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Vuoto a perdere: Verità nascoste sulla vicenda della Uno Bianca
Vuoto a perdere: Verità nascoste sulla vicenda della Uno Bianca
Vuoto a perdere: Verità nascoste sulla vicenda della Uno Bianca
E-book288 pagine3 ore

Vuoto a perdere: Verità nascoste sulla vicenda della Uno Bianca

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Info su questo ebook

Era il 1991, una ragazzina persa nel bosco della vita abbandona la sua famiglia. Cerca la sua strada. Non sa ancora che un anno dopo, questa l’avrebbe condotta in Italia dove incontrerà il suo lupo cattivo. Sola, spaventata e soprattutto soggiogata, chiede soccorso ad un amico lontano: “Aiutami!! Ci sono ragazze prigioniere, ragazze scomparse e poliziotti coinvolti!” Fu così che la polizia italiana iniziò a indagare i lupi cattivi, seguendo la falsa pista su un presunto traffico di esseri umani. Inizia in questo modo il racconto della vera storia della cattura dei criminali noti come “la banda della uno bianca” che dal 1987 al
1994 insanguinarono le strade dell’Emilia Romagna e delle Marche, uccidendo 24 persone, ferendone 103.
Sembra incredibile che per sette lunghi anni i cacciatori non siano riusciti a trovare i lupi cattivi. Ci è voluto Cappuccetto Rosso, la ragazzina della favola di Charles Perrault e dei fratelli Grimm a indicare la giusta via nell’oscuro sottobosco della giustizia.
La fine della banda porta infatti la firma indelebile di Eva Mikula, diciannovenne ragazza ungaro-rumena che per tutti era la donna del capo. Lei sfidò uomini pericolosi, assassini senza scrupoli. Sfidò anche il potere annidato nei palazzi che voleva e vuole ancora ammaestrare la verità. Eppure fu grazie alla sua testimonianza meticolosa, resa grazie ad una inscalfibile memoria, che si arrivò all’arresto di tutti i componenti della banda, mettendo la parola fine alle loro imprese criminali, salvando così altre vite innocenti. Che sia stata proprio la sua profonda conoscenza della verità a renderla di fatto una pedina sacrificabile da quel sistema che prima l’ha usata e poi, di fatto, abbandonata a se stessa?
Fin qui, la storia di una vicenda letta sui giornali e ascoltata in TV. Ma chi è realmente Eva Mikula?
Com’era la sua vita prima dell’incontro col lupo feroce? La comunità come ha ricambiato il suo gesto che l’ha esposta a grave rischio e pericolo, ora più che mai attuale attesi i prossimi fine pena?
Insomma Eva è finalmente uscita dal bosco? Chissà ...forse scrivendo questo libro si libererà finalmente dai rovi pungenti e dalle bestie feroci che popolano la foresta.
LinguaItaliano
Data di uscita14 feb 2021
ISBN9791220075145
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    Anteprima del libro

    Vuoto a perdere - Eva Mikula

    Morrison

    INTRODUZIONE

    La vita di ciascuno è la somma di ciò che ognuno di noi è nel profondo del proprio intimo e non di ciò che gli altri pensano di noi. È l’essenza del proprio io che si interseca con chi ci sta vicino e con chi incrocia le nostre vite.

    Non credo nel destino. Il destino è una convenzione, una costruzione per chi è uso piangersi addosso. Ognuno invece è comunque arbitro, consapevole o meno, della propria vita sempre e a prescindere se non incline a trascorrere un’esistenza insensata e appiattita sugli interessi degli altri.

    Questa storia è il racconto di Eva Mikula, una ragazzina che ha avuto il torto di crescere molto in fretta, forse troppo in fretta, in un contesto difficile se non impossibile, e di aver cercato di cambiare in meglio la propria esistenza, e questa non può essere considerata una colpa.

    Lo ha fatto con i pochissimi strumenti che aveva a disposizione data l’età, cercando ripari, stabilità e nuovi affetti in un mondo a lei alieno che poco dopo le è diventato pure ostile, ritrovandosi sola in mezzo ai lupi.

    Ciò che pensava essere il dorato mondo di una bella fiaba si trasformò ben presto in un incubo da cui sembrava impossibile risvegliarsi. Potrebbe sembrare una vicenda come tante e di tante ragazze come lei, invece questa è una storia diversa, molto particolare.

    Eva diventerà, suo malgrado, protagonista della storia recente della Repubblica italiana, la vicenda della banda criminale della Uno bianca che segnerà indelebilmente la sua esistenza fin da giovanissima. Sei criminali, di cui cinque poliziotti in servizio in diverse sedi dell’Emilia Romagna, incroceranno le proprie vite con quella di Eva. Criminali che con le loro azioni produrranno una lunga scia di sangue, rapine e lutti dal 1987 alla fine del 1994.

    Trascinata suo malgrado in storie di cronaca nera e di intrecci giudiziari internazionali che l’hanno ancor più affossata ed esposta al pubblico ludibrio, lei non si è mai arresa, mai si è fermata a piangersi addosso.

    Eva ha lottato per sopravvivere, per non essere uccisa dai criminali prima e dalla giustizia distorta in seguito. Ha combattuto contro tutti, anche contro chi avrebbe avuto il compito e il dovere giuridico di tutelarla. Lo ha fatto per il suo senso di giustizia, per il suo futuro, per una sua vita all’insegna della normalità. Ha combattuto e vinto il primo tempo della sua partita più importante, una partita ancora aperta, e deve continuare a farlo per non essere ancora una volta bannata dalla società, da chi ha interessi divergenti riguardo alla verità.

    Eva si è rimessa in gioco e ha deciso di farlo per i suoi figli, perché non debbano mai subire soprusi o vergognarsi di qualcosa nel confronto con gli altri, proprio come fece la loro madre tanti anni addietro.

    Buona lettura.

    Làszlò Posztobànyi

    Poeta, compositore, giornalista.

    VUOTO A PERDERE

    1. QUESTA È LA MIA STORIA

    Questa storia, la mia storia, inizia il 18 agosto 1975 sotto il segno del Leone e arriva al 28 luglio 2020, il giorno della svolta nell’anno della catarsi.

    Quel giorno, tra le ricerche casuali sul web e quello che ho letto sul mio passato è scattato qualcosa in me. Come se un embolo impazzito si fosse messo in circolo alla ricerca di tutte quelle emozioni che ognuno di noi custodisce e conserva dentro l’anima.

    Ho percepito con sorpresa che i miei sentimenti: la tristezza, il disgusto, la rabbia, la gioia e la paura erano tutti in totale conflitto tra loro. Lungo il suo percorso l’embolo ha incontrato anche la consapevolezza, che a sua volta lo ha condotto alla ricerca della coscienza. In questa grande confusione avvolta nell’oscurità dei ricordi, il mio io ha esclamato: Chi sei tu? Chi è Eva?. Dopo un attimo di silenzio e di esitazione la coscienza ha preso la parola: Dobbiamo ricucire i fili tra di noi, con tutti i nostri sentimenti per trovare la pace. Per fare questo dobbiamo fare un viaggio a ritroso nella vita di Eva, fare un po’ d’ordine senza tralasciare nulla.

    L’embolo si è sciolto, svanito, Eva si è guardata allo specchio, ha ripreso la parola e ha deciso: la verità sarà la nostra guida, come sempre.

    La verità non è quello che si trova nel web, scritto sui giornali, detto in tv o manipolato in certe aule di tribunale.

    Così, il 4 agosto 2020, dopo averci pensato a lungo e dopo aver riorganizzato i primi documenti, ho scritto a Marco Gregoretti, giornalista.

    Una mail secca e decisa con la quale gli ho chiesto di mettersi in contatto con me.

    Perché proprio a lui? Non lo so, sentivo che potevo fidarmi. Sono riuscita a farmi dare anche il suo numero di telefono. L’ho chiamato, gli ho scritto lunghi messaggi che toccavano i miei ricordi, da quando ero bambina. Gli ho inviato e-mail complicate relative ad alcune lettere mie e non solo, che raccontavano fatti che troverete in questo libro. Gli ho chiesto di aiutarmi a metterle in una buona forma, in un italiano più corretto del mio. Insomma l’ho messo alla prova. Volevo capire se il mio istinto era ancora vivo in me; avevo bisogno di conferme e di sapere che potevo veramente fidarmi di lui.

    È stato così che per tutta l’estate ci siamo sentiti, scritti e scambiati opinioni, pensieri e ricordi anche duri, durissimi, come quelli degli accadimenti legati alla tristemente nota Banda della Uno bianca, un brand dell’orrore.

    Ho usato mille trucchi per scrutarne la personalità. Ma anche lui all’inizio era prudente, incredulo che lo avessi cercato, così senza mediazione. Poi non ci abbiamo messo molto ad abbandonare le nostre rispettive diffidenze al loro destino. Abbiamo parlato tantissimo. Ho intasato la sua mail con documenti. Mi sono ricordata di qualche articolo che aveva scritto su di me; quello di Panorama nei giorni successivi agli arresti dei fratelli Savi e degli altri componenti della banda, e quello sul magazine della trasmissione televisiva Quarto Grado, dove parlava soltanto di me.

    Non ho fatto dunque troppa fatica a iniziare a parlargli anche dei miei figli, delle mie vicende personali, professionali e sentimentali che mi hanno attraversato la vita.

    Quando a ottobre ci siamo finalmente incontrati di persona è stato come se lo conoscessi, non dico da sempre, ma molto, molto bene.

    Mi telefonò dal treno confidandomi che il B&B dove era solito alloggiare durante le sue trasferte romane era chiuso. Così fu ospite nella mia struttura ricettiva.

    Si sono susseguiti tanti altri incontri, reali e virtuali, anche a causa delle limitazioni decise dal Governo a causa della pandemia da coronavirus.

    Gli ho raccontato tutto quello che avrei voluto raccontare davanti a uno specchio. Anche le cose più intime che sono successe a una donna, le cui sofferenze sono iniziate prestissimo, da bambina.

    Non c’è presente finché non ti è chiaro il passato; dove non serve più scappare dalle ingiustizie subite per uscire dal bosco; devo solo trovare il coraggio di accettare la mia storia, raccontarla a tutti, proprio come si racconta la favola di Cappuccetto Rosso ai nostri figli. Ora la mia storia la scrivo per me, avvolta da un fascio di luce.

    2. COSÌ FORTE COSÌ SOLA

    Nel 1999, a 24 anni decisi di voltare pagina. I sette processi penali a mio carico si erano conclusi. In testa avevo solo la mia vita, il mio futuro. Dovevo lasciarmi alle spalle un pezzo del passato, stare lontana dalla tv, dai riflettori della scena pubblica, perché tutto ciò che parlava della storia della Banda della Uno bianca, dei processi, del mio privato, era fastidioso, mi procurava disagio. Non rappresentava la vera Eva, non ero io quella raccontata dai media all’opinione pubblica.

    Quella parentesi non doveva più appartenermi. Desideravo che l’oblio cancellasse la figura stereotipata della donna del capo della banda di criminali assassini, per tutti io ero sempre e solo l’ex fidanzata di Fabio Savi.

    Era giunto il momento di tentare di realizzare i sogni che coltivavo fin da bambina. Dovevo trovare la mia logica, la mia strada, almeno così mi chiedevano testa e cuore, solo così avrei avuto più speranze e più possibilità, perché, fino a quel momento, le figure maschili della mia vita mi avevano trasmesso solo traumi, illusioni, tradimenti e sofferenze.

    Fu proprio nel 1999, durante una serata con alcuni amici, che conobbi l’imprenditore calzaturiero napoletano, sessantenne, Franco. La sua azienda si era conquistata una buona fetta di mercato italiano nella produzione e nella distribuzione di scarpe. I suo punti forti erano la linea casual, realizzata ad Alicante, in Spagna, e quella moda concepita in una fabbrica vicino a Napoli, sede anche della direzione aziendale. Mi diede l’opportunità di fargli vedere i disegni in cui mi ero cimentata nell’immaginare modelli di calzature femminili da proporre nella stagione successiva. Li esaminò attentamente. Gli piacquero e ne scelse alcuni, seguendo la sua indiscutibile professionalità acquisita in anni di esperienza sul campo.

    Anche i nipoti, figli delle sorelle, lavoravano con lui. Era un impegno costruttivo che mi offriva la possibilità di viaggiare. Mi sentivo realizzata e appagata. Franco mi trattava come una figlia, ed ebbe un ruolo importante nel mio processo di maturazione, come donna e come imprenditrice. Mi prese a cuore, mi fece conoscere la sua famiglia, la moglie, le due figlie, tutti i suoi collaboratori e i suoi amici.

    Era al corrente della mia storia, appresa dai giornali e dalle televisioni, ma fu sempre molto rispettoso della decisione di lasciarmi tutto alle spalle, non mi chiese mai nulla con l’intento di sapere o di approfondire. Gli interessava solo che io potessi crescere professionalmente, che mi inserissi nella società e che fossi messa al riparo dai rischi che può correre una bella ragazza giovane e sola, facile preda dei meccanismi che ti staccano dalla realtà e da una condotta di vita sobria.

    Franco è stato come un padre, capace di trasmettermi il valore dell’indipendenza, di insegnarmi le tecniche del commercio, la gestione del lavoro e della vita privata. Non immaginavo però che il disincanto fosse, ancora una volta, dietro l’angolo.

    Mi accorsi che i suoi nipoti, di qualche anno più grandi di me, non avevano un comportamento commerciale corretto. Per esempio, prendevano un ordine di mille paia di scarpe da un grossista, ma ne fatturavano solo ottocento. Il resto lo incassavano in nero e il denaro finiva direttamente nelle loro tasche. Facevano questo per i propri interessi, ai danni dell’azienda. Ne parlai a Franco portandogli le prove. Ci rimase malissimo.

    Convocò i nipoti, la sua era un’azienda a conduzione familiare, quindi era molto alto il rischio che si creassero fratture insanabili anche tra parenti. I due nipoti furono chiari e intransigenti: O ce ne andiamo noi, oppure se ne va Eva!.

    Anticipai qualsiasi risposta di Franco, ci pensai io a risolvere la questione che avrebbe potuto diventare molto dolorosa per lui: Non devi decidere niente, ho già deciso io. Me ne vado. Ne uscii con dispiacere, non gli diedi nemmeno il tempo di replicare. Me ne andai per sempre, ma già mentre uscivo da lì pensavo dentro di me: Eva devi realizzare qualcosa di tuo, di esclusivamente tuo.

    Per più di quattro anni, dal 1999 al 2003, fui una single felice, autonoma, senza un uomo che mi rompesse scatole e progetti. Non volevo più condividere niente con nessuno nella mia vita privata. La vicenda, per certi versi dolorosa, che provocò la mia uscita dall’azienda di Franco e la mia conseguente rinuncia all’ombrello protettivo che lui rappresentava per me, mi convinse che era giunto il momento di diventare protagonista assoluta di ogni aspetto della mia vita, pur mantenendo una bella amicizia con lui.

    Intanto mi sentivo sempre più parte attiva della società italiana. In un Paese dove era successo di tutto: la società in crisi, il terrorismo, la finanza speculativa, vedevo un mondo nuovo che avanzava. E non mi sembrava così lontano da non poterlo raggiungere e afferrarlo.

    Non dovevo e non volevo più dipendere da nessuno, né dagli uomini, né da un impiego subordinato, niente di tutto questo, soltanto dalle mie capacità lavorative. Non ero fidanzata, non volevo fidanzarmi e non l’avrei fatto finché non avessi sentito la terra ferma sotto i piedi. Aspiravo a certezze che potessero materializzarsi solo attraverso la realizzazione di una mia azienda, il possesso di un’abitazione di proprietà, di un’automobile tutta mia.

    Non che non avessi avuto proposte od occasioni di legarmi sentimentalmente a qualcuno, però le respinsi con disinvolta naturalezza. Sentivo solo una forte esigenza di aprirmi a me stessa, verso qualcosa che mi facesse star bene. Cercavo un bandolo per scattare, per correre.

    Una volta un amico mi disse: "Nella pratica delle antiche arti marziali impariamo come si torna al punto di partenza, attraverso la maturazione che si raggiunge con anni e anni di allenamento.

    Ciò significa che quella prima tecnica che abbiamo imparato quando eravamo degli sbarbatelli dilettanti, dopo un percorso fatto di infinite sfide e combattimenti, riusciamo a interiorizzarla e a eseguirla con la forza di una montagna e con la saggezza di un vecchio Maestro".

    Quale era stata la mia prima tecnica quando, appunto da sbarbatella, scappai da casa? Quella di lavorare come cameriera in un bar ristorante di Budapest. Mi sentivo grande, importante, appagata e libera dietro quel bancone o a servire tra i tavoli. Persino a lavare i piatti.

    Ecco, fu così che si accese la lampadina! Mi frullò l’idea di tornare al mio punto di partenza: cercare e trovare rapidamente un locale per realizzare un’attività di ristorazione. Vuoi mettere i caffè e i cappuccini italiani? E il cibo? Immaginavo già la mia creatività e la mia voglia di progettare cose nuove al servizio della gente, magari con qualche accenno alla cucina ungherese e rumena.

    Che cosa fare? Sognavo un bar ristorante, volevo servire le persone. Mi misi alla ricerca e studiai le procedure per l’acquisizione di una licenza. Scoprii in fretta che non era semplice in quegli anni, rilevare una licenza per un bar tavola calda già avviato, costavano tanto, partivano tutte con richieste minime da centocinquantamila euro. E chi li aveva così tanti soldi?!? Per non parlare degli altri costi necessari per aprire un’attività di quel tipo.

    Di fronte a casa mia, a Roma, c’era un negozio di frutta e verdura. Lo spazio non era molto ampio, circa 120 metri quadrati. Dal balcone osservavo che entravano pochissime persone in quel negozio. Mi chiedevo spesso come facessero, i titolari, ad andare avanti. Pensai, quindi, che non sarebbe stato difficile convincere i proprietari ad affittare o a vendere l’attività. Affrontai il discorso alla larga, entrai e chiesi: Avete idea per caso, se da queste parti ci sia uno spazio commerciale in affitto?. Mi risposero di non sapere nulla, che non avevano sentito niente e nemmeno visto cartelli nelle vicinanze. Insistetti: Non per essere invadente, scusatemi se sono diretta, a voi quando scade il contratto? Questo spazio e anche la posizione per me sarebbero perfetti. Per indorare la pillola aggiunsi: Se invece avete intenzione di vendere, magari ci si può accordare per una piccola buonuscita. Ma rimasi delusa. A quanto pareva, infatti, nei loro piani non era prevista alcuna cessione del negozio.

    No risposero quasi all’unisono. Noi viviamo di questo. Non abbiamo intenzione di andarcene.Io penso, soprattutto sento, che alcuni eventi della nostra vita, in particolare quelli che riguardano la sfera di ciò che ci piacerebbe accadesse, negli affetti come nel lavoro, nell’esistere insomma, non avvengano casualmente.

    La fortuna non può essere sempre una coincidenza, credo di più nella forza del pensiero e dei desideri. E in quel periodo in cima alla lista dei miei progetti, c’era dare forma a un’attività commerciale: il progetto di aprire un bar ristorante, tavola calda, in quella zona di Roma.

    Ma il primo concreto tentativo di cominciare a mettere le basi non era andato bene. Almeno, così credevo. Sì, perché dopo qualche settimana, ancora affacciandomi dal balcone di casa, vidi un furgone con il portellone posteriore aperto, davanti al negozio. Caricavano l’arredo e alcuni scatoloni. I proprietari si erano arresi: non intendevano più proseguire nella loro attività. Secondo me non riuscivano nemmeno a coprire le spese perché, nelle vicinanze, era stato aperto un supermercato.

    Era un’occasione da non perdere. In perfetto stile Eva mi misi subito in contatto con i proprietari delle mura, una coppia di anziani. Lui era davvero molto simpatico, lei una strega. Uomo d’altri tempi, calabrese. Gli dissi: Ho visto che stanno lasciando il locale. Lo voglio prendere io.

    Fortuna o coincidenza? Ecco cosa mi capitò in quei giorni. E poi ditemi se non ho avuto una mano dal cielo, che spianava la strada per far sì che potessi realizzare il mio progetto, che era anche il mio sogno. Tra quelle mura di quella strada non c’era mai stato un bar e nemmeno un ristorante.

    Avevo bisogno della licenza. Chiamai l’ufficio preposto del Comune. Siccome le licenze erano contingentate per ogni quartiere, domandai se ve ne fosse una libera a ridosso della via che mi interessava. L’impiegata mi rispose che no, non vi era nulla disponibile. Ci rimasi male ma non mi arresi, insistetti al telefono. La convinsi a ricontrollare. Aspetti, aspetti... mi dia per favore il civico che le interessa... mi faccia vedere una cosa. Le dettai nuovamente l’indirizzo esatto e, come per magia, mi rispose: Lei è fortunata signorina, perché dal civico 700 al 780 le licenze sono libere!. Era oramai fatta, ottenni la licenza dal comune senza doverla rilevare da altri, pagandola al solo costo degli atti amministrativi. Presi in affitto il locale e mi rivolsi alla Regione Lazio per ottenere il finanziamento dedicato all’imprenditoria femminile, disponevo dei requisiti del D.Lgs. n.185/2000. Mi ero iscritta anche al corso di formazione per il commercio alimentare e la somministrazione di cibi e bevande per studiare e ottenere il requisito professionale.

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