Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Sterilità
Sterilità
Sterilità
E-book313 pagine4 ore

Sterilità

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

La personalità enigmatica di Sofia, giovane appassionata di cinema, che da una grande città si trasferisce in provincia per sposare un imprenditore della media borghesia, sembra l’inizio di una favola ma si rivela subito la chiave per aprire vecchie porte di rancori, passioni e insoddisfazioni. Un precipitare nelle ossessioni più profonde dell’essere umano, scandito dal tempo dei ricordi che, poco per volta, si trasforma in un ménage a cinque tra Sofia, il marito Antonio, la cognata Elsa, suo marito Ernesto e Stefano, un critico teatrale che si ripresenta nelle loro vite dopo anni, portando a galla menzogne, ipocrisie e dolori.
La reciproca ossessione tra le due donne, solleticata da supposizioni e insicurezze in cui ognuna trova nell’altra il tassello mancante, si snoda tra la fasulla lentezza del paese che fa da eco alle loro vite e la dinamicità della grande città che ne ha accolto una giovinezza di cui ora devono fronteggiare le conseguenze.
I protagonisti di questa storia si trovano, giorno dopo giorno, prigionieri di un horror vacui che li inghiotte obbligandoli, loro malgrado, a fare i conti con la propria infanzia, spinti da parole, rumori e oggetti. Al termine di una lotta mentale e fisica ognuno troverà il modo migliore per sopravvivere. Anche a costo di sacrificare le esistenze di chi li circonda.

Linda Arnaudo, classe 1989, è una giornalista appassionata, da sempre, di viaggi, scorci inattesi, cinema e letteratura. Dopo aver frequentato il liceo classico, si è laureata in Storia dell’arte.
Vive a Saluzzo, in provincia di Cuneo.
Sterilità è il suo primo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2022
ISBN9788830659834
Sterilità

Correlato a Sterilità

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Sterilità

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Sterilità - Linda Arnaudo

    Nuove Voci - Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: «Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov».

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    LE DUE FACCE DELLA MEDAGLIA

    «Odiava il brutto più di ogni altra cosa e desiderava ardentemente commettere una strage. Non un genocidio, non uno sterminio in cui trucidare uomini e massacrare donne e bambini.»

    «E cos’era?»

    «Un odio profondo, latente. Un sottobosco di rancore che cresceva misto al disprezzo.»

    «Perché tutto questo livore?»

    «Non ne ho idea. Ma come da bambina raccoglieva le noci su un sentiero pedemontano, dalle radici dell’odio staccava lo schifo. Sradicava una pietà che non contemplava alcuna possibilità di redenzione.»

    «A sentirla parlare sembra che lei sia nata con il cordone ombelicale attaccato alla vocazione per una narrazione schietta.»

    «Le sembrerà strano ma, quando ero più giovane, due erano per me le cose che avevano la massima importanza.»

    Si scostò i capelli dalle spalle guardandosi le punte. Posizionò una ciocca dietro l’orecchio e rivolse all’intervistatore uno sguardo obliquo.

    «Quali?»

    Si morsicò il labbro inferiore, pungendoselo. Pensò di andare ancora un po’ più a fondo, prima di dirsi che poteva bastare così.

    Sollevò il mento e serrò leggermente gli occhi. Guardò in macchina.

    Lo sguardo divenne improvvisamente innocente, infantile. Dilatò le pupille e, come quando da piccola recitava l’Ave Maria davanti alla statua un po’ scrostata della Madonna, con quella frangetta troppo corta che le segava la fronte, rispose: «La prima era essere divorata. In modo squallido, vorace. Nella camera di un motel, possibilmente. Quelle in cui non ti chiedi chi si sia sdraiato su quel letto prima di te perché, se annusi bene, senti ancora l’odore».

    La voce dell’intervistatore si fece grave. Finse di essere abituato a simili esternazioni. Era sicuramente un tentativo della donna di prevaricarlo, come un accalappiacani che stava catturando l’ennesimo bastardino.

    «E la seconda?»

    Chinò nuovamente il volto. La costrizione, il pentimento che può portare alla misericordia.

    «Mi perdoni, padre, perché ho peccato.»

    L’unico rumore era quello pastoso delle labbra che si appoggiavano l’una sull’altra, come due lumache che duellano.

    «Non vuole rispondermi? E di questa morte? Cosa mi dice della donna morta?»

    Si sporse in avanti, strinse la mano sinistra in un pugno e se la portò davanti alla bocca. I secondi si accavallarono tra loro diventando minuti. Guardò intorno a sé la moquette grigia e l’arredamento anni Settanta. Accavallò le gambe e fece muovere in tondo la caviglia. Sembrava divertita da quel gioco di attese.

    «Era una donna spugnosa.»

    «Cioè?»

    «Assorbiva tutto. Indistintamente. Gioie, dolori, dispiaceri, ricordi. Lei incamerava tutto.»

    Si allungò in avanti per spegnere la telecamera. Con il pollice giocava con la montatura di un anello. Sentiva la pietra dura girata al contrario contro la pelle.

    «Aspetti.»

    La voce dell’uomo si fece improvvisamente pacata, ma non fu in grado di celare una curiosità imperante.

    «Non ha risposto alla mia domanda.»

    «Ah sì, la domanda.»

    Una nuvola di fumo avvolse i capelli della donna. Giocherellava con l’accendino immaginando se stessa, lì, su quella poltrona, mentre rilasciava quell’intervista. Vide il suo tailleur nero, i tacchi appoggiati a terra. Due colonne troppo sottili per sostenere il peso delle sue dichiarazioni. Si rivide bambina, mentre correva per i giardinetti, cercando con lo sguardo qualcuno che volesse diventare suo amico e, al tempo stesso, rifuggendolo come la peste.

    «La seconda cosa era andare a vivere a Deauville. In un cottage con i divani bianchi e blu.»

    GLI ALTRI

    «Era una donna arida, sterile.»

    «In che senso?»

    Gli occhi azzurri fissavano la telecamera. Appuntiti come la sommità del compasso che usava per i disegni di tecnica che faceva quando era un undicenne inquieto e taciturno.

    «In lei non poteva nascere né crescere nulla.»

    «Gli altri non ne parlano proprio così.»

    «Gli altri.»

    L’uomo strizzò un poco gli occhi, socchiudendoli. Aspirò profondamente l’ultima boccata di tabacco.

    -Cosa vuoi che ne sappiano, gli altri.

    «Ne parlano come di una donna spugnosa, capace di assorbire qualsiasi cosa

    La bocca carnosa soffiò fuori il fumo trattenuto a lungo; un prigioniero in una dolorosa agonia.

    «Assorbire è diverso da partorire. Da suscitare. Da alimentare

    «Sì, ma se assorbi qualcosa quello rimane dentro di te, in un modo o nell’altro si attacca alle tue viscere. E finirai per espellerlo, come si fa con le feci.»

    «Un paragone calzante.»

    «Brutale, forse. Ma è così.»

    «E questo fa di te una persona atta a procreare? Un pensiero? Un figlio?»

    L’uomo sottolineò la domanda con un tono tra il canzonatorio e il superbo. Una nenia altera e distaccata.

    «No, ma… da ciò che ho sentito, le cose non stanno proprio in questo modo. Insomma.»

    Sorridendo a denti stretti, fissò un’ultima volta lo schermo. Poi spense la sigaretta nel posacenere. Schiacciandola. Fino a sentirne con la punta del dito il calore. Un impercettibile sorriso gli sfregiò il volto mentre chinava la testa verso destra. Lo sguardo fisso sulle sue dita che spingevano la Muratti contro il vetro.

    «E quelle persone dalle quali hai sentito, hanno mai frugato tra le sue cosce? Hanno mai strusciato la lingua contro le sue labbra?»

    La voce dell’intervistatore divenne più imbarazzata, sfiorava la vergogna come un’attrice sfiorerebbe le tende del palcoscenico per sottolinearne la familiarità.

    «Io questo non lo so, so solo che…»

    L’uomo si alzò. Fece un giro intorno alla poltrona, si mise alle sue spalle e appoggiò i gomiti sul velluto verde.

    «Forse hanno ragione, gli altri.»

    Qualcosa quella donna è stata in grado di partorire. L’autodistruzione. Un parto che le è riuscito perfettamente.

    UNO

    C’era una volta, in un paese che non era né lontano, né magico, né incantato, una donna.

    Vicino ai trenta, sottile - troppo - commentavano le malelingue, capelli corposi e densi come il petrolio, un broncio perenne che iniziava dal naso e si incurvava sulle labbra, occhi di un verde Gauguin, una seconda piena di reggiseno. Un sedere alto e sodo.

    Nel paese dove viveva, Sofia era considerata una principessa moderna. Lei si sentiva una triglia costretta a nuotare in una boccia per pesci rossi. Aveva sposato un ricco imprenditore edile conosciuto quando, un paio d’anni prima, con alcuni compagni di DAMS aveva trovato la location ideale per ambientare il primo e unico aborto cinematografico.

    Sofia era una svettante neolaureata con il chiodo fisso della regia, che percepiva dentro di sé una forza dirompente, una creatività fuori dal comune, ostinata a mettere alla prova questa belva che, giorno dopo giorno, le generava dentro embrioni di idee.

    In un pomeriggio di inizio giugno, lei e una combriccola composta da un paio di aspiranti Godard, quattro rivisatori di Fellini, un cultore di Bergman e un’adoratrice del dio Truffaut si erano riuniti in un capannone in disuso per cominciare le riprese. Il luogo distava una ottantina di chilometri da dove abitava Sofia, ma nessun posto rendeva meglio l’odore di vacche e fieno, il senso di calura e sudore, l’arsura placida e soffocante dei pomeriggi di campagna.

    In mezzo alle gomme dei trattori e agli abbeveratoi vuoti, Sofia trovò anche il suo principe azzurro, o –come commentavano le malelingue – il rospo senza speranze di trasformazione. Antonio era il presidente della Edil & Sons, nonché proprietario di un discreto numero di immobili della zona, tra cui parecchi capannoni. Li rimetteva a nuovo e li affittava aumentando così l’introito dell’azienda che il padre gli aveva lasciato da amministrare.

    Lo specchio gli confermava, anno dopo anno, una mole possente che sapeva compensare con senso dell’umorismo, carisma e curiosità. Calibrava la sua intelligenza distribuendo a piccole dosi le sue conoscenze, a seconda delle circostanze, spesso ripetendosi.

    Quando parlava del primo incontro con Sofia, ricordava un paio di jeans dagli orli slabbrati, Converse verdi e un top blu senza maniche. Niente reggiseno. Una voce metallica senza concessione alla dolcezza con un sottofondo di raucedine. I jeans e le All Star si muovevano su e giù nel capannone a spostare luci, posizionare oggetti e seguire i due protagonisti. Lui la osservava appoggiato allo stipite della porta: Sofia, tra un ciak e l’altro, si soffermava svogliatamente su quelle braccia tornite, sulla pancia voluminosa che si muoveva a ogni passo sotto la camicia bianca, sulla fronte imperlata da gocce di sudore. Lo trovava repellente, eppure non poteva smettere di interrogarsi sull’entità di quel qualcosa che la attraeva. Dopo quattro giorni di riprese la piccola troupe si sciolse.

    I felliniani litigavano con i godardiani per l’assenza di elementi onirici e surreali. Il bergmaniano ribatteva che la cinepresa era lo specchio dell’anima e reclamava un numero più cospicuo di primi piani. L’adoratrice di Truffaut spingeva gli attori a improvvisare maggiormente. Sofia era accusata da tutti di essere insopportabile, di avere lo stesso sarcasmo ed egocentrismo degli alleniani.

    Toccò a lei riportare le chiavi al proprietario. Antonio aveva trasformato una vecchia rimessa vicino al capannone in una sorta di accampamento per le emergenze, come l’aveva definita lui. In realtà si trattava di un rifugio per quei lavoratori che la sera erano troppo stanchi per tornare a casa. O che, semplicemente, non ne avevano voglia. Due brandine, un divano, un televisore con il baffo, un bagno con una finestrella sopra la tazza. Un frigo sempre rifornito di birre e tranci di formaggio sottovuoto. Nella mensola sopra il lavandino una coppia di piatti e bicchieri, qualche posata e un pacchetto di gallette di riso.

    Quando bussò alla porta, Sofia trovò Antonio sdraiato sul divano intento a leggere un plico di documenti. Dalla camicia sbottonata usciva un ciuffo di peli grigi. Sotto le ascelle due macchie di sudore. Il ventilatore nell’angolo attutiva il rumore delle macchine sulla tangenziale poco distante. Si passò una mano fra i riccioli argentati e, sbuffando, sottolineò quanto fosse pesante lavorare con il caldo.

    «Questo posto mi aiuta a isolarmi. Non suona il telefono, la segretaria non bussa ogni tre per due.»

    Lei non rispose, si limitò ad accentuare il suo broncio arricciando il naso. Posò le chiavi sul frigo, si prese una birra e si sedette su una brandina. Fece tutto in silenzio, senza smettere di fissarlo. Entrambi si lasciarono abbracciare dall’atmosfera torrida e lasciva. Sofia si passò sul volto sudato la Beck’s ghiacciata, sentiva l’arsura estiva salirle su dai piedi. Si alzò, si sfilò jeans, canotta e Converse e si sedette a cavalcioni su di lui. Antonio ansimava come una bestia. Talmente tanta era la sua foga che non si tolse nemmeno la camicia. L’afa rendeva i corpi scivolosi e umidi, le dita sudaticce, i capelli appiccicosi.

    Sofia lo sposò tre mesi dopo quell’episodio.

    Agli occhi degli abitanti della cittadina, quel matrimonio fu un tacito accordo.

    Sofia sapeva che non era così, ma quando s’interrogava sul perché avesse sposato Antonio si rispondeva cercando un altro argomento.

    DUE

    Il matrimonio venne celebrato nel parco della villa di Antonio, sotto un arco ricoperto di gigli. Il prete cercò inutilmente di celare un leggero imbarazzo mentre pronunciava la frase in ricchezza e in povertà e le sue iridi grigie penetravano vigorosamente gli occhi di Sofia, avvolta in un peplo di seta bianca. Un ciuffo si era liberato dallo chignon e scivolava sulla sua fronte, addolcendone i tratti. Una stola in tulle copriva la scollatura dell’abito, nascondendo l’incavo tra i seni, dal quale proveniva un profumo di cedro e ambra grigia percepibile solo da Antonio.

    Sofia si sentì gli occhi addosso per tutta la durata della cerimonia. Anche se dava le spalle agli invitati era pressata dai loro sguardi di murene che guatavano la preda nascoste dietro un masso. Era consapevole di non avere pietre dietro cui rifugiarsi, né sabbie con cui mimetizzarsi. Era lì alla mercé di tutti. Un bizzarro oggetto d’arte contemporanea scrutato con incredulità e stupore. «Sei un originale in mezzo a tanti falsi d’autore», l’aveva avvertita sua mamma quando le aveva comunicato la decisione di trasferirsi dalla città in quel paese che non aveva mai smesso di studiarla.

    Il giardino pullulava di tavoli rotondi, tovaglie bianche e bottiglie di champagne immerse in secchielli di ghiaccio. L’argenteria era talmente lucida che qualche parente dello sposo utilizzò i manici delle posate per verificare se tra i denti fosse rimasto qualche frammento di aragosta. Più volte, durante il pranzo, Sofia notò la discrezione maldestra con cui la cognata si controllava il rossetto nella lama dei coltelli.

    Elsa, la sorella di Antonio, si avvicinava al giro di boa dei quaranta. Il caschetto fulvo copriva una fronte alta e dilata. Il marrone dei suoi occhi aveva sempre colpito Sofia per la consistenza avvolgente, da cui si sprigionava un tepore che le ricordava i cappotti di cammello che sfavillavano sotto Natale nelle vetrine della sua città. Gli incisivi che durante l’infanzia si erano ostinati ad avanzare erano stati tenuti a bada da un apparecchio portato per anni senza riuscire, però, a bilanciarli del tutto. Quella leggera sporgenza che per l’adolescenza era stata un cruccio si era tramutata in una convivenza civile, a tratti fastidiosa ma nel complesso tollerabile.

    Otto anni prima aveva sposato Ernesto, tondeggiante rampollo di una famiglia di ristoratori che nel tempo si era specializzato nel settore caseario. L’aveva fatta innamorare con la sua presenza mansueta ma costante e, con il passare dei mesi, quel volto paffuto in armonia con un tronco che lottava da sempre con qualche chilo in più, era diventato una parte imprescindibile della sua quotidianità. Non sarebbe più riuscita a immaginarsi senza di lui. I capelli biondi stavano diventando radi, ma lui ci scherzava su. «Quello che metto nella pancia lo perdo dalla testa» aveva ironizzato con Sofia quando l’aveva conosciuta. Gli era subito stata simpatica, la giudicava una ragazza sveglia e intelligente, persa come lui nel suo mondo. Una voce fuori dal coro.

    Per tutta la durata del ricevimento l’aveva sommersa di informazioni su gorgonzola, caglio vegetale, mozzarelle DOP, parmigiano e tomini vari.

    Quando arrivava in tavola una portata inforcava i suoi occhiali rotondi – «Sai, sono un tributo a John Lennon» – e lo osservava attentamente. Poi sollevava il piatto e lo passava ripetutamente sotto le narici inspirando a fondo il profumo degli ingredienti. Sofia sorrideva di fronte al suo sguardo goduto mentre lo zafferano gli solleticava l’olfatto.

    Antonio osservò Sofia con occhi adoranti per tutta la giornata. Le era infinitamente grato. Ogni tanto posava la mano sulla sua coscia e lei rabbrividiva pensando al candore dell’abito di seta. Al momento del taglio della torta – Sofia aveva insistito perché i piani fossero ridotti da quattro a due e rimase agghiacciata quando vide che Antonio era riuscito a far troneggiare due piccoli sposi di zucchero in cima al dolce – Elsa si alzò in piedi, bevve un sorso di Belle Epoque e guardando la cognata dritta negli occhi la incalzò: «Ti sono così grata per aver reso mio fratello un uomo felice. Anche i nostri genitori ti ringrazierebbero. Se solo potessero».

    Sugli invitati calò un silenzio tombale. Le giovani donne nei tubini di lino a cui un settembre clemente aveva offerto l’ultima possibilità, quelle anziane nei tailleur, le bambine negli abitini di organza comprati tutti nello stesso negozio, i maschietti con la loro prima cravatta. Nessuno fece caso al tremore che sferzava le ultime parole.

    «Sono sicura che tutti qui sarebbero felici di ascoltare un tuo discorso.»

    Sofia alzò un palmo facendo segno di aspettare e, dopo aver bevuto un sorso d’acqua, si sollevò dalla sedia. Sapeva di non poter fallire. Sapeva che Antonio avrebbe elogiato qualunque cosa avesse detto, ma a crearle disagio erano le streghe di Eastwick in Gucci, le piccole bambole assassine in pizzi e merletti, i Danny Torrence vestiti da paggetti e senza triciclo. Se da dietro un cespuglio sbucasse un palloncino rosso, sarebbe l’apice pensò.

    «In queste circostanze si finisce per essere banali in ogni caso.»

    «Un po’ come ai funerali» ironizzò un amico stretto di Antonio.

    Sofia continuò a parlare, fissando il verde che la circondava.

    «Ti dirò semplicemente grazie. Grazie Antonio, per essere diverso. Per aver contribuito a rendermi così.»

    La madre iniziò a battere le mani sulla vocale accentata. Antonio con gli occhi umidi la avvolse in un abbraccio che le parve eterno. L’applauso contagiò tutti i commensali e Sofia se la cavò. Mentre affondava il coltello nella torta sollevò il broncio in direzione della cognata, che la scrutava con occhi rapaci, mentre giocava con uno smeraldo che portava all’anulare destro. Lo girava al dito con finta noia e condiva il movimento con qualche sbadiglio appena accennato.

    Quando gli stomaci iniziarono a stabilizzarsi e i primi segni di spossatezza a solcare i volti degli invitati, Antonio con un gruppo di amici si ritirò in un gazebo ad alternare sigari e amari a considerazioni economiche sull’andamento del Bel Paese. Nazione o provincia che fosse, la crisi non sembrava riguardarli e loro se ne beavano dall’alto di quei privilegi che avrebbero difeso con le unghie e con i denti.

    Il riverbero serale del sole estivo si lasciava voluttuosamente scivolare sui rami dei pini. Gli aghi sembravano ricoperti da Swarovski e nell’aria si faceva largo un senso di appagamento. Gli odori dei cibi si erano sparsi nel parco e le tavole ricordarono a Sofia nostalgiche nature morte: bicchieri semivuoti con macchie di vino rosso, bordi sporcati dai rossetti, tovaglioli impreziositi da chiazze colorate, briciole di pane sulle sedie; qualche pezzo di formaggio aveva trovato l’ombra sotto i tavoli. Le cravatte erano allentate, alcune abbandonate a loro stesse. Sotto le sedie imperversavano sandali e stiletti. Gli ultimi bottoni delle camicie erano aperti come persiane al sole, qualche cintura aveva dovuto ricorrere al buco in più. Le pettinature iniziavano a dare segni di spossatezza, le fronti erano unte e i fondotinta accentuavano rughe e sguardi meschini.

    «Ti troverai splendidamente. Tanti bei negozi e niente caos.»

    «Ma quella laurea che hai in tasca cosa ti permette di fare, poi?»

    «Sei una delle poche che il giorno del matrimonio rinunciano ai tacchi per un’altezza midi. Si dice così no? Sei fortunata ad avere gambe tanto lunghe.»

    «Ora, capiamo l’ansia da matrimonio, ma cerca di mettere su qualche chilo. Sennò sparisci.»

    «Povera cara, sarai stanca.»

    «Come sei stata fortunata a trovare un uomo che ti ami così tanto. E che tu ami così tanto.»

    Sofia rispose educatamente, alternando sorrisi a frasi di circostanza, cenni di assenso a sguardi obliqui alle curve dei fianchi evidenziate da abiti troppo stretti.

    Ogni tanto origliava qualche frammento di conversazioni altrui:

    «Bello il cardigan di Miki!»

    «Non me ne parlare, era l’ultimo e lo volevo assolutamente. Ma a cinque

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1