Mendelssohn in Italia
Di Arrigo Boito
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Di avvenirista ironia è poi la Lettera al ministro Broglio, apparsa su un'altra nota rivista dell'epoca, Il Pungolo, il 21 maggio 1868, e che abbiamo deciso di riprodurre a completamento di questo breve lavoro.
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Anteprima del libro
Mendelssohn in Italia - Arrigo Boito
PUBBLICA
Nota introduttiva
Compositore, librettista, esponente del movimento letterario della Scapigliatura, Arrigo Boito (1842-1918) fu a capo del giornale Figaro, che diresse con Emilio Praga fino al 1864. In quello stesso anno divenne collaboratore del Giornale della Società del Quartetto dove pubblicava resoconti di concerti e il suo saggio più ampio, Mendelssohn in Italia. «L’Italia fu il sogno dorato di Mendelssohn fin dalla sua prima giovinezza, fu il paese fantastico in cui si dilettava idealmente viaggiare, nelle poetiche esuberanze del pensiero. Quelle vaghe architetture del cuore, che noi chiamiamo castelli in aria, costruzioni mirabili in cui v’hanno le perle più fine dell’idea, le pietre più verdi della speranza, Mendelssohn le immaginava o a Venezia o a Napoli o a Firenze o a Roma: i suoi châteaux en Espagne erano invece in Italia; erano orizzonti di corallo, montagne di fuoco, marine di berillo, nacchere napoletane, rovine di Colossei, cieli eternamente lucenti, e lagune, e gondole, e zendadi veneziani».
Di avvenirista ironia è poi la Lettera al ministro Broglio , apparsa su un'altra nota rivista dell'epoca, Il Pungolo, il 21 maggio 1868, e che abbiamo deciso di riprodurre a completamento di questo breve lavoro.
MENDELSSOHN IN ITALIA
dal «Giornale della Società del Quartetto» del 1864
V’è una forma letteraria nimica a menzogna come la verità medesima, e semplice e chiara com’essa, e com’essa antica: nota al popolano, al filosofo, accessibile ad ogni levatura d’ingegno, universale, eterna: questa forma è l’epistola.
L’uomo si trasfonde nell’epistola più completo ancora che nelle opere del suo genio; l’anima si disasconde più netta sotto una meno densa parola perchè forse meno pensata. Seneca che scrive cortigianescamente ai Cesari ponendo ogni studio per mascherare coi blandimenti dello stile quel suo retto cuore da stoico, mentisce male e si scuopre senza volerlo; nell’orazione o nell’ode Seneca mentirebbe assai meglio: ed invece il plebeo che sa poco di lettura, e vuol dire a’ suoi cari l’animo suo ed incappa ad ogni riga nell’errore, temendo non ispiegarsi abbastanza, si ritrae per intero.
Il duro orgoglio di Foscolo, le passioni, gli egoismi, le tempeste dell’animo suo ne appaiono dalle sue lettere più assai che da’ suoi carmi: così la bene azzimata indole del Giusti, così la sollazzevole figura di Rabelais quando indirizza quella piacente epistola: A M. le Bailliuf du Bailliuf des Bailliufs: Maistre Antoine Hullet.
Si può simulare o dissimulare parlando, fingere gaiezze o dolori, adulare astutamente o astutamente umiliarsi; scrivendo è più arduo, fors’anche perchè è meno stringente il mentire, o forse perchè la punta della penna è più schietta che non la punta della lingua.
Oggi noi teniamo dunque fra mani un volume ch’è il ritratto d’un uomo: l’epistolario di F. Mendelssohn–Bartholdy, raccolto da Paolo Mendelssohn fratello suo, e tradotto con bello stile da Abramo Rolland, volume recentemente escito a Parigi (libreria Hetzel), su cui la diligenza degli stranieri si arrestò già con amore o con astio.
È una corrispondenza di viaggio, indirizzata da Mendelssohn a’ suoi parenti, piena di candidissima espansione e d’affettuosa dimestichezza, come fra figlio e madre, fra sorella e fratello è dicevole. Leggemmo, analizzandolo, questo volume colla stessa religione di chi penetra nell’interno d’un tempio, e l’interno del grand’uomo ne apparve; e ne apparve un’immensa armonia fra il suo genio e il suo cuore, fra le sue note e le sue parole, ed alcune convinzioni ci si conficcarono nella mente leggendo, saldate dal robusto martello della verità. Queste lettere di Mendelssohn sono la materia che ci diè modo a costrurre il tenue studio presente sul grande compositore; fidiamo adunque che le nostre mosse piglino scienza dal vero.
Mendelssohn è soggetto strettamente amico all’intento della nostra Società, e già ne accadde a quest’ora di far parola intorno ad esso nel primo numero del nostro giornale. A chi s’avvisasse d’osservare la storia del Quartetto, toccherebbe riconoscere in Mendelssohn una delle somme manifestazioni di quel modo dell’arte; toccherebbe, anche a rischio d’imbastardire un poco l’austera consanguineità de’ vecchi, collocarlo fra geni sovrani dell’arte.
Mendelssohn, come accennammo, più che musicista è pensatore, contemplatore, poeta: traspare dai suoi canti quasi un raggio d’idee, come dalla fissa pupilla di chi medita. Il quartetto, per esso, era poco, l’ha voluto far dramma, e fece peccare d’orgoglio quei quattro stromenti tranquilli. Avendo riguardo al quartetto esclusivamente, ne pare condannevole questa nuova arditezza, ma ponendo mente alla complessa tesi dell’arte, ne punge bisogno di cantarne le lodi.
A chi dicesse: perchè