Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Lasciando l’Eden
Lasciando l’Eden
Lasciando l’Eden
E-book414 pagine5 ore

Lasciando l’Eden

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Nell’ingannevole percezione giovanile la vita sembra un mare sconfinato. Timori e coraggio si alternano, mentre le esperienze che si succedono rapide formano, segnano, plasmano la personalità. Rimane comunque un regno caotico, tempo di ideali e di sogni, di utopie e speranze, di passioni e di scelte, di storie d’amore intensamente vissute. Si è subito conquistati da una prosa elegante e misurata che narra, descrive, argomenta, diverte: pagine fluidamente aperte sulla realtà sociale e sugli eventi politici che hanno segnato la seconda parte del Novecento. 

Alberto Morgantini è nato a Tolentino. Laureato in Biologia, ha insegnato matematica e scienze nelle scuole medie. Ha frequentato intensamente la montagna dedicandosi all’escursionismo, all’alpinismo, all’arrampicata, allo sci. Filosofia e storia, arte, fotografia e viaggi sono al centro dei suoi interessi.
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2022
ISBN9788830674868
Lasciando l’Eden

Correlato a Lasciando l’Eden

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Lasciando l’Eden

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Lasciando l’Eden - Alberto Morgantini

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (trad. Ginevra Bompiani)

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Se un dio mi dicesse: Vivi e dimentica l’amore

    io non accetterei: la donna è un male così dolce!

    Ovidio

    1

    Anch’io "per molto tempo, mi sono coricato presto la sera"… non perché cedessi al sonno o aspettassi il sospirato bacio dalla mamma, ma per dilatare l’incanto della notte accanto a una donna che mi amasse e sentirne palpitare il petto dalla passione che vi avevo acceso venendone travolto, e poi morire sfibrato dai suoi baci. Da quegli anni lontani e ormai perduti l’enigma dell’esistenza mi ha angustiato, senza che abbia fatto progressi nel vano tentativo di svelarlo: rassegnato soccombo alle stagioni, al mutare dei luoghi, al cadere silente della neve. Temendo impreviste, repentine sconfitte, nutrivo speranze arbitrarie e fallaci; forse erravo in partenza, cullando animosi disegni con l’ostinata fiducia di chi non ha certezze eppur vi crede: a volte ho vagato distaccato e inerte; altre ho ascoltato, giudicato, agito, sebbene il cuore, come sospeso su vergini foreste, ambiguo oscilli tra il bene e il male che gli sono al fianco, col ritmo impresso alle ondeggianti chiome dal vento che instancabile le culla.

    Sono tuttora, nell’intimo, l’innocuo idealista, l’ingenuo, disarmato ribelle che si batte pur sapendo che non è imminente nessuna decisiva palingenesi. Disperando in un futuro amico, ritorno di buon grado al libro spaginato dei ricordi, scorrendo gli ingialliti fogli nell’illusione di poterne estrarre intatti i divini momenti della giovinezza, mescolati ai detriti dell’immane frana che successivamente li ha travolti. Da allora, il fine sedimento di ore sempre uguali ha ricoperto quelle ardite guglie e livellato i luminosi prati, protetti da pareti inaccessibili, sui quali, innamorati, ci amavamo. Di lassù, irreali paesaggi si schiudevano alla nostra errante fantasia, sconfinati orizzonti d’ammalianti promesse che gradualmente la vita ha cancellato, concedendone alcune e assai più negandone, secondo imperscrutabili disegni: ingiusti affronti dovuti al capriccio di un invidioso nume o al modo aleatorio con cui la sorte assegna i suoi favori ambiti? Chiederselo non ha senso, tranne rispondere all’umana esigenza di motivare gli eventi che ci riguardano; abbiamo necessità di credere che il divenire non sia lasciato al caso: beneficiati o danneggiati, vogliamo esserlo da qualcuno, non da qualcosa; un Essere da ringraziare o maledire e al quale addebitare, piuttosto che il merito, la colpa.

    È al primo mattino, quando obliqui raggi toccano le imposte forzandone lo spazio per traboccare nella stanza con un alone netto e persistente, che pensieri appena coscienti indugiano a sondare i segreti forzieri della mente, di gran parte dei quali ho perso la chiave: alcuni semiaperti, ospitano sagome confuse; diversi spalancati, mostrano episodi mai obliati. Figure ritrovate, ombre di cui ho interrotto il lungo sonno confusamente si accalcano, si spingono, premono smaniose; altre, riluttanti o schive, si sottraggono all’abbraccio, come insetti abbagliati dalla luce che fuggono in ogni direzione se solleviamo una pietra o strappiamo la corteccia da un tronco decomposto che li copre. Episodi remoti riaffiorano con esse, colorati dalle emozioni che l’evocare vi insinua riemergendo da insondati abissi. Nulla infatti può essere rivissuto, e nemmeno del tutto cancellato; dei luoghi, dei giorni, degli eventi sul cui filo ci siamo avventurati possiamo ritrovare qualche segno: un viso, un suono, un sorriso, un rimpianto. Brandelli che ansioso ricomponi, elabori e arricchisci inseguendo soltanto un desiderio; schegge che aleggiano in quadri sfumati o in nitidi scatti a fermare superstiti istanti, quasi dispersi relitti, fluttuanti tra onde agitate, investiti nel buio dal raggio di un faro; segni talora lievi come orme di animali furtivi, altri brucianti marchi in grado di ridarci, intatte, le sensazioni già provate allora, suscitando in noi gioia o dolore quasi le percepissimo di nuovo. Una gemma affiorante dal terreno è a volte indizio di un tesoro nascosto: così una sola immagine può richiamarne diverse collegate e ancora sfocate, al pari di coloro che incrociamo in serate nebbiose e distinguiamo a stento. Ma in generale delle ansie, dei piaceri, delle pene, ciò che a distanza di anni la memoria riporta è vero come possono esserlo in Van Gogh i vorticosi cieli notturni mossi da spiraleggianti stelle, i campi di grano ondulati nel volo dei corvi, le contorte chiese supplicanti e vive, le fiamme convulse dei cipressi che il vento fa guizzare e mai non placa.

    Realtà, camuffamento, inganno… arduo spiegarlo, ancor meno chiarirlo a me stesso: sono uno degli innumerevoli esseri attivi per brevi istanti su un ospitale pianeta che continua imperturbabile a girare incurante delle nostre follie; gli astri, che pur deificando abbiamo avvicinato calando nei loro accidentali schemi le figure del mito, sono indifferenti alle nostre insignificanti vicende. Noi umani, che nessun artefice fornito di preveggenza e mosso da provvidente cura avrebbe dotato di tendenze così autodistruttive, siamo il casuale frutto di opzioni evolutive prive di qualsiasi finalismo: un assoluto nulla di fronte a un universo immenso e senza scopo; costretti a una partita che ci vede impotenti pedine, crediamo di vincerla proclamandoci liberi arbitri di una sorte che non possiamo sfuggire: "Ducunt volentem fata, nolentem trahunt". Tentiamo di esorcizzare gli incubi che turbano fragili sogni opponendo a quesiti angosciosi spiegazioni tranquillizzanti; esigendo comunque risposte, legittime o incongrue; cercando un senso nascosto dietro eventi affatto incomprensibili; ipotizzando catene di cause che dovrebbero spiegare il cosmo tramite peregrine analogie coi nostri vissuti; supponendo l’esistenza di divinità – dotate in sommo grado di qualità tra noi tanto carenti, eppur le sole che riusciamo a concepire – che hanno creato, sostengono e conducono verso un’incerta meta questa infelice stirpe, diabolicamente ostacolate da tenebrosi avversari, carichi anch’essi di perversioni e vizi miseramente terreni.

    Gettati ignari in un mondo indifferente o ostile, ne ammiriamo da un lato l’esteriore, selvaggia bellezza e l’apparente armonia, dall’altro ne veniamo scoprendo man mano la competizione incessante e la spietata lotta che costringe e attanaglia i viventi, alle quali tentiamo di sottrarci erigendo strutture sociali che mettano un freno ai perenni contrasti, alle discordie, ai conflitti, all’incombente predominio di chi è più forte, astuto, malvagio. Argini dubbi e deboli all’insopprimibile egoismo della parte sommersa e prevalente dell’animo umano, iceberg vagante del quale l’esigua calotta affiorante fa mostra a volte di buoni sentimenti e nobili virtù. Alternativa al rigetto istintivo e disperato, la fede nelle illudenti promesse di immortalità e postume rese dei conti di cui le religioni sono prodighe: pur di non arrendersi alla presenza storica del Male, prodotto in modo casuale e indifferente dalle dinamiche naturali o inferto in maniera mirata, sistematica, feroce dai nostri simili, ci appelliamo a un Dio onnisciente, onnipotente, ultimo giudice che assegnerà a ciascuno ciò che merita. Narrazioni che le nate a vaneggiar menti mortali hanno creato e creduto per millenni, delineando la visione del mondo, l’assetto sociale e le norme etiche di una Societas Christiana chiusa, cristallizzata, intollerante, resa omogenea da una fede obbligata che schiaccia il dissenso e impone credenze, valori, precetti, condotte. Quel soffocante sistema è caduto, non le angosce esistenziali cui nessuno sfugge né le miserabili condizioni patite da molti per l’ingordigia e l’indifferenza di pochi; e poiché Mors omnia solvit sarà impossibile risarcire le vittime o castigare colpevoli ormai ridotti in polvere: nel bene e nel male ciò che è stato è stato… destino inaccettabile e inquietante al quale ci ribelliamo ma non possiamo sfuggire, accettato soltanto fantasticando punitivi inferni e postumi paradisi.

    Nell’ingannevole percezione giovanile la vita sembra un mare sconfinato, dalla cui amena sponda ci immergiamo impazienti di raggiungere l’altra, ignota e celata allo sguardo; e nondimeno avanzando ne scopriamo le coste frastagliate e impervie, il cielo desolato e la perenne nebbia che la copre: del gracile arco di cui ho salito, sospinto da inesauste energie, l’iniziale pendio, poi il tratto mediano con generoso impegno, sto percorrendo l’accidentata china che porta, inesorabile, al declino. Con disappunto noto che l’orizzonte, su cui proietto ancora vani aneliti, si allontana più in fretta di quanto mi illuda avvicinarlo; scopro di non poter fare quello che, allora possibile, rimandai stoltamente al domani e che adesso vorrei; davanti a me un crepuscolo che lietamente scambierei per l’alba di un’esistenza nuova, consolante credenza cui s’indulge per rimuovere ciò che temiamo: la fine ineluttabile del nostro labile, momentaneo Io. Spesso nei miei viaggi, visitando musei e gallerie, ho ammirato ritratti di donne un tempo adorate, amate, celebrate per la loro leggendaria avvenenza. Svanite anch’esse: soli, immutabili, gli atomi che ne hanno plasmato un dì la bellezza continuano a fluire nelle nubi rossastre di un tramonto o nella gelida acqua dei torrenti, fiorendo nei prati e tra le rocce o su nuove, adorabili labbra. Se ai riluttanti Greci era oltremodo invisa la permanenza nell’oscuro Tartaro di spoglie menti in vuoti simulacri, è angosciante avere il nulla quale estremo approdo. Chi non riesce a credere non può sperare neanche di sopravvivere tra perpetui tormenti: per un po’ saremo presenti nel pensiero dei cari, degli amici, di qualche conoscente: ricordi sbiaditi, figure sfocate destinate a spegnersi nel definitivo oblio.

    Lasciando una traccia, seppur debole e provvisoria, si potrà forse avere memoria di noi oltre quella ristretta cerchia. I grandi personaggi lo fanno con le imprese, gli scienziati con le scoperte, gli artisti con le opere, gli uomini di pensiero con gli scritti; e gli altri? Proponendo storie inventate o vissute, augurandosi almeno di strappare un sorriso, regalare momenti sereni, offrire spunti di riflessione. T. Brahe, l’astronomo le cui osservazioni permisero a G. Keplero di formulare le omonime leggi, pare gli ripetesse, nell’ultimo delirio: Fa che io non sia vissuto invano…. Anch’io vorrei non essere una passione inutile: perciò narrerò ciò che ha segnato la mia età felice, guidando le scelte di un percorso che si è andato impregnando di amaro disincanto; sebbene con slancio e dedizione abbia fatto oltre il dovuto, gli ideali che nutrivo non si sono in apparenza realizzati, dispersi al pari della leggera, inconsistente spuma che l’onda lascia dopo aver cozzato con gli scogli. Eppure senza sosta la roccia si modella, si disfa, si disgrega e il profilo della costa impercettibilmente arretra, mutando le sue forme e i suoi confini. Così, per ridotto che possa essere l’apporto di individuali contributi, voglio augurarmi che niente vada perso del buono di cui siamo stati consapevoli artefici. Cronaca e romanzo, realtà e invenzione, ragione e sentimento intessono un cammino sofferto e irripetibile, condiviso da gran parte di una generazione che ha contribuito a cambiare il Paese nel corso di una stagione entusiasmante, a volte incompresa, osteggiata, combattuta, derisa; destino cui vanno incontro, a livello collettivo, interi periodi storici e, sul piano individuale, ampi frammenti delle nostre esistenze, minimizzati, disconosciuti, rinnegati persino, come le iniziali opinioni, le allettanti utopie, le coinvolgenti lotte che siamo inclini a ridimensionare, negli obiettivi e negli esiti, per non soffrirne l’estrema perdita. Purtroppo, la gioventù può esser solo rimpianta: se stupenda, perché non possiamo tornare a riviverla, se sciupata, perché una seconda chance ci è preclusa. E nei casi mediani – momenti ineguagliabili alternati ad altri da dimenticare – per entrambi i motivi. Dissolti i mondi che abitammo felici e fioche le stelle che brillarono su audaci chimere e inani sogni, degli anni esaltanti e unici, teneri e ardenti di impetuosi amori, affiorerà quello che l’Io presente riconfigura e lega, badando che il sentimento prevalga sulla cronaca per colorarla dell’arcobaleno di suggestioni e attese che ne renda la scialba routine meno banale poiché, come riconosce V. Nabokov: "La versione romanzata contiene un estratto della realtà personale più inebriante del resoconto scrupolosamente fedele dell’autobiografo".

    2

    Sono venuto al mondo un mattino di fine novembre: la fede incrollabile di mia madre e il mestiere di mio padre, falegname, avrebbero forse meritato di darmi alla luce in una mangiatoia, tra un bue e un asinello, omaggiato nella magica notte stellata da semplici pastori nel tripudio di angeli osannanti. Dapprima valente ma oscuro artigiano mi sarei poi scoperto profeta, guaritore e taumaturgo, consegnando agli uomini l’estrema utopia di un fraterno, impossibile amore. Ammaestrato dalla tragica fine del Nazareno – niente ingressi in Gerusalemme tra ali di folla esultanti e frenando l’impulso di rovesciare i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe – mi sarei risparmiato la crocifissione; la gloria della resurrezione mi sarebbe mancata, è vero, ma avrei vissuto comunque degli anni da Dio!

    Banditi i rimpianti - Che giova ne le fata dar di cozzo? – veniamo ai fatti. La casa che abitai sorgeva nel centro storico, presso Porta Adriana, uno dei medievali ingressi della città: al pianoterra la bottega di mio padre, al primo una cucina e una camera, due al secondo, e nell’ultimo una vasta soffitta piena di strani oggetti appesi alle travi e di attrezzi dall’uso sconosciuto, dove il nonno eseguiva lavoretti e riparazioni. Un luogo arcano che esercitava su di me, bambino, un forte richiamo; e visto che lui ne era geloso, vi salivo di nascosto a curiosare. Mi attirava soprattutto la mola ingegnosamente costruita: una tavoletta, imperniata alla base di un cavalletto, ciclicamente sollevata e abbassata dal movimento del piede faceva girare una ruota di legno, collegata dalla cinghia a una puleggia coassiale al disco abrasivo il quale, grazie all’effetto moltiplicativo dei differenti diametri, girava rapido affilando i vari utensili. Attraverso una cannuccia, da un barattolo forato in basso un goccio d’acqua refrigerava le lame. Ero incantato da un meccanismo che faceva raggiungere alla mola, agendo sul pedale, velocità tali da far sprizzare scintille dal ferro, e lo azionavo beato per lunghi minuti. Quando ne avevo abbastanza di quel gioco meccanico mi dedicavo a lusingare i numerosi gatti, frequentatori dei contigui tetti, affinché si avvicinassero: mi piaceva da matti, mentre li lisciavo sotto la gola, sentirli ronfare e strusciarsi alle caviglie… Sì, un luogo davvero speciale la soffitta: alta sui tetti, consentiva una vista circolare; un giorno sarei riuscito a ripulirla e sistemarla, ricavandone un elitario rifugio.

    La cucina era il centro della casa, riscaldata, nella stagione fredda, da uno sporgente camino le cui guizzanti fiamme, lambendo il paiolo di rame sospeso alla catena, assicuravano acqua calda: incombenza di ciascuno, utilizzando con perizia l’attizzatoio e la paletta o soffiando in un tubo di ferro per fornire l’indispensabile ossigeno, mantenerle vive. Sulla mensola che lo coronava stazionavano in permanenza il macinino del caffè e la lucerna a olio, sostituita in seguito da un paio di candele; il pestello per ridurre il sale grosso, l’unico reperibile, a sale fino; il ferro da stiro, da riempire al momento con la carbonella. Terminata la cena, il nonno soleva accostare la sedia impagliata al focolare e accendere l’immancabile pipa; io a quel segnale, che tormentato dal sonno attendevo impaziente, saltavo sulle sue ginocchia e lui, dondolandomi, cantava ninnenanne per farmi addormentare in fretta. Allora la mamma mi prendeva in braccio e saliva le scale, per depormi nel lettino accanto al suo. Demolito il camino, venne sostituito da una stufa economica, alimentata dai legnetti e dalla segatura che il babbo produceva in abbondanza. Il nome derivava dalla duplice funzione di cuocere le vivande sulla piastra superiore e riscaldare l’ambiente; ma se alla prima assolveva egregiamente, la seconda era confinata alla stanza in cui si trovava; di conseguenza al piano di sopra si registravano, d’inverno, temperature glaciali: potevamo entrare nei letti dopo d’aver tenuto per ore, sotto le spesse coltri, un mattone refrattario ben caldo oppure il vecchio prete con dentro uno scaldino di coccio ricolmo di braci. Onde impedire poi che il capo, non potendo goderne il tepore, si coprisse alla lunga di candidi ghiaccioli, ricorrevamo a morbide berrette di lana.

    Grandicello, cominciai a dormire col nonno su uno dei due letti ricavati dal matrimoniale, smembrato alla scomparsa della nonna. Ora procedevo da solo e la mamma mi seguiva per assicurarsi che recitassi, in ginocchio, le preghiere serali: voleva trasmettere ai figli la fede nella quale era stata educata, sicura che saremmo cresciuti onesti e buoni. È con queste modalità che convinzioni, pratiche, costumi e religioni si trasmettono: ogni generazione passa alla seguente il testimone, prima possibile s’intende, per consentire a idee inverosimili di attecchire e strutturare le piccole menti ricettive, seminandovi credenze, preconcetti e tabù che ne ottunderanno inevitabilmente le capacità critiche, o facendo ritenere sacrosante e indiscutibili presunte inferiorità di genere che comporteranno sudditanza, riduzione di diritti, maltrattamenti e violenze. Così all’Emilia del Decameron – membro di una brigata in cui era "savia ciascuna e di sangue nobile e bella di forma e ornata di costumi e di leggiadra onestà –, appariva logica e giusta la condizione di inferiorità e sottomissione del proprio sesso: Sono naturalmente le femine tutte labili e inchinevoli, e per ciò a correggere la iniquità di quelle che troppo fuori de’ termini posti loro si lasciano andare, si conviene il bastone che le punisca; e a sostentar la virtù dell’altre che trascorrere non si lascino, si conviene il bastone che le sostenga e che le spaventi", e ancor oggi, in contesti culturali tribali che si tramandano immutati, sono le stesse madri a sottoporre le figlie all’infibulazione, praticando di buon animo e forse con amore l’indicibile violenza subita a loro volta da bambine e della cui bontà sono pienamente convinte. Acquisire il rispetto di sé, degli altri, delle regole, conseguire la capacità di compiere scelte e sentirsene responsabili, aprirsi a opinioni e culture diverse apprezzandone il contributo, essere disposti alla solidarietà e alla cooperazione, aver cura dell’ambiente, sono virtù civili che prescindono dalle opinioni religiose: espressioni di principi che ciascuno, in quanto membro di una comunità, dovrebbe condividere. Dal punto di vista pratico è la permanenza stessa della società a escludere quelle condotte puramente egoistiche che ne minerebbero le fondamenta e a richiederne invece di collaborative, pena la dissoluzione nell’anarchia e nell’arbitrio, non meno dannosi per coloro che all’inizio ne risultassero avvantaggiati. Le leggi provvedono a fissare quanto la maggioranza, tramite i governanti eletti, ritiene di tempo in tempo essenziale o utile: incentivi, sanzioni o il semplice tornaconto dovrebbero favorirne l’osservanza; per la sfera dei comportamenti che non vi rientrano sarebbe sufficiente attenersi all’etica della reciprocità, evitando al prossimo ciò che ci è sgradito: tutti i reati contro la persona e i beni cesserebbero; la competizione e le contrapposizioni, palesi o sotterranee, verrebbero meno, sapendo gli altri animati dalla medesima benevolenza che nutriamo per loro. Volendo ambire alla perfezione, basterebbe applicarla, con la dovuta prudenza, in positivo: trattarli come noi vorremmo esserlo. Conoscendo istintivamente quel che ci attrae e quel che ci ripugna, la minuziosa casistica che i moralisti mettono a punto per regolamentare l’universo etico diverrebbe pedante e inutile.

    3

    A tre anni ero all’asilo: le ore scorrevano tra lavoretti, primi incontri con l’alfabeto, disegni, giochi, passeggiate in file ordinate e festose, guidati da suore riservate il cui aspetto ispirava soggezione. Comunque fu grazie a esse che prendemmo contatto con numeri e lettere da trascrivere diligentemente in quaderni racchiusi da una copertina lucida e nera, recante al centro uno spazio arrotondato su cui applicare la targhetta adesiva col nome. Utilizzavamo inchiostri invariabilmente neri e penne purtroppo propense a rilasciare macchie del medesimo colore. Ostinati e assorti, con trenini di consonanti e vocali venivamo riempiendo, a velocità piuttosto bassa, paginette immacolate; ma lo sbuffo che erompeva a pieni polmoni non proveniva da ansanti locomotive, bensì da noi bimbi stufi e annoiati che passo dopo passo prendevamo confidenza con la lingua, traducendo in segni concreti i suoni e le parole abituali. All’ora di pranzo scendevamo voraci nel refettorio per consumare un pasto ordinario, al quale però preferivamo il pane: dalle larghe fette creavamo infatti con le nostre manine, scavando abilmente la mollica, ponti, numeri, consonanti e vocali. Naturalmente, divoravamo tutto; del resto, in famiglia, non è che trovassimo prelibati menu: era l’affetto col quale i genitori offrivano quanto riuscivano a mettere in tavola a compensare la monotonia di parche cene. Il pomeriggio giocavamo in cortile o nei saloni, aspettando che la campanella suonasse l’uscita; quindi, radunati in file precarie per il tratto che ci separava dal portone, ci scioglievamo all’istante appena fuori e ciascuno raggiungeva festoso il familiare in attesa al cancello per ricondurlo a casa.

    Tolentino appariva intatta e godibile, con la vita che scorreva quieta come al buon tempo antico. Le vie, pittoresche e tranquille, lastricate con ciottoli di fiume arrotondati e vari nei colori, erano percorse di tanto in tanto da carri dalle grandi ruote cerchiate di ferro il cui rotolio, un tuono prolungato e cupo, cresceva appressandosi e poi gradualmente scemava, annullandosi nel quotidiano brusio. Naturale prolungamento di abitazioni spesso buie e malsane, si recitava in esse, stabile teatro all’aperto, la spontanea commedia d’ogni giorno, sceneggiata al modo consueto ma con sempre nuove, individuali varianti. Ogni quartiere aveva la sua chiesa e il suo santo, periodicamente onorato da una sentita e pittoresca festa rionale: una processione per gli angusti vicoli, tesa a impetrarne la protezione, al termine del tortuoso itinerario riconduceva i fedeli dinanzi alla facciata del tempio, illuminata da file di lampade multicolori… e la sua cantina, dove artigiani, pensionati e sfaccendati si recavano a consumare gustose merende a base di porchetta, coppa o mortadella. Vi si mesceva un vino senza pretese, che correvo ad acquistare con una bottiglia dal contorno ottagonale, chiusa da un tappo a scatto: una caratteristica irrilevante, tuttora bene impressa nella mente.

    La via che scende alla Porta, ariosa sulla valle, nella bella stagione era inondata di sole e le donne anziane sostavano fuori, sui gradini o su sedie impagliate, filando, cucendo e chiacchierando fino al tramonto, mentre noi bambini correvamo gridando, scatenati padroni di un mondo sereno, dietro ai giochi e alla gioia della prima infanzia: a metà Novecento i paesi della provincia marchigiana assomigliavano ancora al natio borgo descritto dal Poeta. Subentrando la stanchezza o la noia ci dedicavamo ad altri svaghi: le carte, nelle quali non riuscii a eccellere per l’avversione a memorizzarne le uscite; le biglie di vetro dalle elicoidali volute, lanciate su elaborati circuiti con trabocchetti, curve paraboliche, ponti e gallerie; i carri armati, ricavati incidendo le tacche adatte alla presa su rocchetti di legno mossi da un elastico, che facevamo gareggiare su terreni impervi. Caramelle, cioccolatini e liquerizie, dal droghiere; carrube, lupini e noccioline americane, dalla vecchietta che ne riempiva con parsimonia un cartoccio; figurine e pennini, dal cartolaio all’angolo… modi usuali di dissipare gli spiccioli che tasche sdrucite saltuariamente ospitavano. La mania del collezionismo contagiava anche noi, ma malgrado l’accanimento non sono mai arrivato a completare un album!

    Il raro passaggio di ambulanti distoglieva dai consueti giochi, facendoci accalcare attorno al carretto sovraccarico di merci strane, osservate con infantile curiosità; similmente al richiamo del cenciaiolo, del ferrivecchi, del conciatore di pelli, dello spazzacamino; o di stagnini, arrotini e ombrellai i quali, con modica spesa, riparavano oggetti d’uso che una mentalità agli antipodi del consumismo, più che le ristrettezze economiche, impediva di sostituire con la cadenza odierna. Verso sera, richiamati dalle mamme che alle finestre gridavano inascoltate i nostri nomi, dovevamo separarci e rientrare. Sul tardi giungeva, con la bicicletta equipaggiata di due contenitori ai lati, il contadino che distribuiva a domicilio il latte munto; noi scendevamo con una bottiglia da riempire, pretesto per l’ultimo saluto.

    D’estate mi veniva imposto, nelle cocenti ore pomeridiane, di fare un riposino; senza poter né voler dormire, fissavo il disegno che raggi di luce sfuggiti all’imposta, imbarcata al suo bordo, tratteggiavano sul soffitto; il regolare schema, scalinato dai travetti in linee spezzate e nette, immobile e vigile, mi teneva sveglio col chiarore e il contrasto al quale dava luogo, intanto che sentivo dal mio letto le parole, le grida, le risate dei compagni in strada, che sui gradini di qualche androne davano libero sfogo alla loro indomabile vitalità di fanciulli. Seguivo la trama invariabile che attirava lo sguardo impedendomi di cedere al sonno; iniziando ad appisolarmi, l’incoerente arabesco continuava a occupare la mente, quasi una mappa che recasse in codice le indicazioni per la scoperta, qualora l’avessi decifrata, di un tesoro del quale impadronirmi appena sveglio.

    4

    Nell’immediato dopoguerra mio padre aveva lavorato alle dipendenze di un mobiliere; in seguito, aspirando a gestirsi autonomamente, decise di avviare un’attività in proprio nel locale a pianterreno della casa che abitavamo; ma per farlo occorreva dotarsi di una macchina combinata che riunisse pialla, sega circolare e trapano. Il pomeriggio in cui l’ebbe in consegna dall’artigiano che le costruiva a pochi isolati di distanza, l’intero circondario seguì l’avvenimento; noi piccoli ci affollammo nella bottega per assistere alle fasi della messa in opera. Era presente lo zio Aldo, il fratello di mia madre, che abitava nella casa dirimpetto e svolgeva la professione, non priva di prestigio, di maestro elementare. Memore della sua missione educativa, ci volle mettere in guardia sui pericoli che correvamo toccandone le parti rotanti; seguivamo attenti le spiegazioni ed egli, per renderle maggiormente persuasive, a motore fermo impugnò con una mano il mandrino del trapano e posò l’altra sulla fessura sotto cui si trovava la pialla, ammonendo: Vedete bambini, non dovrete per nessun motivo mettere le mani dove le sto tenendo io: se la macchina è in moto sarebbero guai!. Simultaneamente, per l’automatismo che muove le membra in sincronia con il pensiero, fece fare all’asse una mezza rotazione; la lama affilata, sopra la quale poggiava, fece anch’essa un tratto di giro, tagliando via tre lembi di pelle ad altrettante dita: fu la lezione pratica più incisiva che mi venne impartita!

    A volte il nonno mi conduceva con sé presso

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1