiono delicatamente il silenzio e, di nuovo, Paul si crogiola ad ascoltarli, senza capirci nulla; a lui tutto questo piace più di ogni altra cosa, più della Coca Cola, più della marmellata di lamponi, forse anche più dell’eroina, la sua medicina per l’anima.

    Alle nove si affaccia in quella stessa rada un grande Sangermani, entra a motore e dà fondo. Julie Mother, una goletta di trenta metri varata nel 1978, disegnata da Carlo Sciarrelli. Paul sa quasi tutto di quella barca; ne ha letto sui libri, ma è la prima volta che la vede con i suoi occhi. E ne è affascinato. Come per un incantesimo qualcosa nella sua mente malata si muove con prepotenza, i suoi occhi scintillano di vita e il suo cuore ricomincia a battere con forza; in un istante ritorna bambino, come quando suo padre lo accompagnava lungo le banchine dei porti turistici e con una pazienza infinita cercava di rispondere a tutte le domande astruse che passavano per la testa del figlio. Diventa impaziente, vorrebbe fare qualcosa, ma non sa cosa, vorrebbe condividere con qualcuno la felicità di aver visto realmente il Julie Mother, quasi a conferma che, ogni tanto, il mondo dei sogni non è così distante da quello reale. In un subbuglio totale di emozioni, l’unica cosa che il suo corpo lascia trapelare è un leggero tremito della mano sinistra. Il suo sguardo è fisso sulla goletta, e persino le sue ombre lo deridono sfottendolo senza pietà. Una meravigliosa goletta di legno, bianca con le beautiful line gialle, una barca che nel corso di una traversata atlantica ha saputo percorrere 416 miglia in sole ventiquattro ore. Dolcemente, il suo cuore torna a spegnersi, i suoi occhi a svuotarsi, si alza in piedi a sgranchire le gambe e gli ci vuole un po’ di tempo prima di decidersi a gonfiare il tender con la pompa a pedale. Poi lo cala in acqua, scende sottocoperta a rubare quattro Pilsner Urquel di Harry e, furtivo, rema silenziosamente portando il piccolo gommone al fianco del Sangermani. Come un normale essere umano, saluta il capitano che ricambia sorridendo, lancia una cima che viene fissata ad una grossa galloccia.

    Francesi con una bella barca italiana. Paul alza le quattro Pilsner e chiede se hanno della Coca Cola da scambiare. I tre marinai ridono divertiti e Paul li osserva curioso. Non riesce più a guardare un uomo senza pensare a come potrebbe essere da morto. Gli verrebbe da sorridere se non si rendesse conto di quanto osceno è divenuto il suo mondo.

    Quando ritorna in barca sono le dieci, tutti sono svegli e già assaporano con lo sguardo le sue quattro Coca Cola. La prospettiva di mettere i piedi a terra ha reso la ciurma molto loquace e allegra, persino David saluta sorridendo. Chiara ha riacquistato un po’ di colore sulle guance e le occhiaie blu sono più piccole: non sa che quando scenderà sulla banchina, dopo due giorni e due notti in mare, soffrirà di mal di terra.

    Paul osserva e prende nota di quegli interessanti cambiamenti collettivi d’umore. La natura umana un po’ lo affascina, un po’ lo irrita e un po’ lo intristisce. Trova un certo squallore anche nelle parole di Harry che, dopo aver spiegato il programma della giornata, si ritrova a raccomandare per l’ennesima volta di non gettare troppa carta igienica nel wc, di non dimenticarsi di spegnere le luci, di non sedersi sui cuscini con il costume bagnato, di mettere a posto tutto quello che si usa, di non fare la doccia calda troppo a lungo, di ricordarsi di chiudere le prese a mare quando si parte, di tener chiuso il più possibile il frigorifero, di asciugarsi in pozzetto prima di scendere sottocoperta e molte altre cose che ci si aspetterebbe fossero naturalmente scritte nella mente di un animale sociale di quell’età.

    Tutti quanti vanno a fare il bagno. Uno dietro all’altro, come lemming votati al suicidio di massa, spinti da chissà quale istinto per cui è necessario tuffarsi in mare appena ci si ferma da qualche parte. Hanno appena fatto colazione e l’acqua è fredda. Paul si ritrova sul punto di dire qualcosa a proposito di possibili congestioni, ma riesce a trattenersi e a ricordarsi che dell’equipaggio non gliene frega niente. Quello di riuscire a sbattersene altamente di tutto quello che accade intorno a lui è una specie di dono divino che gli permette di isolarsi da tutto e da tutti fino a divenire piacevolmente insensibile.

    Finito il bagno, uno alla volta risalgono e si sciacquano con la doccia del pozzetto, ma l’acqua dolce si esaurisce in fretta e Christian e Dana rimangono senza arrabbiandosi furiosamente con tutti quelli che li hanno preceduti. Una bella scenata con tanto di spintoni e parolacce, di quelle che sanno imbarazzare per bene chi è costretto ad assistere. Paul pensa al fatto che gli ci vorrebbe davvero poco per aggiungere i loro nomi alla sua lunga e segreta lista. Eppure resta lì, immobile, quasi sospeso nel tempo, a osservare da lontano eventi che non lo riguardano e a cui non riesce ad interessarsi. Si asciugano con la salvietta di Paul perché tanto è già un po’ sporca di sale e perché non vogliono usare le loro: troppo pulite. Paul è impassibile e silenzioso, eppure tutto l’equipaggio sa quanto odi la salsedine, che irrita la sua pelle delicata da neonato. Un affronto che subisce paziente, che un migliaio di anni prima avrebbe avuto conseguenze ben peggiori. Riprende il suo prezioso asciugamano abbandonato fradicio e appallottolato nel pozzetto; lo laverà quando i serbatoi saranno pieni. In definitiva, l’uomo non è affatto un animale sociale come qualche coglione ha scritto.

    Il Sangermani se ne va, elegante anche a vele ammainate.

    Quando sono tutti pronti a ripartire, il sole di mezzogiorno è già caldo, verticale, e le ombre sono piccole e timide. Quelle di Paul lo seguono docili, come raramente è successo. Il vento è sceso a dieci nodi. Paul siede dietro al timone, appoggiato alla battagliola e guarda l’equipaggio prepararsi a drizzare le vele sotto gli ordini di Harry. Non gli dispiace essere portato a spasso, lui è uno spettatore prezioso, silenzioso e poco propenso ad intromettersi. Quando la barca è con la prua al vento, Harry abbassa il regime del motore al minimo e dà l’ordine di issare la randa. Troppo tardi si accorge che Peter ha attaccato alla penna della randa la drizza dello spinnaker. Lentamente Paul si solleva e cammina verso Peter; quando riesce a fermarlo, David ha già cominciato a far forza col winch a piede d’albero. La randa è salita di un metro, la drizza ha scavallato il rinvio in testa d’albero e si è incastrata. David insulta Peter, che, non capendone il motivo, ammutolisce con aria colpevole. Paul mostra a Peter che le due drizze hanno lo stesso colore ed è facile confondersi, tanto che anche David ha avvolto al winch la cima sbagliata. Sa essere gentile Paul, di una gentilezza dolce e leggera, di quelle che riescono a mettere a proprio agio tutte le persone che gli stanno accanto. Eppure, nella sua mente transitano pensieri tanto crudeli da far accapponare la pelle. Con la stessa apparente flemma di sempre Paul sale sul boma, lega un’estremità di una cima alla drizza dello spi e l’altra estremità la fissa alla landa di sinistra. Fa poi un cenno a Harry, che dà motore riprendendo la rotta giusta. Sistemeranno tutto in porto.

    Peter aggancia alla penna la giusta drizza e questa volta fila tutto liscio, senza intoppi. Mentre il capitano continua a dare ordini per le regolazioni da effettuare, Paul si appisola, crogiolandosi al tepore del sole, in attesa dei soliti incubi che, puntuali, arrivano a fargli compagnia.

    Avrebbe bisogno del conforto dell’eternità, magari anche di quello dell’eroina.

    Dopo aver evitato all’ultimo momento un veloce aliscafo giallo e arancione, il grande veliero entra nel piccolo porto di Ios. La manovra d’ormeggio la fanno Harry e Paul da soli, perché ad Anàfi avevano avuto un piccolo incidente. Chiara aveva lanciato la cima ad un signore sulla banchina, ma aveva dimenticato di farla prima passare sotto le draglie. Quando la cima aveva cominciato ad andare in tensione, aveva anche cominciato a schiacciare la battagliola. Paul l’aveva liberata perché non si spaccasse tutto quanto. Christian, che era l’addetto al verricello dell’ancora, era corso a poppa per vedere cosa fosse successo, così non era stato più possibile recuperare l’ancora e rifare la manovra. Nel frattempo, a Valeria era caduta l’altra cima in acqua e Harry non poteva azionare l’elica per il rischio che vi si avvolgesse. La barca era così andata a sbattere contro quella a fianco mentre l’equipaggio litigava. Uno spettacolo pietoso e imbarazzante.

    Non sono moltissime le barche che circolano in quel mare e in quel periodo dell’anno, quindi non è complicato trovare un ormeggio. Non c’è la trappa, perciò bisogna calare l’ancora. Paul va a prua e, quando Harry dà l’ordine, sblocca la catena dando fondo. Guanta e torna a poppa. Appena sono abbastanza vicini, salta sulla banchina con la cima da ormeggio, la gira sulla bitta e risalta sulla barca legando alla galloccia l’altra estremità. Nel frattempo, Harry ha cominciato a dare un po’ di motore a marcia avanti per non sbattere contro il cemento del molo. Paul ritorna a prua e recupera catena col salpancora. Fatto.

    Come da sempre, in una routine che pare essere l’unico legame possibile tra l’anima e il corpo, Paul scende a terra e si siede sulla grossa bitta a guardare la barca. È una cosa che fa da mille anni: ama ascoltare i rumorosi inquilini che si sistemano e che mettono in ordine la coperta, ama non esserne parte. Forse è solo un modo per prenderne le distanze, per dimostrare a sé stesso di non avere nessun legame con quella strana gente, che riesce a stare bene anche fuori da un pozzetto. E, per la verità, sta proprio bene. Paul non è un lupo di mare, piuttosto un rifugiato: lui scappa dalla terraferma, dai ricordi di mille e mille cose che non vorrebbe mai più ricordare. Il mare gli fa paura.

    Paul aspetta. Paziente. Aspetta che scendano tutti. Sente i loro movimenti: cercano i vestiti, le scarpe, si aggiustano i capelli e si fanno belli. Quello che si dicono arriva fino alle sue orecchie attente, che ascoltano, carpiscono e immagazzinano informazioni preziose con una metodologia maniacale, che da anni è insita nel suo modo di fare.

    Poi volge la sua attenzione ai suoni della terraferma, le voci sconosciute, i rumori dei motorini e delle macchine, la musica dei locali, la puzza di pesce e di gas di scarico. Sul fondo della banchina ci sono lattine, pile e un sacco d’altre cose che non riconosce. La civilizzazione ha diverse sfaccettature. La maggior parte delle quali non gli piacciono.

    Ma è quando il suo sguardo vuoto incrocia una grande e antica insegna rossa e bianca della Coca Cola che il suo pensiero corre immediatamente a credere che, forse, Ios non è poi così male come se la ricordava.

    Scendono tutti a terra salutandolo, uno dietro all’altro, quasi in fila indiana. Sanno che dovrà sistemare un po’ di cose con Harry, piccole cose, ma che vanno fatte. Qualcuno gli chiede se ha bisogno di una mano e basta questo a smuovere l’anima malata di Paul: lo sa che è un’offerta finta, ma è gentile e lui li accontenta rifiutando l’aiuto. In barca si impara l’insofferenza, oppure la tolleranza e il confine fra le due cose sembra divenire sempre più grande. Quei ragazzi sono arrivati a bordo come grandi amici e, d’un tratto, non si conoscono più. Paul sorride mentre le sue ombre lo guardano perplesse; cerca di mettere in relazione le proprie azioni con quelle del suo equipaggio, ma non ci riesce. Gli resta ancora una volta da constatare quanto sia difficile abituarsi alla solitudine.

    Alle quattro di pomeriggio il sole è ancora alto. Un po’ di gente comincia ad affollare il porto e il rumore diviene più intenso e confuso. Paul ha caldo. In mare si formano alcune ochette, segno che il vento è ormai rinfrescato; lì, però, non c’è un alito d’aria. Paul ha un estremo bisogno di Coca Cola e si divincola agevolmente dai suoi doveri per andare a cercarla. Camminando per il porto deve fare i conti con il mal di terra, tutto sembra ondeggiare e, quando si ferma, deve appoggiarsi a qualcosa per non perdere l’equilibrio. Pensa a Chiara, chissà se sta ancora vomitando, magari in uno di quei locali snob pieni di gente che la guarda inorridita. Quella ragazza ha sempre avuto un enorme ascendente su Paul: si tiene stretta un pezzo importate del suo cuore, che ha conquistato mille anni prima. Chiara è l’unica persona a cui lui riesca a rivolgere pensieri diversi da quello dell’insofferenza. Entra nel piccolo supermercato con l’insegna della Coca Cola per scoprire che nel grande frigorifero ne è rimasta una sola lattina. La prende insieme ad una birra per Harry, sperando di aver scelto la marca giusta. Un sapore amaro infesta la bocca di Paul e i presagi di un imminente pericolo riaccendono la sua attenzione all’universo. Gli basta poco perché il suo inconscio rimetta in moto quella routine di procedure a cascata che lo accompagnano da ancora prima dei tempi del Darfour. Un francese biondo e alto gli si avvicina sostenendo che quella Coca Cola l’aveva vista prima lui. All’inizio Paul non si volta nemmeno a guardarlo, poi, lentamente ruota il suo corpo a dedicargli uno sguardo distratto e, come unica reazione di interfaccia possibile con l’umanità, fa spallucce fingendo di non capire. Odia le persone, anche se lui

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