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Le parole dello yiddish: Un'esperienza etica e didattica
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E-book391 pagine3 ore

Le parole dello yiddish: Un'esperienza etica e didattica

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Info su questo ebook

Questo libro contiene la tesi di laurea in germanistica di Alessandra Cambatzu, discussa vent'anni fa e dedicata alle sfere semantiche della lingua yiddish, nonché il resoconto dell'esperienza triennale del concorso di traduzione dal tedesco all'italiano in sua memoria, dedicato alla letteratura yiddish, che si è svolto a Berlino e a Torino.
LinguaItaliano
Data di uscita15 gen 2021
ISBN9798594799462
Le parole dello yiddish: Un'esperienza etica e didattica

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    Anteprima del libro

    Le parole dello yiddish - Alessandra Cambatzu

    Pinto

    Premessa del curatore

    Con il 2020 ormai alle nostre spalle, ho deciso di pubblicare il primo triennio di esperienza etico-didattica dedicata alla traduzione di testi letterari della cultura yiddish nelle scuole italiane e tedesche. Si tratta di un progetto-pilota che ho organizzato in memoria di mia moglie Alessandra, scomparsa l’8 settembre 2016 a Berlino.

    L’opera consiste nella sua tesi di laurea in lingua tedesca (Le parole dello yiddish), discussa proprio vent’anni fa a Torino. Ho ritenuto opportuno utilizzarla come premessa all’iniziativa I ponti di Alessandra, questo strano concorso di traduzione dal tedesco all’italiano di una lingua particolare e misconosciuta come il giudeo-tedesco (lo yiddish), vittima principale dei totalitarismi razziali e classisti novecenteschi.

    Il lettore avrà modo di valutare se l’esperimento ha avuto successo oppure meno, se merita di proseguire nei prossimi anni. Io posso limitarmi a ringraziare tutti coloro che a Berlino e a Torino hanno permesso la realizzazione del concorso nelle scuole: dal personale dell’Ambasciata italiana sino a quello del Liceo Einstein di Berlino, per non parlare del Liceo Gioberti e dell’Istituto Santorre di Santarosa, e del Goethe Institut e dell’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini di Torino.

    Torino, gennaio 2021

    Le parole dello yiddish

    di Alessandra Cambatzu

    Introduzione

    1. Il discorso sulla lingua yiddish di Kafka

    «Prima della recita dei primi versi dei poeti ebrei orientali, vorrei ancora dirvi, gentili signore e signori, che voi capite molto più di yiddish [lett. Jargon, gergo]¹ di quel che credete.

    Non che io non sia preoccupato dell’effetto che potrebbe esercitare su ciascuno di voi questa serata, ma voglio che, se lo merita, questa si sprigioni immediatamente. Ciò, tuttavia, non potrà accadere fintanto che qualcuno di voi avrà paura, questo quasi glielo leggo in viso, dello yiddish. Di coloro che lo considerano altezzosamente, non parlerò per nulla. Ma la paura, paura mescolata a una certa avversione, è cosa, se vogliamo, perfettamente comprensibile. I nostri rapporti di ebrei occidentali, se li consideriamo con occhio cauto ma superficiale, sono così ben regolati che ogni cosa segue tranquillamente il suo corso. Noi viviamo in gioiosa concordia, ci capiamo l’un con l’altro, se è necessario, riusciamo a vivere l’uno senza l’altro, se così ci piace, e ci capiamo ugualmente: chi potrebbe, dall’alto di un tale ordine di cose, capire l’intrico dello yiddish o aver voglia di farlo? Lo yiddish è una lingua europea giovanissima, ha soltanto quattrocento anni, ma in realtà è ancora più giovane. Esso non ha ancora raggiunto una forma linguistica di una certa importanza, cosa della quale noi abbiamo bisogno. La sua espressione è breve e veloce.

    Esso non ha grammatica. Dei cultori tentano di scrivere delle grammatiche, ma lo yiddish è una lingua costantemente parlata: non ha requie. Il popolo non la lascia in mano ai grammatici.

    Esso è composto solo da parole straniere. Ma esse non riposano in lui, ma ne mantengono viva la velocità e la vivacità con le quali sono state accolte. Migrazioni di popoli percorrono lo yiddish da un capo all’altro. Tutto questo tedesco, ebraico, francese, inglese, slavo, olandese, rumeno e perfino latino è colto all’interno di questo ‘gergo’ come da un senso di curiosità e leggerezza, tanto che ci vuole una certa forza per tenere insieme tutte queste lingue. Perciò nessuna persona sensata penserebbe di fare dello yiddish una lingua internazionale, per quanto la cosa possa sembrare plausibile. Soltanto la lingua della malavita vi attinge volentieri, perché essa non ha bisogno tanto di nessi linguistici quanto di singole parole. Inoltre lo yiddish è da tempo una lingua disprezzata.

    In questo incessante andirivieni sono riconoscibili frammenti di note leggi linguistiche. Lo yiddish ha le sue origini nel periodo in cui il medio alto medioevo tedesco [atmed.] trapassò nell’alto tedesco moderno [atmod.]. C’era, allora, una libertà di scelte nelle forme linguistiche: il medio alto tedesco ne prese alcune, lo yiddish ne prese altre. Talvolta questo sviluppò forme dell’atmed. in maniera più conseguente dello stesso atmod.: così, ad esempio, mir seien (noi siamo, corrispondente all’atmod. wir sind) deriva più naturalmente dall’atmed. dell’atmod. wir sind.

    In altri caso ancora, lo yiddish ha mantenuto intatta la forma dell’atmed. a dispetto di quella dell’atmod. Ciò che entrava una volta nel ghetto, non ne usciva tanto presto. È così che si sono conservate forme come Kerzlach, Blümlach, Liedlach².

    E ora, all’interno di questo prodotto linguistico costituito da legge e arbitrio, si riversano ancora i dialetti. Sì, lo yiddish è un composto dialettale, lo è persino la lingua scritta, benché ci si sia accordati sulla grafia.

    Con tutto ciò, egregi signore e signori, credo di avere, almeno temporaneamente, convinto la maggior parte di voi che non capirete neppure una parola di yiddish.

    Non aspettative alcun aiuto dalla spiegazione delle poesie. Se non siete neppure in grado di capire lo yiddish, nessuna momentanea illuminazione vi potrà essere d’aiuto. Nel migliore dei casi voi potrete capire la spiegazione e intuire che seguirà qualcosa di difficile. Questo sarà tutto. Vi potrei dire, ad esempio: il signor Löwy vi leggere ora (cosa che effettivamente farà) tre poesie. La prima è Die Grine di Rosenfeld. Grine significa i verdi, i novellini, coloro che sono appena sbarcati in America. In questa poesia, tali emigranti ebrei, percorrono a piccoli gruppi con i loro bagagli sporchi, una strada newyorkese. La folla, naturalmente, si ammassa, li osserva, li segue e ride. Il poeta esaltato oltre ogni dire da questa vista, parla, trascendendo questa scena di strada, agli ebrei e all’umanità. Si ha l’impressione che quel gruppo di emigranti si fermi, mentre il poeta parla, benché essi siano lontani e non possano sentirlo.

    La seconda poesia è di Frug e si intitola Sabbia e stelle. È un’interpretazione amara di una promessa biblica e cioè che noi saremo come la sabbia del mare e come le stelle del cielo. Ora, calpestati come la sabbia lo siamo già, quando si avvererà quella parte della promessa che riguarda le stelle?

    La terza lirica è di Frischmann e si intitola La notte è silenziosa.

    Una coppia di innamorati incontra un pio erudito che si reca nella casa di studio. La coppia si spaventa, teme d’essere scoperta; più tardi i due innamorati si rassicurano a vicenda.

    Come vedete, chiarimenti come questi non servono a nulla.

    Intrappolati in queste spiegazioni, cercherete durante la recita ciò che già sapete, e non noterete quello che ci sarà veramente. Fortunatamente, però, chiunque conosca il tedesco è il grado di capire lo yiddish, perché visto da una certa distanza, sia pure notevole, la comprensibilità esteriore dello yiddish è costituita dal tedesco; questo è un vantaggio rispetto a tutte le altre lingue del mondo. La qual cosa comporta, in un certo senso anche giustamente, uno svantaggio. Non si può, infatti, tradurre lo yiddish in tedesco. I rapporti tra le due lingue sono così delicati e significativi che potrebbero spezzarsi se lo yiddish venisse reso in tedesco: ciò che verrebbe tradotto non sarebbe yiddish, ma qualcosa di inanimato. Attraverso una traduzione in francese, ad esempio, lo yiddish potrebbe essere reso, ma verrebbe annientato in una traduzione tedesca. Toit, ad esempio, non corrisponde a tot e Blüt non è Blut.

    Ma neppure dalla distanza della lingua tedesca, signore e signori, voi potrete capire lo yiddish: dovrete fare un passo in più. Ancora non molto tempo fa, la lingua parlata degli ebrei, utilizzata quotidianamente, secondo che vivessero in città o in campagna, più ad est o più ad ovest, appariva come una premessa, di volta in volta più vicina o più lontana, dello yiddish e degli echi di questo sono tuttora presenti. Lo sviluppo storico di questa lingua si potrebbe seguire altrettanto bene sul piano del presente che nelle profondità della storia.

    Vi avvicinerete moltissimo allo yiddish, se considererete che in voi, oltre alle energie ci sono delle forze e dei collegamenti tra forze che vi rendono capaci di capire intuitivamente lo yiddish.

    Soltanto qui l’illustratore può esservi utile, tranquillizzandovi in modo che non vi sentiate esclusi e che riconosciate che non vi dovete più lamentare del fatto che non capite lo yiddish. Questo è l’importante, perché ad ogni lamento la comprensione sbiadisce. Se ve ne state tranquilli, allora sarete improvvisamente nel cuore dello yiddish. Una volta che esso vi ha afferrato – e lo yiddish è tutto, parola, melodia chassidica, l’essenza stessa di questo attore ebreo-orientale – allora non riconoscerete più la vostra pace di un tempo. Allora potrete concepire la vera unità dello yiddish, così forte che voi avrete paura, non più di lui, però, bensì di voi stessi. Non sareste in grado di sopportare da soli questa paura, se proprio dallo yiddish non vi venisse una tale fiducia in voi stessi che resiste a tale paura e che è più forte di essa. Godetene più che potete! Ma se poi la perderete, domani o dopo – del resto come potrebbe mantenersi nel ricordo dopo una sola serata! – allora io via auguro di aver perso, intanto anche la paura. Perché noi non vogliamo punirvi»³.

    2. Annotazioni dai Diari riguardanti il Discorso sulla lingua yiddish

    13 febbraio 1912

    Ho cominciato a scrivere i discorsi per la conferenza di Löwy⁴. Avrà luogo già domenica, il 18. Non avrò molto tempo per prepararmi e tuttavia intono un recitativo come all’opera. Solo per questo, perché da un paio di giorni sono incalzato da un’agitazione ininterrotta e non essendomi allontanato più tanto dal vero e proprio inizio, voglio, pero, buttar giù per iscritto qualche parola per me, e solo allora, avendo già avviato il lavoro, presentarmi al pubblico.

    Caldo e freddo si alternano in me col variare delle parole all’interno della frase, sogno uno slancio melodico e una caduta, leggo frasi di Goethe come se ne scorressi gli accenti con tutto il corpo.

    25 febbraio 1912

    È da lungo tempo che non scrivo nulla, perché ho organizzato per il 18 un recital di Löwy nel salone delle feste del municipio ebraico, per il quale ho fatto una breve introduzione sullo yiddish. Sono stato in pena per due settimane, perché non riuscivo a realizzare il discorso. Ci sono riuscito improvvisamente solo la sera precedente l’esposizione.

    Da una lettera scritta a Felice Bauer il 6 novembre 1912

    […] Sicuramente del teatro yiddish non ho mai parlato ironicamente, forse ne ho riso, ma questo è un atto d’amore. Ho persino tenuto una piccola introduzione di fronte, perlomeno così mi pare adesso, a un’infinità di persone, e Löwy poi ha suonato, cantato e recitato.

    3. Yiddish o Jargon?

    "Per piacere non chiamare, di grazia, Jargon, la lingua yiddish; non senti tu stesso che Jargon è vergognoso? Io odio la parola Jargon!"

    In queste parole di M.M. Sfurim c’è tutta l’irritazione di chi di lingua si serve quotidianamente e artisticamente e non tollera che essa venga definita semplicemente un gergo.

    Nell’utilizzo, e nella fortuna, che il termine Jargon ebbe, entrano in gioco due componenti: una, la più determinante, specificamente ebraica, l’altra, cristiana, gentile.

    Verso la fine del XVIII secolo, i maskilim⁵ introdussero in Germania il termine francese Jargon per designare lo yiddish, termine il cui significato era altamente negativo e che Mendelssohn⁶, l’esponente più importante dell’illuminismo ebraico, la Haskalah (lett. luce) usò proprio per screditare lo yiddish: «Questo Jargon – scrisse – ha contribuito non poco all’immoralità dell’ebreo comune». Espressioni come queste, che ci paiono ingiuste ed eccessive, devono essere, tuttavia, collocate nel contesto storico e culturale che le ha prodotte.

    Lo sforzo di Mendelssohn e dei maskilim era rivolto all’affrancamento dell’ebreo da uno status di secolare sottomissione e ignoranza: uno dei loro principali nemici non poteva che essere lo yiddish, idioma simbolico del degrado e della miseria delle masse ebraiche orientali.

    Una lingua che non era né puro tedesco né puro ebraico, né polacco né russo. Come poteva una tale mescolanza di elementi assurgere al rango di lingua degli ebrei liberati dalle pastoie dell’oscurantismo feudale, contribuire a farli allontanare per sempre dal ghetto?

    Non poteva, semplicemente. Era necessario, quindi, fare una scelta: «Puro tedesco o puro ebraico, ma niente miscugli!», ribadiva Mendelssohn, ponendo così le basi per un distacco definitivo e doloroso tra i Westjuden, progressivamente tedeschizzati e occidentalizzati, e gli Ostjuden, la cui lingua comune restava pur sempre il detestato Jargon e nei confronti dei quali, i primi nutrivano una pietà venata di disprezzo.

    Ma gli attacchi non venivano soltanto dall’interno. Presso i non ebrei di lingua tedesca, lo yiddish era associato alla Gaunersprache, la lingua, o meglio il gergo, della malavita. Qualche esempio: il ba’ti, la casa (בית), diventa il Beiz, Beisel, la bettola; l’espressione kapores gehen da kaparah, kiper (כפור, כפר) sacrificio di espiazione, espiare, diventa andare in malora, fallire, crepare. Un ebreo che parla tedesco, mauschelt, lo blatera, lo storpia, lo guidaizza.

    Sottoposto a tale fuoco incrociato, lo yiddish tuttavia non decade. Disprezzato e misconosciuto, si prende una bella rivincita proprio sui suoi più feroci detrattori, i maskilim.

    Il loro bersaglio privilegiato era la vita miserabile nelle shtelach, le cittadine e i villaggi dell’Europa orientale, e il chassidismo che poneva «l’ebreo comune, fino ad allora relegato ai margini del sapere e dello studio, nel cuore della fede e assegna[va] alla lingua popolare una funzione fondamentale»⁷.

    Come raggiungere e civilizzare le masse poverissime e sottomesse degli ebrei orientali? Non restava altra strada, per farsi capire, se non l’utilizzo dello yiddish che cacciato dalla porta, rientrava così, trionfalmente, dalla finestra.

    Era impossibile, e ingenuo, pretendere che una lingua franca di così largo uso, veicolo indispensabile per transazioni commerciali o per semplici comunicazioni, in un’area che andava dalla Germania alla Polonia, dall’Austria-Ungheria alla Lituania, potesse essere sostituita dalle lingue nazionali o dall’ebraico.

    Un riconoscimento e una definitiva riabilitazione arrivarono tra la metà e la fine dell’Ottocento dai padri della letteratura yiddish moderna: Sfurim, Alechem e Perez. Indicando lucidamente i limiti e i pericoli della Haskalah⁸, assimilazione e conseguente perdita dell’identità ebraica, restituirono allo yiddish il rango di lingua, tanto più ricca perché mobile e non cristallizzata.

    È proprio Sfurim, che, come abbiamo già in precedenza ricordato, viene unanimemente definito il nonno, der Seide (< pol. dziad, nonno) della letteratura yiddish, sente la forte esigenza di restituire una dignità alla figlia rifiutata.

    «Osservando la lingua dei miei fratelli, fui preso dal desiderio di raccontare le loro storie prese dalla vita degli ebrei nella lingua sacra. La maggior parte di essi, tuttavia, non capiva quella lingua, perché parlava yiddish […]. La domanda – per chi mi affatico, allora? – non mi dava riposo, lasciandomi assai confuso. I nostri scrittori, che conoscono diverse lingue, ma che si occupano solo dell’ebraico, senza interessarsi del popolo, avevano sempre guardato allo yiddish con disdegno e dispregio. […] Grande fu la mia esitazione quando realizzai che se io avessi fatto uso di questa lingua esecranda, sarei stato ricoperto di vergogna […]. Ma il mio amore per ciò che è utile trionfò sulla mia vuota vanità e decisi: a qualsiasi costo, io voglio avere pietà della lingua yiddish, la figlia rifiutata, e fare qualcosa per il mio popolo».

    Scrive, a proposito dell’eterna dicotomia assimilazione/conservazione:

    «La vita degli ebrei dalla shtetl può sembrare, esternamente, misera e oscura, ma essa è, nei suoi recessi più nascosti, splendida. Un forte vento li possiede, uno spirito celeste che soffia come il vento che solleva le onde, per spazzare via sporcizia e sudiciume. […] Israele è il Diogene delle nazioni; le menti degli uomini della shtetl salgono fino al cielo, consci della grandezza di Dio e questi uomini vivono fra le nazioni del mondo chiusi in una botte, stretti nelle anguste shtetlach».

    In Kafka troviamo una simile entusiastica dichiarazione d’amore per lo yiddish. Più circospetto, lo scrittore praghese non può, però, non riconoscere il fascino che da esso emana: simbolo di comunità psicologicamente

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