Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L'Italia segreta dei sequestri
L'Italia segreta dei sequestri
L'Italia segreta dei sequestri
E-book323 pagine3 ore

L'Italia segreta dei sequestri

Valutazione: 5 su 5 stelle

5/5

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Postfazione di Ilario Martella

Documenti inediti

Dal caso Moro a Emanuela Orlandi, le inchieste shock del giudice delle verità scomode

La storia d’Italia è stata spesso funestata dalla piaga dei rapimenti, da quelli estorsivi a quelli dell’Anonima sequestri, da quelli di stampo mafioso a quelli politici, fino a quelli simulati a scopo di ricatto, talvolta conclusi anche con la morte della vittima, dopo mesi o anni di prigionia.
Molti sono i casi rimasti impressi nella memoria collettiva per la fama dei soggetti implicati: da Paul Getty III (nipote dell’omonimo petroliere americano) al noto gioielliere Gianni Bulgari, dal duca Massimiliano Grazioli (il primo grande colpo della famigerata Banda della Magliana) a Michele Sindona (che arrivò a simulare il proprio sequestro). Altri, invece, hanno tenuto col fiato sospeso l’intera nazione, che seguiva passo dopo passo il destino delle vittime, come nei casi di Mirella Gregori ed Emanuela Orlandi, scomparse entrambe nel 1983 e mai più ritrovate, e sulla cui complessa vicenda si continua ancora oggi a indagare.
Il giudice Ferdinando Imposimato – che si è occupato in prima persona delle principali inchieste su alcuni controversi casi di sequestro di persona (tra cui, quelli di Moro, Sindona, Orlandi) – ci offre una mappatura di questo fenomeno: un crimine che, sebbene non sia soltanto un’anomalia italiana, ha trovato nel nostro Paese un terreno particolarmente fertile nella mafia e nel terrorismo.

I misteri dei grandi sequestri italiani svelati dal giudice che li ha seguiti in prima persona e ha fatto riaprire il caso Moro

Hanno scritto dei suoi libri:

«Mette in dubbio la verità ufficiale con la forza di una rigorosa e inedita ricostruzione. (…) L’ex giudice fornisce una meticolosa lettura di atti e verbali, numerosi indizi inediti e testimonianze nuove di zecca di due militari a conoscenza dei fatti.»
Silvana Mazzocchi, la Repubblica

«Il libro che ha convinto la procura di Roma a riaprire l’inchiesta sulla morte di Aldo Moro.»
L’Espresso

«Un libro che va letto non come un libro in più sul caso dell’unico leader politico italiano sequestrato e assassinato, ma come la parte di una narrazione (e dunque di una documentazione) che non c’era.»
Furio Colombo, Il Fatto quotidiano

«Con puntiglioso rigore e coraggio, Ferdinando Imposimato continua a mettere insieme i tasselli mancanti sul caso Moro. Nel suo ultimo libro
il giudice svela e riordina alcuni lati oscuri.»
Andrea Di Consoli, Il Sole 24 Ore

Tra i temi trattati nel libro:

• Il rapimento di Paul Getty jr
• 1975. Il boom dei sequestri
• il caso Bulgari
• i sequestri dei marsigliesi
• il rapimento del duca Massimiliano Grazioli
• il caso di Giovanna Amati
• il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro
• il falso sequestro di Michele Sindona
• i colpi della banda delle belve
• Mirella Gregori ed Emanuela Orlandi: due misteri ancora irrisolti


Ferdinando Imposimato
È nato nel 1936, avvocato penalista, magistrato, è Presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione. È stato giudice istruttore in alcuni dei più importanti casi di cronaca degli ultimi anni, tra cui il rapimento di Aldo Moro, l’omicidio di Vittorio Bachelet, l’attentato a Giovanni Paolo II. Grand’ufficiale dell’ordine al merito della Repubblica italiana, ha ricevuto diverse onorificenze in patria e all’estero per il suo impegno civile. È stato anche senatore, prima nelle liste del PDS e poi del PD. È autore di numerosi saggi, tra cui ricordiamo Vaticano. Un affare di Stato e, con Sandro Provvisionato, Doveva morire e Attentato al Papa. La Repubblica delle stragi impunite ha vinto il Premio Roma 2013 per la saggistica. Con la Newton Compton ha pubblicato I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia e L’Italia segreta dei sequestri. Per saperne di più potete visitare la sua pagina Facebook
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854159570
L'Italia segreta dei sequestri

Correlato a L'Italia segreta dei sequestri

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Criminalità organizzata per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su L'Italia segreta dei sequestri

Valutazione: 5 su 5 stelle
5/5

1 valutazione0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L'Italia segreta dei sequestri - Ferdinando Imposimato

    es

    181

    Il presente saggio ricostruisce alcuni casi di sequestri di persona attraverso l’analisi dei documenti delle commissioni parlamentari, delle testimonianze raccolte, degli atti dei procedimenti giudiziali, nonché dei volumi che si sono occupati di tali vicende. Riguardo le singole responsabilità di tutte le persone citate per gli episodi non più oggetto di indagine o di processi, anche a fronte di accuse di terzi e di chiamate in correità, riportate per esigenze narrative e di completezza dell’analisi svolta, vale quanto scritto nelle sentenze passate in giudicato e, in caso di mancanza di una sentenza, la presunzione di innocenza.

    Prima edizione ebook: ottobre 2013

    © 2013 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-5957-0

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Ferdinando Imposimato

    L'Italia segreta dei sequestri

    Le inchieste shock dal caso Moro a Emanuela Orlandi

    omino

    Newton Compton editori

    Ai miei nipoti Francesco e Federico.

    Allora, quando il mio animo trovò sollievo dopo sventure e pericoli, e decisi che il resto della vita l’avrei trascorso lontano dalla politica, non fu mia intenzione di lasciar consumare il tempo nella pigrizia e nell’inoperosità, […] ma, ritornato alla primitiva occupazione, ossia lo studio, dal quale la nefasta ambizione politica mi aveva allontanato, decisi di scrivere i fatti storici di Roma, per sommi capi, a seconda che sembrassero degni di memoria, tanto più che il mio animo era ormai liberato da inutili speranze, da paure, da legami politici. 

     Sallustio, La congiura di Catilina, 4

    Introduzione

    La lotta ai sequestri di persona ha rappresentato l’esperienza più straordinaria della mia vita di giudice istruttore. Di solito ho sempre affrontato il rapimento, essendo un reato permanente, proprio mentre l’ostaggio era nelle mani dei banditi (tranne che nel caso Moro, purtroppo affidatomi dopo la morte del presidente dc). E la mia responsabilità non riguardava la valutazione di un reato già commesso e dei suoi autori, ma il modo per affrontare un delitto in via di esecuzione. Una questione non semplice, poiché occorreva da una parte tenere conto del principio superiore di legalità, che imponeva allo Stato di impedire che il reato venisse portato a ulteriori conseguenze, ma anche il diritto inviolabile alla vita del rapito, che poteva essere leso da una scelta errata del giudice istruttore, dominus di ogni decisione nella fase dell’istruttoria formale.

    Il rischio di commettere un errore e provocare la morte del rapito era enorme e presente in tutti i casi di sequestro. Spesso l’impreparazione militare o la malasorte portava anche al fallimento delle operazioni di interdizione del pagamento dei riscatti, con conseguenti rappresaglie sull’ostaggio. In qualche caso, neppure l’arresto dei complici nel corso del sequestro era servito a fare desistere i rapitori dal mantenere la vittima in prigionia.

    Nella fase iniziale dei rapimenti, lo Stato, nelle sue varie componenti, rimase del tutto inerte per timore di mettere a repentaglio la vita del rapito. E nei primi tempi si assistette così all’umiliazione delle istituzioni, sotto gli attacchi di feroci banditi alla libertà di donne, bambini e anziani. Spesso non ci fu alcuna reazione sul piano della repressione, con la conseguente impunità di criminali pericolosi. Dopo che conseguii un buon successo nella scoperta del corpo di Francesco Papaldo, rapito e ucciso, e nella cattura dei suoi spietati aguzzini, il mio capo dell’epoca, Achille Gallucci, ritenne di affidarmi tutti i casi di sequestri di persona commessi da associazioni di stampo mafioso italiane e straniere, concentratesi negli anni Settanta a Roma, divenuta la Mecca della malavita organizzata internazionale. A quel tempo, non era ancora nata l’idea di un pool antimafia e tutto il lavoro gravò sulla mia modesta persona. Per molto tempo il fenomeno venne sottovalutato e spesso ignorato. Eppure le ripercussioni sul piano sociale furono enormi e riguardarono non solo ricchi industriali, proprietari terrieri o professionisti affermati, ma anche modesti commercianti, che i banditi avevano deciso di fare rientrare nel novero delle vittime da colpire. Sempre più spesso, il sequestro di persona divenne una forma di ricatto sociale o politico o di vendetta, trasformandosi in un’aggressione contro i soggetti più vulnerabili come donne, bambini, anziani. Ciò finì per creare una situazione di terrore e di instabilità, tale da indurre molte persone a lasciare il Paese o a ridursi a vivere da reclusi, rinunciando a qualunque rapporto sociale. Intanto le istituzioni, rimaste assenti e inerti di fronte all’espandersi del fenomeno a macchia d’olio dalla Sardegna a tutto il territorio nazionale, presero finalmente coscienza con molto ritardo delle gravi ripercussioni dell’attività criminale sull’ordine sociale, sull’economia, sulla convivenza civile e sulla credibilità stessa dello Stato. Cominciò a crearsi la consapevolezza che non poteva esserci alcuna giustificazione morale o politica ai sequestri di persona – ritenuti all’inizio da parte dell’opinione pubblica quasi come strumenti di redistribuzione della ricchezza del Paese – poiché era un fenomeno che affondava le sue radici nel mondo della criminalità economica e del riciclaggio. Erano questi tipici delitti dei colletti bianchi, che interessavano i vertici della mafia, della camorra e della ’ndrangheta, ma si servivano di professionisti insospettabili che provvedevano a ripulire il denaro sporco: banchieri senza scrupoli, imprenditori d’assalto, pronti a offrire le loro imprese a capitali sospetti. Questa complessa attività venne alla luce grazie ad accertamenti bancari da me svolti sull’organizzazione dei marsigliesi, alleata della Banda della Magliana, oltre che da un’indagine conoscitiva svolta assieme a giornalisti, avvocati, docenti universitari, funzionari della Squadra Mobile, ufficiali dell’Arma e della Guardia di Finanza. Tutto questo al fine di controllare la congruità e l’adeguatezza della risposta dello Stato sul piano legislativo, politico e organizzativo.

    Apparve chiaro che il sequestro di persona raggiunse in quegli anni – con circa 600 persone rapite, di cui 50 uccise – un fatturato impossibile da quantificare ma che poteva essere stimato nell’ordine di centinaia di miliardi. Esso era uno dei delitti trainanti nel contesto della vasta gamma dei delitti di ogni genere commessi dal crimine organizzato[1]. Un sistema che richiedeva, per la sua esecuzione, un’organizzazione complessa e articolata, con persone di ogni livello sociale, ognuna delle quali aveva un ruolo preciso e distinto da quello di tutti gli altri. Anzitutto, c’erano gli informatori, che fornivano elementi sul patrimonio della vittima e sulle sue abitudini di vita; poi gli esecutori, incaricati di catturare l’ostaggio e di portarlo nella prigione; i carcerieri, molto spesso donne che facevano da copertura, se il rapimento si svolgeva in Italia, e altre volte latitanti calabresi, sardi o napoletani; e ancora, coloro che si incaricavano di riciclare il denaro, anche con investimenti in attività lecite. Una parte dei soldi provenienti dai riscatti veniva utilizzata in traffico di droga e armi, nella tratta di esseri umani, nell’usura, nelle rapine e negli omicidi, negli appalti di opere pubbliche, nelle attività turistiche, e nell’acquisto di reti tv locali, oltre che nel sostegno elettorale a candidati amici.

    A Roma vennero rapiti tutti i tipi di ostaggi: bambini, donne, vecchi e giovani, appartenenti a ogni categoria produttiva (imprenditori edili, commercianti, industriali, produttori cinematografici, medici, farmacisti, professori universitari, proprietari di cinema, gioiellieri, dirigenti di azienda, e ovviamente i familiari di queste persone). Nel campo dei sequestri con finalità politica, vennero catturati magistrati (tra cui Giuseppe di Gennaro e Francesco D’Urso), uomini di governo e anche cittadini vaticani da usare per ricattare figure religiose e autorità istituzionali. Non sempre il pagamento del riscatto fu il vero obiettivo dei rapitori. In alcuni casi, veniva chiesto lo scambio dei prigionieri, come avvenne nel caso dei rapimenti di Mirella Gregori ed Emanuela Orlandi.

    Nel Lazio e sul territorio nazionale operarono tutte le anonime sequestri presenti in Italia, che facevano indistintamente perno sulla malavita romana, forte e ben organizzata dopo la nascita e la trasformazione della Banda della Magliana, una vera e propria agenzia criminale di matrice mafiosa.

    Ma il fenomeno più diffuso fu la scomparsa di moltissime persone, che non hanno mai più fatto ritorno a casa o nei luoghi di lavoro. Non si tratta di pochi casi isolati, ma di centinaia e forse di migliaia, di cui non si hanno notizie da decenni. Le storie più famose riguardano Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, due adolescenti scomparse nella primavera-estate del 1983. Oltre a questi casi, però, ce ne sono molti altri, più o meno noti: c’è stata la sparizione di Emanuele Riboli, quindici anni, del duca Massimiliano Grazioli, del commerciante Nazzareno Fedeli, della piccola Denise Pipitone scomparsa in Sicilia, cui si aggiungono prima ancora i casi dello scienziato Ettore Majorana, del grande economista Federico Caffè, di Paolo Adinolfi, magistrato integerrimo che lavorava alla sezione fallimentare del Tribunale di Roma, sparito nel 1994, del sindaco di Battipaglia svanito sessant’anni fa, del giornalista Mauro De Mauro, solo per citarne alcuni. In tutte queste vicende, la fantasia dei cronisti e degli scrittori si è sbizzarrita nel proporre le soluzioni più fantasiose, spesso legate al desiderio di suscitare la morbosa curiosità dell’opinione pubblica. Occorre invece riconoscere che la risposta su cosa sia accaduto a ciascuna di queste persone non è agevole; certo, può essersi trattato di episodi di suicidio, di incidenti mortali occasionali o di veri e propri sequestri con soppressione di cadaveri; e ancora, di traffico di minori per i loro organi o per sfruttamento sessuale, di fughe volontarie oppure obbligatorie per sottrarsi a condanne giudiziarie o vendette. Certo è che in ciascuno di questi casi occorre far funzionare la prova logica e il buon senso, tenendo conto delle circostanze in cui avvennero le singole sparizioni. Ed è quello che abbiamo cercato di fare parlando in particolare dei casi di Mirella Gregori e di Emanuela Orlandi, ancora oggi circondati da un interesse patologico di parte del pubblico, propenso a vedere scandali sessuali e non solo in ogni vicenda che sfiora il Vaticano, con l’immancabile coinvolgimento di prelati pronti a tutto.

    Questa ricerca, in poche parole, vuole evitare di dare per assodato ciò che invece è avvolto nel mistero, nella speranza di compiere insieme ai lettori un breve tratto comune nella via lunga che conduce alla verità, spesso accertata lontano dalle aule dei tribunali o dalle pagine dei giornali.

    1. Il caso di Francesco Papaldo

    Quello di Francesco Papaldo fu un caso di straordinario interesse mediatico, dovuto soprattutto all’ambiente frequentato dalla vittima (in particolare il ristorante e night club nel cuore dei Parioli dove ogni sera si ritrovavano bellissime aspiranti dive), alla notorietà di alcuni protagonisti, agli intrecci amorosi retrostanti quella drammatica vicenda, ai continui colpi di scena circa i presunti ritrovamenti del corpo del giovane scomparso, in varie parti d’Europa, e al suo effettivo rinvenimento da parte mia nella pineta di Castel Porziano due anni dopo la sua sparizione, con l’aiuto di uno degli assassini.

    Il fatto

    La scomparsa di Francesco Papaldo, giovane alto e prestante, avvenne quando egli aveva ventitré anni, la sera del 10 marzo 1973, intorno alle 22, subito dopo che si era allontanato dal locale notturno in cui lavorava come direttore e portiere di notte. Secondo le dichiarazioni di chi lo aveva visto quella sera nel night, la vittima avrebbe detto ad alcuni amici che erano dentro l’esercizio: «Esco per qualche minuto e rientro subito». Lo studente-direttore si sarebbe così allontanato dal locale (chiamato Francis) in tutta fretta salendo su una fiat 130, che lo attendeva in strada. A bordo c’era una sola persona, seduta al posto di guida. Una circostanza che si rivelò attendibile poiché l’auto di Papaldo fu trovata parcheggiata nelle vicinanze del night. Tuttavia, anche in quel caso, come in altri simili, fiorirono le testimonianze di visionari che lo davano presente, dopo la scomparsa, all’Hippopotamus, altro locale in via Romagnosi, dove sarebbe apparso per qualche attimo.

    Ma – al di là delle fantomatiche visioni di alcuni testimoni – la verità è che da quella notte si persero le tracce del giovane Papaldo: Francesco si era dissolto nel nulla, sparito, volatilizzato senza dare più notizia di sé. Cominciarono le ricerche e affiorarono le diverse possibili ipotesi, tra cui quella della fuga volontaria, del sequestro di persona o dell’omicidio.

    Le indagini

    Papaldo era uno studente universitario del quarto anno di Giurisprudenza, che non brillava particolarmente negli studi, era figlio di un direttore generale del ministero del Tesoro e apparteneva alla buona società dei Parioli. Per guadagnare qualcosa e rendersi indipendente dalla famiglia, aveva accettato di fare il direttore del Francis, in via Luciani. Il locale era gestito da due uomini che erano in qualche modo inseriti nel mondo dello spettacolo: un giovanissimo e brillante Renzo Arbore, che sprigionava una forte carica di simpatia, e l’imprenditore Fabrizio Bogianchino. Quest’ultimo era proprietario di un altro famoso locale notturno romano, la Cabala, nella zona dei Castelli, ed era allora sposato con Donatella Raffai, l’arguta futura conduttrice della trasmissione televisiva Chi l’ha visto?

    Dopo l’improvvisa scomparsa di Francesco, alcuni – e tra questi i suoi familiari – furono indotti a pensare a un viaggio all’estero per motivi sentimentali, e altri ancora a un sequestro di persona legato al traffico di droga. Non mancava chi pensava a un omicidio, ma non c’erano prove né indizi a conferma di tale ipotesi estrema. Le indagini iniziali della Procura di Roma, tuttavia, puntarono verso un’altra direzione: Francesco Papaldo sarebbe stato da tempo invischiato in un torbido giro della malavita romana e punito per essere venuto meno a un impegno preso. Ma si trattava di un’ipotesi di comodo, priva di qualunque riscontro oggettivo: Francesco non aveva mai avuto rapporti equivoci con persone della criminalità, tranne quelli casuali che potevano avvenire nel locale in cui lavorava. La trama non era così semplice da decifrare. I genitori della vittima e le sue tre sorelle – dopo l’illusione iniziale, poi svanita, di una fuga d’amore in luoghi lontani – ripiegarono sull’ipotesi di un sequestro a fini di estorsione e rimasero in attesa spasmodica di una richiesta di riscatto. In questo caso sarebbe stata fornita la prova da parte dei sequestratori che il ragazzo era in vita, condizione indispensabile per il pagamento. Ma nulla del genere accadde. Il telefono tacque, salvo che per qualche immancabile chiamata di sciacalli.

    Le indagini presero due direttrici: una seguita dal pm Francesco De Nardo, convinto che la sparizione fosse legata al movente della droga, in particolare alla cocaina, che si sussurrava fosse spacciata e consumata nel locale notturno, ma senza un brandello di prova. L’altra, seguita dalla polizia giudiziaria, era quella dell’improvvisa decisione di farsi una nuova vita da parte del giovane, che sarebbe fuggito all’estero per sottrarsi a problemi insorti con persone del suo ambiente. Ma tutto era vago e confuso nella mente degli inquirenti e dei giornalisti, che dovevano dare notizie e cercavano soluzioni basate su intrighi amorosi. Il primo problema che si pose fin da subito – come in tutti i casi di sequestro di persona – fu quello di stabilire se Francesco era morto o se invece fosse ancora vivo, ma non libero. La famiglia era propensa a crederlo in vita, sulla base di un messaggio senza data trovato dalla polizia a casa di una bella hostess dell’Alitalia, Carla Viglini, che era tornata a vivere con Papaldo dopo una breve relazione con un altro ragazzo, di cui ci occuperemo tra poco. Nel messaggio lo scomparso aveva scritto: «Vado via, torno presto, Francesco»[2]. Nient’altro, ma la grafia era certamente di Papaldo, come riconobbero la madre e la Viglini.

    Il 12 marzo 1973, due giorni dopo la scomparsa, giunse finalmente in via Vetulonia 38 (dove abitavano i genitori di Francesco) una telefonata anonima, che troncò le speranze dei familiari. Una voce maschile, giovanile, in perfetta lingua italiana, annunciò al padre in modo brutale: «Vi avverto che a Francesco è accaduto qualcosa di brutto». Il padre si rassegnò, anche se non del tutto, all’idea che il figlio fosse stato vittima di un delitto. Decise così di denunciare la scomparsa, quello stesso 12 marzo 1973, ai carabinieri della compagnia Parioli, guidata dal capitano Prospero Prosperi, che si avvaleva della collaborazione di due valorosi sottufficiali, Giuseppe Barra e Alfonso Minicucci. Iniziarono le ricerche e le indagini condotte sotto la guida di un bravo e preparato pm, il già citato De Nardo, della Procura della Repubblica di Roma. Gli investigatori cominciarono a esaminare a ritroso la vita del giovane, secondo le buone regole della criminologia: individuare l’autore studiando prima di tutto la vita e i rapporti della vittima con amici e conoscenti. È infatti noto che, nella maggior parte dei casi, l’autore di un omicidio è da ricercarsi, prima di tutto, nell’ambiente della vittima, e poi in altri contesti anche non ufficiali. Ogni persona può avere frequentazioni improbabili e sconosciute anche ai familiari.

    Gli investigatori dell’Arma svolsero un’indagine frenetica nei vari ambienti più o meno puliti dei Parioli e dintorni, finché non venne fuori un nuovo personaggio: Luigi Sarasini. I carabinieri arrivarono a lui tramite comuni conoscenti dello stesso Sarasini e di Francesco, tra cui la Viglini. Ventiquattrenne, figlio del proprietario di un noto concessionario di auto della capitale, Sarasini viveva all’Eur, in una villa lussuosa che suscitava invidia per la sua straordinaria bellezza e sontuosità: giardini esotici, fontane, piscina, palme, profumo di fiori. L’ambiente era quello di persone facoltose e benestanti e non di gente che viveva a contatto con la malavita. Controlli telefonici e personali, pedinamenti, esami testimoniali, soffiate di informatori: in due settimane vennero sentite dai carabinieri oltre cinquecento persone, eseguite più di cento perquisizioni e compiute decine di battute a Roma e dintorni. Gli investigatori scartarono la pista della fuga volontaria: si convinsero che Papaldo non si fosse allontanato sua sponte. Le ipotesi più probabili erano il rapimento oppure l’omicidio; o, peggio ancora, prima l’uno e poi l’altro. Ma di tutto questo non esisteva prova: Francesco non era stato trovato né vivo, né morto, nonostante le ricerche fossero state estese a vasto raggio dentro e fuori la capitale. Un collegamento tra Papaldo e Sarasini saltò fuori dopo l’esame della già citata Viglini, la fidanzata dello scomparso. L’avvenente donna, originaria di Varese, aveva conosciuto Francesco nel club Cabala, ove lo studente aveva fatto il direttore-portiere, prima di passare al Francis. Si accertò una prima circostanza importante nella nostra storia: Sarasini era stato ed era ancora follemente innamorato della bellissima ragazza, che, dopo una breve relazione con lui, aveva deciso di lasciarlo per rimettersi con Papaldo. Sarasini sarebbe stato dunque assalito da un’ondata di rancore verso Francesco, quando aveva appreso che i due erano andati a vivere assieme nell’appartamento di Carla.

    Il 17 marzo, convocato da De Nardo, Sarasini apparve subito in difficoltà nel descrivere i suoi rapporti con Francesco e con Carla. Interrogato in seguito ancora dal pm, era apparso reticente e mendace. Egli aveva taciuto sulle liti furibonde con Francesco e sulle minacce al rivale. Le sue versioni e i suoi alibi erano risultati inconsistenti. Il 23 marzo Sarasini fu arrestato dal pm per falsa testimonianza poiché caduto in gravi contraddizioni circa i rapporti con la vittima, i suoi movimenti e i propri nei giorni precedenti la scomparsa di Papaldo. Ma sui moventi le ipotesi erano tante, e non si riusciva a definirne uno con certezza. Si continuava a parlava di traffico di stupefacenti, di racket di auto, di furti, di usura, ma anche di delitto passionale. Tra le varie ipotesi, il pm credette sempre più a quella che Papaldo, coinvolto in un giro losco nato dentro il locale, fosse stato ucciso perché aveva violato patti criminali o aveva tentato di uscirne.

    Il processo mi fu affidato per l’istruttoria formale il 20 marzo 1973, mentre ero giudice istruttore alle prime armi nel Tribunale di Roma. L’istruttoria era prevista dalla legge quando si trattava di una vicenda complessa e difficile che non si poteva risolvere in breve tempo. In pratica, quando il delitto, grave come in questo caso, appariva essere stato commesso a opera di ignoti. Fu la mia prima difficile indagine, condizionata dagli accertamenti fatti dal pm, che, come abbiamo accennato, pur sospettando l’omicidio, propendeva per la pista della droga e per un possibile coinvolgimento dei gestori del locale: Arbore e Bogianchino.

    Io, invece, nel dubbio, davo credito all’omicidio con movente passionale. Mi sembrava del tutto campata in aria la tesi del rapporto con la droga, anche se era possibile che vi circolasse, come accadeva di solito nei locali alla moda. Eliminai subito Arbore dal novero dei possibili autori del delitto, che presupponeva una notevole capacità criminale. Cominciai per mio conto, senza credere fideisticamente ai rapporti della polizia giudiziaria, a scandagliare nella vita del giovane scomparso, partendo da elementi certi, da elementi probabili e da elementi possibili: operai, come al solito, una netta distinzione tra questi tre tipi di indizi, e diedi la precedenza assoluta ai primi e ai secondi, per risalire a quelli non conosciuti. Scoprii così che Carla aveva avuto diverse avventure con altri uomini, rimasti affascinati dalla sua sensuale bellezza. Ma era stato proprio Sarasini – che, secondo le indagini, ricorreva alla violenza sul partner, per lui elemento essenziale della relazione amorosa – a indurre la Viglini a tornare da Papaldo. Lui, però, non accettò di essere stato lasciato e fece di tutto per rimettersi con la donna utilizzando ogni mezzo, comprese le minacce e le aggressioni sia nei suoi confronti che del povero Francesco, venutosi a trovare suo malgrado al centro di una tempesta d’amore, incompatibile con la sua natura di persona calma e tranquilla. Eppure per lui non c’era scampo: doveva sostenere la furia del suo rivale o rinunciare per sempre a Carla.

    Cominciai a investigare con il massimo impegno possibile su quella storia torbida e misteriosa su cui grande era l’attenzione della stampa nazionale e internazionale. Il problema era stabilire in primo luogo, in base a prove oggettive e non solo a ragionamenti campati in aria, se si fosse o meno trattato di un delitto o invece di una vicenda personale in cui potevano esserci anche risvolti moralmente deplorevoli e censurabili, come amori basati sulla violenza fisica e psichica, senza che però ci fossero fatti di rilevanza penale. Erano questi i possibili scenari in cui occorreva inquadrare la scomparsa di Francesco Papaldo. Ma, analizzando gli atti e sentendo i testimoni, mi resi subito conto che in quella storia c’era ben altro di torbido, che sconfinava nella violenza e nell’assassinio.

    Nel caso Papaldo, però, a un certo punto le indagini della polizia giudiziaria si arenarono. E la famiglia, non vedendo alcuna accusa di sequestro e omicidio, continuò a sostenere con sempre maggiore forza che Francesco si fosse allontanato volontariamente e che fosse vivo, all’estero. Questa convinzione fu per molto tempo di aiuto ai giovani sospettati, che

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1