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La Repubblica delle stragi impunite
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La Repubblica delle stragi impunite

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EDIZIONE SPECIALE: CONTIENE UN ESTRATTO DI L'ITALIA SEGRETA DEI SEQUESTRI

Un autore da oltre 90.000 copie

I documenti inediti dei fatti di sangue che hanno sconvolto il nostro Paese

La storia recente dell’Italia è attraversata da una lunga linea rossa, che va dalla bomba di Piazza Fontana alle morti di Falcone e Borsellino.
Terribili eccidi di persone innocenti, sacrificate a trame segrete e oscure ragioni di Stato. Stragi ancora impunite, che hanno avvelenato il clima politico e sociale del nostro Paese e aumentato la sfiducia del popolo italiano verso le istituzioni. Ferdinando Imposimato – giudice da sempre in prima linea, che durante la sua carriera ha indagato su alcune delle pagine più drammatiche della parabola repubblicana – ricostruisce, con documenti inediti e una originale visione d’insieme, i fatti di sangue orditi da terroristi di destra e di sinistra, servizi segreti deviati, bande armate. Un’analisi lucida ed efficace, che non può non sollevare degli angoscianti interrogativi: quale ruolo ha avuto la politica nella stagione delle stragi di Stato? Perché alcuni uomini delle istituzioni hanno favorito quelle menti criminali? Quale collegamento esisteva tra la strategia della tensione e Gladio, tra gli americani e gli attentati che hanno drammaticamente caratterizzato gli anni di piombo e quelli a seguire?

Premio Roma 2013 per la saggistica

Una rivoluzionaria indagine sulle pagine più oscure della storia italiana

«Le verità d’Italia oltre i tribunali: il saggio di Ferdinando Imposimato, un nobile tributo alla memoria.»
Antonio Ferrari, Corriere della Sera

«Tiene col fiato sospeso perché sai che stai partecipando a un segmento della Storia della Repubblica che avviene adesso, mentre leggi, mentre vorresti entrare nel corteo che chiede finalmente legalità.»
Furio Colombo, Il Fatto Quotidiano

«Riesce a offrire una visione d’insieme di quanto accaduto, grazie a una vasta documentazione finora inedita.»
Silvana Mazzocchi, la Repubblica

Ferdinando Imposimato
È nato nel 1936, avvocato penalista, magistrato, è Presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione. È stato giudice istruttore in alcuni dei più importanti casi di cronaca degli ultimi anni, tra cui il rapimento di Aldo Moro, l’omicidio di Vittorio Bachelet, l’attentato a Giovanni Paolo II. Grand’ufficiale dell’ordine al merito della Repubblica italiana, ha ricevuto diverse onorificenze in patria e all’estero per il suo impegno civile. È stato anche senatore, prima nelle liste del PDS e poi del PD. È autore di numerosi saggi, tra cui ricordiamo Vaticano. Un affare di Stato e, con Sandro Provvisionato, Doveva morire e Attentato al Papa. La Repubblica delle stragi impunite ha vinto il Premio Roma 2013 per la saggistica. Con la Newton Compton ha pubblicato I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia e L’Italia segreta dei sequestri. Per saperne di più potete visitare la sua pagina Facebook.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854162112
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    Anteprima del libro

    La Repubblica delle stragi impunite - Ferdinando Imposimato

    1

    GLI ALBORI DELLA STRATEGIA DELLA TENSIONE

    Portella della Ginestra, 1° maggio 1947

    Nelle tante ricostruzioni delle pagine più oscure della recente storia del nostro Paese, di solito si fa risalire l’origine della cosiddetta strategia della tensione ai tardi anni Sessanta e soprattutto ai Settanta. In questa sede, invece, vorrei spiegare perché, a mio avviso, la sua radice vada individuata già nel banditismo di Salvatore Giuliano, grande sostenitore della separazione della Sicilia dall’Italia e della sua annessione agli USA, come si evince da una lettera, scritta in un incerto italiano, inviata dal bandito a un non precisato giornale cittadino:

    Signor direttore […],

    nel 1943 quando si costituirono i vari partiti politici, come doveroso principio di vero figlio siciliano, mi associai all’idea del separatismo e di mia propria iniziativa cominciai a studiare come meglio potevo risolvere la situazione. Più tardi capivo come la Sicilia non si poteva governare da sola senza gli accordi internazionale [sic], perché è evidente che in tal caso si potrebbe essere facile preda di uno straniero che li piaceva averla. E anche perché da sola, dato ai disastri della guerra non poteva risolvere la situazione. E allora per ambedue le ragioni dicesi [rectius: decisi] di cercare una nazionale che senza sfruttarci, ci poteva proteggere, inviandoci nella via del benessere materiale e morale. Tale simpatia cadde sull’America, per le sue naturali ricchezze. Con tali proponimenti feci appendere sui muri della città di Palermo delle carte che raffiguravano la Sicilia con una catena legata all’America e un uomo con la spada tagliava la Sicilia dall’Italia. Era chiaro che comprendevo l’annessione della Sicilia alla confederazione americana.¹

    La prima strage, matrice di tutti gli avvenimenti di criminalità politica che si sarebbero svolti e intrecciati in Italia in oltre un quarantennio, fu quella di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947.

    Quel giorno si celebrava la festa dei lavoratori e duemila persone circa, per lo più contadini della zona di Piana degli Albanesi, si erano radunati nella vallata in provincia di Palermo per manifestare in sostegno dell’occupazione delle terre incolte e in opposizione allo strapotere dei latifondisti. Inoltre, a fine aprile di quell’anno, le elezioni per l’assemblea regionale siciliana erano state vinte dal Blocco del popolo (coalizione PSI-PCI), ottenendo ben ventinove rappresentanti contro i ventuno della DC. Un risultato che aveva di certo messo in allarme gli agrari siciliani, ma anche il governo degli Stati Uniti.

    Quel 1° maggio 1947², dalle colline circostanti partirono numerose raffiche di mitra sui manifestanti, lasciando sul terreno, secondo le fonti ufficiali, undici morti (nove adulti e due bambini) e ventisette feriti, alcuni dei quali perirono in seguito per le lesioni riportate. In reazione, la CGIL proclamò lo sciopero generale, accusando i latifondisti siciliani di voler soffocare nel sangue le organizzazioni dei lavoratori. Giuliano ebbe l’acquiescenza di proprietari, agrari e campieri della zona in cui si nascondeva.

    Solo quattro mesi più tardi si seppe che a sparare erano stati gli uomini del bandito Salvatore Giuliano, colonnello dell’EVIS (Esercito volontari indipendenza della Sicilia). Il rapporto dei carabinieri sulla strage faceva riferimento a «elementi reazionari in combutta con i mafiosi locali»³. Si legge ancora nella denuncia dei carabinieri a firma del maresciallo Giovanni Lo Bianco:

    Il bandito non poté fare a meno di osservare l’evolversi della situazione per le conquiste effettuate dai partiti di sinistra, nei comuni di Piana dei Greci, San Cipirello e San Giuseppe Jato, ove si è affermata una maggioranza comunista, sono sorte cooperative (di lavoratori, n.d.a.) che hanno cambiato e tendono a cambiare la situazione dei feudi, le abitudini e la vita che vi si svolge. E Giuliano, nella riunione tenuta in Cippirello, il giorno precedente la strage, dice testualmente ai suoi fedeli: «I comunisti stanno prendendo troppo piede» e accenna a un pericolo per la loro sicurezza e incolumità in conseguenza del nuovo orientamento delle masse popolari.

    Nel 1949, Giuliano scrisse un’altra lettera ai giornali in cui rivendicava la finalità politica della strage, tesi che peraltro fu subito smentita dall’allora ministro degli Interni Mario Scelba. Il 5 luglio 1950, il bandito fu assassinato a Castelvetrano, in provincia di Trapani. Ufficialmente in uno scontro a fuoco con uomini del CFRB (Comando forze repressione banditismo in Sicilia, gruppo interforze di polizia e carabinieri, istituito l’anno prima proprio per dare la caccia a Giuliano), ma poi venne avanzata la teoria per cui sarebbe stato piuttosto il suo luogotenente e cugino Gaspare Pisciotta a ucciderlo. Questi morirà in carcere quattro anni più tardi, avvelenato dopo aver affermato di voler rivelare i nomi dei mandanti della strage. Eppure, negli ultimi tempi vi sono forti dubbi sul fatto che Pisciotta fosse il vero autore dell’omicidio di Giuliano, e il cadavere del bandito è stato addirittura riesumato alla fine del 2010⁵. I magistrati di Palermo, dopo le denunce presentate da storici come Giuseppe Casarrubea, ricercatori come Mario Cereghino e dal medico legale Livio Milone, ne hanno disposto la riesumazione per accertare se l’uomo sepolto fosse proprio Giuliano. Il sospetto, infatti, era che quella seppellita nel cimitero del paesino fosse la salma di un sosia, messa apposta per consentire al bandito, ricercato dai carabinieri, di scappare per lasciare l’Italia. Eppure dubbi sulla modalità della morte del bandito permangono da tempo:

    Un’inchiesta di Tommaso Besozzi, pubblicata dall’«Europeo» nel luglio del ’50, smascherò il depistaggio operato dai carabinieri, che avevano fatto credere che il bandito (tradito dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta, a sua volta ucciso in carcere, con un caffè al cianuro, n.d.a.) fosse stato ucciso, a seguito di un conflitto a fuoco con i militari, nell’abitato di Castelvetrano (Trapani) dove il corpo era stato ritrovato. In realtà, Giuliano sarebbe stato ucciso a tradimento fuori dal paese e poi sarebbe stato portato, già morto, in paese. I carabinieri avevano inscenato un finto conflitto a fuoco nella notte e poi avevano dato l’allarme. Il famosissimo pezzo di Besozzi era intitolato: «Di sicuro c’è solo che è morto». Ora potrebbe venir meno anche quest’unica certezza.

    Ma già il 5 luglio 1950, il rapporto del CFRB aveva denunciato al procuratore generale di Palermo un fatto:

    Alle ore 3:30 di quel giorno, nel centro di Castelvetrano, nel corso di un conflitto sostenuto da squadriglie del corpo, era rimasto ucciso il bandito Salvatore Giuliano […]. La pattuglia che aveva avuto il conflitto era comandata dal capitano Antonio Parenze ed era costituita dal brigadiere Catalano Giuseppe e dai carabinieri Renzi Roberto e Giuffrida Pietro. Alle ore 3:15, mentre l’accerchiamento dell’abitato era al completo, il carabiniere Renzi aveva avvistato due individui armati di mitra, i quali all’intimazione di fermarsi, avevano cercato di dileguarsi; i due malfattori erano affrontati da tutti i militari della pattuglia con un vivace conflitto a fuoco, nel corso del quale, mentre uno dei due era riuscito a dileguarsi, l’altro, individuato per il capobanda Giuliano, inseguito nel cortile di via Mammone, 54, era rimasto ucciso.

    Questa ricostruzione, allora condivisa dal procuratore generale della Corte di Appello e dal giudice istruttore di Palermo, che avevano proceduto al sopralluogo, venne disattesa il 25 settembre 1954 dalla stessa Corte, secondo cui era stato il solo Pisciotta a uccidere Salvatore Giuliano⁸. I dubbi, quindi, restavano.

    La tragedia di Portella della Ginestra, la cui dinamica appare poco chiara anche dopo molto tempo, presentava dunque i segni della collusione fra la mafia e le forze reazionarie dell’isola. La versione ufficiale indicava come responsabili Salvatore Giuliano e la sua banda. Sul movente dell’eccidio furono tuttavia formulate, sia nel rapporto di denuncia sia nei processi⁹, ipotesi di complicità tra pezzi dello Stato e il bandito siciliano. E non solo. Vennero anche indicati alcuni esponenti politici italiani e del governo degli Stati Uniti, che avrebbe fornito armi e sostegno economico e logistico agli autori della strage. A dirlo furono diversi imputati nel processo sull’eccidio, in particolare nel corso del dibattimento svoltosi davanti alla Corte di Assise di Appello di Roma. Tra questi, c’era Antonino Terranova¹⁰. Egli dichiarò che Giuliano aveva ottenuto l’appoggio delle forze separatiste dell’isola, tra cui quello del barone La Motta, e

    che a Palermo nel corso di una seduta avvenuta nell’aprile del 1947, cui parteciparono il sindaco di Palermo Lucio Tasca, l’avvocato Concetto Gallo¹¹ e il colonnello Charles Poletti, proconsole americano a Roma, vicegovernatore dello Stato di New York, si parlò di finanziamento. Il Tasca disse che a Giuliano era stata messa a disposizione una somma non precisata: il barone La Motta gli avrebbe offerto il ricavato della vendita di un fondo in Agrigento, mentre Charles Poletti delle armi automatiche, 36 casse di bombe a mano italiane e 84 divise.¹²

    Pasquale Sciortino – cognato di Salvatore Giuliano e condannato per la strage di Portella della Ginestra – svelò il progetto separatista della Sicilia dall’Italia, che all’interno della banda avrebbe avuto due correnti: la prima, di stampo monarchico-liberale, sostenuta dall’onorevole Andrea Finocchiaro Aprile; e la seconda, repubblicano-socialista, dall’onorevole Antonino Varvaro. Sciortino aveva aderito alla prima. Il futuro cognato di Giuliano aveva conosciuto a casa La Motta il governatore alleato in Sicilia Charles Poletti, l’avvocato Concetto Gallo e l’avvocato Castro Giovanni. Nel corso di una di tali visite a casa del barone La Motta, Gallo e Castro dissero a Sciortino di accompagnarli perché gli

    avrebbero fatto conoscere Salvatore Giuliano. Io accettai l’invito. Era il mese di settembre-ottobre 1945. Ci avviammo e giunti in una località detta Ponte di Lagana, il La Motta scese e fece un segno con un fazzoletto giallo: al che venne avanti un giovane che ci fece proseguire. Sulla sommità di una collina vedemmo un giovane che ci fece segno di avanzare. Come gli fummo vicini il La Motta lo abbracciò e baciò e ci presentò a lui: era Salvatore Giuliano.¹³

    Giuseppe Genovese, un amico di Sciortino, racconterà di essere stato convocato nella contrada Saraceno verso la fine di aprile 1947 da Giuliano in persona, che gli avrebbe proposto di «partecipare a una sparatoria il 1° maggio successivo a Portella della Ginestra e gli confidò che taluni pezzi grossi della politica, coi quali aveva avuto contatti, gli avevano promesso l’amnistia totale di tutti i delitti commessi dalla banda in cambio dell’operazione da effettuarsi»¹⁴.

    E nella sentenza della Corte di Assise di Viterbo del 3 maggio 1952, Gaspare Pisciotta venne accusato «di concorso, per mandato, nella strage di Portella della Ginestra, personalità politiche della Democrazia cristiana e del Partito monarchico, al fine di legarle alla sua sorte, nella mal riposta speranza che, per salvare se stesso dalla trama, avrebbero operato il salvataggio comune di lui e dei suoi compagni»¹⁵.

    Sempre Terranova «denunziò come organizzatori della strage l’onorevole Bernardo Mattarella, l’onorevole Tommaso Leone Marchesano e il principe Gianfranco Alliata. Tramite tra i mandanti e il capo banda, sarebbe stato l’onorevole Giacomo Cusumano Geloso, qualificato ambasciatore tra la banda e Roma»¹⁶.

    La fornitura di armi a Giuliano da parte degli Stati Uniti, inoltre, venne confermata dall’agente americano Michael Stern. Arrivato in Italia in qualità di corrispondente stampa, scrisse, in un libro di memorie molto documentato, di essere stato accreditato come giornalista dal governo degli Stati Uniti il 3 gennaio 1947¹⁷. Egli – con l’appoggio dell’associazione italo-americana con sede negli USA, American Friends of Sicily – era entrato in contatto con Salvatore Giuliano per indurre la Sicilia, che aveva una posizione strategica nel Mediterraneo, ad accettare la protezione statunitense. Giuliano aveva aderito con entusiasmo alle proposte di Stern, cui avrebbe consegnato un messaggio pieno di retorica indirizzato direttamente al presidente Truman, ma aveva chiesto subito anche delle armi, che gli erano state regolarmente fornite¹⁸.

    In un articolo senza data contenuto negli atti della Commissione parlamentare antimafia, si prospettava addirittura l’ipotesi che Scelba fosse stato al corrente di questo traffico di armi tra l’agente Stern e il bandito Giuliano¹⁹. Il governo italiano si difese in via preventiva, prima che l’accusa fosse formulata apertamente. Il 2 maggio 1947 il ministro dell’Interno Scelba intervenne all’Assemblea costituente, sostenendo che dietro all’episodio non vi fosse alcuna finalità politica, e che pertanto andava considerato come un fatto limitato. In quella sede, identificò in Salvatore Giuliano e nella sua banda gli unici responsabili della strage. Che si trattasse della classica excusatio non petita, accusatio manifesta?

    Il processo del 1951, istruito a Palermo e spostato a Viterbo per legittima suspicione, si concluse con la conferma della versione ufficiale. Venne riconosciuta la colpevolezza di Salvatore Giuliano (morto il 5 luglio 1950, ufficialmente per mano del capitano Antonio Perenze) e inflitta la condanna all’ergastolo a Gaspare Pisciotta e ad altri componenti della banda. Quest’ultimo, durante il processo, oltre a rivendicare l’assassinio di Giuliano, lanciò pesanti accuse sui presunti mandanti politici della strage, dicendo:

    Coloro che ci avevano fatto le promesse si chiamavano così: l’onorevole deputato democristiano ononervole Bernardo Mattarella, l’onorevole deputato regionale Giacomo Cusumano Geloso, il principe Giovanni Alliata di Montereale, l’onorevole monarchico Tommaso Leone Marchesano e anche il signor Scelba. Furono Marchesano, il principe Alliata, l’onorevole Mattarella a ordinare la strage di Portella della Ginestra. Dopo le elezioni del 18 aprile 1948, Giuliano mi ha mandato a chiamare e ci siamo incontrati con Mattarella e Cusumano; l’incontro tra noi e i due mandanti è avvenuto in contrada Parrino, dove Giuliano ha chiesto che le promesse fatte prima del 18 aprile fossero mantenute. I due tornarono allora da Roma e ci hanno fatto sapere che Scelba non era d’accordo con loro, che egli non voleva avere contatti con i banditi.²⁰

    In seguito ai riscontri emersi dal processo, diversi parlamentari socialisti e comunisti denunciarono i rapporti tra esponenti delle istituzioni, mafia e banditi. Intervenendo alla seduta della Camera dei deputati del 26 ottobre 1951, Girolamo Li Causi disse:

    Tutti sanno che i miei colloqui col bandito Giuliano sono stati pubblici e che preferivo parlargli da Portella della Ginestra nell’anniversario della strage. Nel 1949 dissi al bandito: «Ma lo capisci che Scelba ti farà ammazzare? Perché non ti affidi alla giustizia, perché continui ad ammazzare i carabinieri che sono figli del popolo come te?». Risposta autografa di Giuliano, allegata agli atti del processo di Viterbo: «Lo so che Scelba vuol farmi uccidere perché lo tengo nell’incubo di fargli gravare grandi responsabilità che possono distruggere la sua carriera politica e finirne la vita».²¹

    I politici accusati di essere i mandanti della strage non subirono processi. I banditi che la eseguirono morirono in circostanze strane. Portella della Ginestra fu uno schema che si riprodusse in seguito molte volte, con identiche modalità e componenti – mafia, politica e istituzioni – da Piazza Fontana fino a Capaci e a Via d’Amelio. Ma cominciamo col descrivere alcune alleanze fondamentali, partendo dal basso fino a risalire ai vertici della piramide.

    La massoneria americana in Italia

    Dove e perché nacque questa architettura diabolica? In un certo qual modo, fu la fratellanza massonica italo-americana il collante silenzioso e discreto dell’alleanza tra politici, servizi segreti delle due nazioni, mafiosi e terroristi²². Fu, in altre parole, la stanza di compensazione tra i vari protagonisti dell’assalto alla democrazia italiana. La massoneria americana ebbe, fin dall’inizio, un ruolo cruciale nella strategia della tensione.

    La fratellanza d’oltreoceano cominciò a esercitare una notevole influenza sulla politica di casa nostra già durante il fascismo e ancor più dal 1945 in poi, soprattutto quando negli USA si scatenò una vera e propria crociata contro qualunque ipotesi di alleanza, in Italia, tra la Democrazia cristiana e i social-comunisti. Per questo si decise di intervenire su diversi fronti. Già nell’ottobre del 1944, il presidente Franklin Delano Roosvelt inviò a Roma un uomo abile nel tessere legami con i servizi segreti di altri Paesi. Era James Jesus Angleton, la figura più enigmatica e carismatica della storia dell’intelligence d’oltreoceano, giunto nella capitale, come capo dell’unità Zeta del servizio X2, ovvero dell’OSS (Office of Strategic Services, la struttura antesignana della CIA). In un documento dell’intelligence USA del gennaio 1945 si rivela che il generale Roberto Bencivenga, massone, aveva aperto in Italia una nuova loggia per facilitare i rapporti con la Gran Bretagna. Secondo il telegramma dell’OSS²³, trovato negli archivi segreti americani, alla loggia avrebbero partecipato perfino i due primi presidenti della Repubblica, Enrico De Nicola e Luigi Einaudi, e alcuni leader dell’Italia prefascista come Vittorio Emanuele Orlando. E un’ulteriore prova sarebbe data dal fatto che proprio De Nicola, lo stesso giorno in cui entrò in vigore la Costituzione, rifiutò il fasto del Quirinale e preferì come dimora presidenziale palazzo Giustiniani, allora sede del Grande Oriente d’Italia, la più potente famiglia massonica del nostro Paese. E mentre andava sempre più affievolendosi l’unità antifascista, si ricostituiva nel frattempo una destra neofascista che accettava di restare esclusa dal potere visibile, ma che sarebbe stata chiamata ben presto a svolgere un ruolo decisivo contro di esso.

    La penetrazione in Italia della fratellanza americana, tuttavia, si fece ancora più pesante a partire dal 1947. In quell’anno, il presidente Truman – massone dichiarato, tanto che durante la sua carica mantenne il trentatreesimo grado e anche quello di maestro venerabile della loggia del Missouri, che convocò periodicamente²⁴ – inviò a Roma un pezzo da novanta della fratellanza, l’italo-americano Frank B. Gigliotti, calabrese di nascita, consigliere capo dell’OSS. Questo gestiva i rapporti tra antifascisti italiani di orientamento anticomunista e gli ambienti mafiosi americani²⁵. La sua venuta fu dovuta alla richiesta degli affiliati di Cosa Nostra alla fratellanza americana di risolvere il problema della riconquista di palazzo Giustiniani da parte del Grande Oriente d’Italia. Gigliotti faceva parte dell’Italian American labour Council, alleato dell’American Committee for Italia Democracy, inquinato da mafiosi e agenti dell’OSS²⁶. E nel marzo di quell’anno, un telegramma dell’ambasciatore USA in Italia segnalava la presenza nel nostro Paese di «duemila fascisti pronti a compiere stragi» e, solo qualche tempo dopo, il ricostituito servizio segreto nostrano ordinava di metter sotto controllo le reti clandestine di ex fascisti e partigiani bianchi che pullulavano nel nord e già operavano sotto la direzione degli americani²⁷.

    In questo scenario, il massone Gigliotti aveva ovviamente una posizione privilegiata. Era consigliere capo dell’OSS di Angleton, che peraltro aveva già stretto molti legami prima con il fascismo e poi con i governi postbellici. Ad esempio, aveva ritenuto interesse degli Stati Uniti assicurarsi i servizi di alcuni uomini di Mussolini. E su ordine dell’ammiraglio Ellery Stone, capo della Commissione alleata di controllo (ACC), salvò il principe Borghese dalla condanna a morte per la sua militanza nella Repubblica di Salò. Borghese, travestito da ufficiale americano, fu portato a Roma e protetto da possibili agguati dei partigiani. Questo procurò all’OSS la riconoscenza e la collaborazione dei sicari neri con gli americani. E proprio nel 1946 Angleton e Gigliotti diedero vita alla CIA²⁸.

    Il viaggio di De Gasperi in America

    Come abbiamo accennato, a volere fortemente la strategia di lotta al comunismo nel nostro Paese fu il presidente Truman. L’Italia viveva una situazione politicamente confusa ed economicamente drammatica. Nel luglio del 1946 e nel febbraio del 1947, De Gasperi formò due governi con i comunisti. La scelta destò enormi preoccupazioni in America, dove non era affatto ben vista. E proprio per gli States partì De Gasperi il 3 gennaio 1947, accompagnato dai dirigenti della Banca d’Italia Donato Menichella e Guido Carli, mentre l’idea del viaggio gli era stata suggerita da Walter Dowling della divisione Affari Europei²⁹, responsabile per l’Italia al dipartimento di Stato americano³⁰. L’economia italiana era in crisi – si diceva – la DC perdeva voti e un memorandum dell’ambasciatore statunitense segnalava il pericolo che il Paese finisse in mano ai comunisti, «affamati e sconfitti»³¹.

    La visita di De Gasperi segnò una svolta cruciale per la politica di casa nostra, proprio come le dimissioni del segretario di Stato James Francis Byrnes avevano determinato una svolta antisovietica della politica americana³². Ciò che restava dell’alleanza di guerra con Mosca scomparve con l’arrivo al dipartimento di Stato del generale George C. Marshall. Questi preannunziò la dottrina Truman di contenimento dell’espansionismo sovietico, associata a offerte di aiuto ai popoli liberi contro la «sovversione interna e le pressioni esterne» e l’Italia divenne il banco di prova della difesa dell’Europa dal comunismo³³. Truman considerava De Gasperi un interlocutore affidabile. La scissione del Partito socialista di palazzo Barberini, avvenuta nel gennaio 1947 e voluta da Saragat, fu l’occasione per una crisi di governo. De Gasperi tentò di spostare a destra l’asse di governo, riducendo la presenza ministeriale delle sinistre marxiste. Pur con la dura opposizione delle forze conservatrici, inoltre, riuscì a formare, nel maggio dello stesso anno, un governo di centro con DC, PLI e indipendenti. Per Truman, i comunisti non dovevano tornare nell’esecutivo. Intanto il 19 giugno 1947 l’Italia notificava formalmente al governo americano la sua intenzione di collaborare a pieno al Piano Marshall per gli aiuti postbellici all’Europa. Lo fece con una nota consegnata dall’ambasciatore italiano a Washington, Alberto Tarchiani, al dipartimento di Stato. E nel maggio 1948 De Gasperi formò un altro governo più solido con Giuseppe Saragat vicepresidente del Consiglio.

    La battaglia contro il comunismo si combatteva dunque su tre binari paralleli: quello politico, quello massonico e quello dei servizi segreti. A questi si aggiunse, alla fine degli anni Sessanta, il linguaggio delle stragi indiscriminate. Sul piano politico si sostennero governi senza comunisti. A livello massonico si cercava di comporre i contrasti tra le varie logge italiane e proporre politici fidati. Ma la lotta più efficace fu combattuta da Angleton e dai suoi vassalli italiani: organizzare attacchi terroristici volti ad allarmare il popolo, ma farne ricadere la responsabilità sui rossi.

    Truman e il National Security Council

    Nella corrispondenza del generale Dwight Eisenhower, capo di Stato maggiore della Difesa, nel 1945, c’era una raccomandazione per i servizi americani: preparare una lista di potenziali agenti segreti italiani di cui servirsi in caso di intervento militare contro i comunisti e i loro simpatizzanti. Era la prima di una lunga serie di indicazioni per arginare la pressione a sinistra da parte del National Security Council, riguardanti sia iniziative politiche sia militari³⁴. In un documento del dipartimento di Stato USA del 7 luglio 1947, Walter Dowling della divisione Affari Europei³⁵, scrisse:

    Temo che Gigliotti, membro dell’OSS, stia cercando di riattivare la vecchia banda dell’OSS in Italia come mezzo per combattere il comunismo. Ho avuto due incontri con Gigliotti. Egli ritiene essenziale che Saragat entri nel governo. Ha detto che Joe Lupis ne ha parlato con Ivan Matteo Lombardo e questi è d’accordo. Ha fatto i nomi di due altri italiani che possono aiutare ad allineare i partiti non comunisti al governo: Publio Cortini e il colonnello Randolfo Pacciardi.³⁶

    Il 14 novembre 1947, il National Security Council approvò un testo che passò alla storia: era il NSC 1/1: The position of the United States with respect to Italy³⁷, con cui venne deciso che, in caso di rivolta comunista, gli americani non sarebbero restati passivi. Il 17 dicembre 1947 il PSDI di Giuseppe Saragat e il PRI di Randolfo Pacciardi entrarono nel governo di Alcide De Gasperi, spezzando così l’unità antifascista³⁸.

    Il 20 febbraio 1948, il National Security Council approvò una nuova stesura più esplicita delle sue direttive per l’Italia. Le forze armate americane ebbero l’ordine di intervenire se alla vittoria della DC fosse seguita una sollevazione comunista. Ma il successo del partito di De Gasperi non era affatto sicuro. La scissione dei socialdemocratici di Saragat, inoltre, non indebolì il Partito socialista italiano di Pietro Nenni, che in gennaio costituì il Fronte popolare con il PCI. L’ambasciatore americano a Roma, Dunn, era convinto che i comunisti fossero in grado d’impadronirsi del potere con mezzi legali alle elezioni politiche del 18 aprile 1948.

    Alla vigilia delle elezioni, Truman comunicò al governo italiano che gli Stati Uniti sarebbero intervenuti nel nostro Paese con il loro peso economico, politico e militare in caso di necessità di difesa dal comunismo. E minacciò di revocare gli aiuti del piano Marshall se l’Italia fosse diventata rossa.

    In realtà, le elezioni diedero un esito positivo per la Democrazia cristiana, che ottenne il 48 percento, mentre il Fronte popolare il 31, l’Unità socialista il 7,1, il Blocco nazionale il 3,8, il Partito nazionale monarchico il 2,8, il Partito repubblicano italiano il 2,5 e il Movimento sociale italiano il 2. Fu una boccata di ossigeno per l’America.

    Intanto Truman pensò di intensificare l’intervento della massoneria statunitense in Italia. La fratellanza avrebbe agito in tutti i settori della difficile guerra manovrando politici, servizi, terroristi e imprenditori. Cosa che puntualmente sarebbe avvenuta, come si vedrà nel corso del libro. Il 18 maggio 1948, poi, Truman scrisse al sottosegretario di Stato, Robert A. Lovett, e lo informò di aver ricevuto molte lettere da parte dei fratelli massoni americani e stranieri. Volevano sapere perché il governo italiano non aveva restituito palazzo Giustiniani, confiscato da Mussolini, agli affiliati d’Italia³⁹. Il presidente chiese al sottosegretario di fare ogni tentativo affinché l’edificio ritornasse alla sua legittima proprietaria: la loggia del Grande Oriente. Una lettera con tale richiesta fu inviata dal sottosegretario di Stato all’ambasciatore americano a Roma Dunn, per favorire la risoluzione del caso⁴⁰.

    L’ambasciatore rispose a Lovett, che chiamava fraternamente «dear Bob», con una lettera in cui assicurava che i massoni italiani stavano facendo tutto il possibile per ottenere la restituzione di palazzo Giustiniani⁴¹. E nel 1948 venne nominato ambasciatore l’inflessibile James David Zellerbach, osannato dalla maggioranza degli italiani e nemico giurato dei comunisti.

    A Roma, Gigliotti e i suoi potevano contare sull’aiuto del neo-ambasciatore, oltre che su uomini della diplomazia e delle gerarchie militari, tra cui Goodwin Knight, ex governatore della California, William Standley, ex ambasciatore, e Christian S. Herter, segretario di Stato alla Casa Bianca⁴². Ma la presenza di Gigliotti in Italia serviva soprattutto la causa della lotta al comunismo con ogni mezzo. L’America era sempre più ossessionata dal pericolo della vittoria del Partito comunista. E cominciò ad agire, sia sul piano politico sia su quello del terrore, servendosi dell’aiuto dei neo-ricostituiti servizi segreti italiani.

    Le logge NATO in Italia nel 1961

    La potenza della massoneria americana in Italia era destinata a espandersi. Essa riuscì a impiantare, agli inizi del 1961, ben sette logge in altrettante basi NATO. Artefice della penetrazione massonica americana in Italia fu, ancora una volta, Frank Gigliotti. Insignito del grado di gran maestro onorario a vita, membro emerito del supremo consiglio italiano del rito scozzese e rappresentante per l’Italia alla Conferenza di Washington, Gigliotti ottenne il riconoscimento da parte dei fratelli italiani delle logge NATO, presenti nelle basi militari americane in Italia: la B. Franklin di Livorno, la Aviano in Friuli, la H.S.Truman presso il comando di Bagnoli, in provincia di Napoli, la Colosseum di Roma, frequentata dal corpo diplomatico e militare dell’ambasciata americana, la J.L. McClellan a San Vito dei Normanni nelle Puglie. Ma le più importanti furono le due logge della FTASE (Forze terrestri alleate del Sud Europa), comando operativo della NATO per il Sud Europa. Esse erano la Verona American Lodge, attiva nella città scaligera, e la G Washington di Vicenza, dove aveva sede la V ATAF (Forza aerea tattica americana)⁴³.

    La commissione presieduta da Tina Anselmi sulla P2 scrisse che nel 1960 i fratelli americani erano intervenuti, attraverso Gigliotti, in una difficile operazione. Quella di unificare il supremo consiglio della Serenissima Gran Loggia degli ALAM del principe siciliano Giovanni Alliata di Montereale, finito nelle file gelliane, con il Grande Oriente d’Italia. Scrisse la commissione sulla P2.

    Sembra che l’unificazione del Grande Oriente con la massoneria di Alliata, di forte accentuazione conservatrice, era stata la condizione posta da Gigliotti, mosso da un anticomunismo viscerale, in cambio dell’intervento americano nelle trattative con il governo italiano concernenti il palazzo Giustianiani […]. Non solo, si deve rilevare, secondo quanto emerge da queste vicende, che il progetto di unificazione della massoneria italiana sembra corrispondere a interessi non esclusivamente autoctoni, ma risalta alla nostra attenzione la comparsa di Gelli sulla scena quando Gigliotti scompare, secondo una successione di tempi e una identità di funzioni che non può non colpire significativamente.⁴⁴

    Era un fatto concreto l’ingerenza dei servizi segreti degli Stati Uniti e del governo di Washington nella politica italiana tramite la massoneria o sue corpose componenti, anche in collusione con organizzazioni criminali come la mafia e con i terroristi⁴⁵.

    Kennedy e Moro nel 1963

    Partito Gigliotti, fu Gelli ad assumere un ruolo cruciale nella lotta al comunismo in Italia. C’è da dire, tuttavia, che l’avvento di Gelli era stato criticato dalla stessa massoneria per i suoi metodi spregiudicati. Aveva reclutato molti ufficiali dell’esercito, della marina e dell’aeronautica. Nella lettera del 23 settembre 1969, l’agronomo Prisco Brilli, dignitario del Grande Oriente, consigliere dell’ordine, denunziò così l’inquinamento della Fratellanza:

    In occasione della Agape Bianca tenutasi all’Hilton nella ricorrenza del XX Settembre, il fratello colonnello Gelli della loggia P2 avrebbe comunicato al fratello Salvini che il gran maestro avrebbe iniziato sulla spada 400 alti ufficiali dell’esercito al fine di proporre un governo dei colonnelli, sempre preferibile a un governo comunista.⁴⁶

    Ma il vento stava cambiando. Nell’autunno del 1963, il politico DC Aldo Moro costituì un governo con i socialisti. Subito dopo, Kennedy avallò l’operazione, scavalcando le resistenze della diplomazia americana. E invertendo la direttiva del presidente Eisenhower del 1953, contraria ad accordi tra cattolici e socialisti. Egli vinse anche la dura opposizione della CIA, che operava sotto la guida di Allen Dulles, e venne persino a Roma per dare la sua benedizione alla svolta di Moro.

    L’onorevole fu felice del successo dovuto al sostegno del presidente americano. Tuttavia rimase profondamente turbato, pochi giorni dopo, dall’assassinio di Kennedy. E, in effetti, era iniziata un’offensiva feroce e sotterranea contro gli strateghi della nuova frontiera, accusati di aprire ai comunisti minacciando la sicurezza del mondo occidentale…

    Le memorie di Kissinger

    Per capire ancora una volta l’importanza cruciale della politica italiana, e la sua stretta connessione con quanto avveniva oltreoceano, basterà ricordare cosa pensava uno dei protagonisti di quegli anni: Henry Kissinger, già segretario di Stato sotto Nixon e Ford. Nel suo libro Gli anni alla Casa Bianca, lanciò un duro attacco all’Italia e alla prudenza legalitaria degli americani:

    L’eterna ossessiva idea americana delle soluzioni istituzionali complicava il problema. Per quasi tutto il dopoguerra l’Italia era stata governata da una coalizione composta dai democristiani e da partiti moderati di destra e di sinistra. I socialdemocratici rappresentavano l’estrema sinistra della coalizione governativa; la loro caratteristica distintiva era costituita dal rifiuto della collaborazione coi comunisti. L’opposizione era rappresentata dai comunisti stessi, dai socialisti di sinistra e dai fascisti. Nel 1963 gli Stati Uniti decisero di sostenere la cosiddetta apertura a sinistra.

    Qui l’attacco andava anche a John F. Kennedy, il principale sostenitore dell’apertura ai socialisti. «La cosa, almeno così si sperava, avrebbe isolato i comunisti», scrisse Kissinger, aggiungendo: «Gli esiti ultimi della coalizione si rivelarono, sia pure a distanza di dieci anni da quel momento, diametralmente opposti a quelli sperati. Regredirono a ogni nuova elezione, fino a diventare insignificanti». E qui la stoccata finale a Kennedy e a Moro:

    Così, lungi dall’isolare i comunisti, l’apertura a sinistra, li fece diventare l’unico partito di opposizione vero e proprio. Distruggendo i partiti democratici più piccoli, l’esperienza del centro sinistra privò il sistema politico italiano della necessaria elasticità. Da qui in poi tutte le crisi di governo avrebbero avvantaggiato i comunisti; l’Italia si trovò a scegliere tra una Democrazia cristiana congelata nel suo immobilismo e una svolta antidemocratica radicale.

    Nella battaglia politica contro Kennedy era impegnato ovviamente anche Licio Gelli. Amico di capi di Stato in Italia e negli Stati Uniti, di boss di Cosa Nostra, di dirigenti dei servizi e dei vertici delle forze armate e delle forze di polizia. Molti di questi appartenevano alla grande fratellanza massonica, alla quale aderirono in Italia, con gli anni, anche i vertici di Cosa Nostra.

    Secondo Aldo Mola, studioso della massoneria, Gelli mise a punto un piano di difesa dell’Italia dal partito orientale. In esso prospettava un pericolo: che taluno mirasse, d’intesa con il PCUS e i servizi segreti dell’Unione Sovietica, a disgregare le basi della democrazia rappresentativa. Per evitare questo pericolo, Gelli invocò il ricorso a «estremi provvedimenti», che altro erano se non le «operazioni speciali» inventate dalla CIA come espressione della «guerra non ortodossa». E cos’altro erano gli omicidi di Moro e di Kennedy, se non operazioni speciali della CIA?

    Su richiesta della massoneria americana, Gelli aveva

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