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Italia giallo e nera
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E-book1.258 pagine14 ore

Italia giallo e nera

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Info su questo ebook

Omicidi passionali, delitti di mafia, stragi terroristiche.
La storia del nostro paese è scritta con il sangue
Prefazione di Massimo Lugli

Un’Italia assolutamente inedita, raccontata attraverso 1001 casi di cronaca nera, dall’Unità ai giorni nostri. Delitti passionali, crimini senza un colpevole, esecuzioni mafiose, “stragi di Stato” e azioni terroristiche: ripercorrendo con sguardo giornalistico queste dolorose vicende, gli autori ci offrono una controstoria del Belpaese attraverso una lunghissima – e quasi ininterrotta – scia di sangue. Sullo sfondo di ogni delitto si muove infatti una nazione che nasce, cresce e si trasforma, oscillando tra memoria e oblio, tra il delirio mediatico dei casi più famosi e le voci dimenticate delle vittime che sotto i riflettori non ci sono mai state, fantasmi la cui morte violenta esige di essere ancora una volta rievocata. Ma ciò che emerge dalle strade, dai fossi, dagli obitori, è il ritratto corale di una società intera, il cui aspetto privato è messo a nudo da delitti in famiglia, criminali seriali e follia domestica; mentre le guerre di mafia, gli eccidi e le bombe, con i loro legami alla vita pubblica e istituzionale, accendono una luce – a volte inquietante ma sempre necessaria – sui risvolti più misteriosi dell’inconscio collettivo.

La storia dell’italia attraverso vicende di cronaca nera e crimini risolti e irrisolti che ne hanno scandito i decenni

Tra i casi raccontati nel libro:

Il mostro di Stretta Bagnera, il primo serial killer dell’Italia unita
Il delitto Matteotti, un omicidio politico che cambiò la storia
Placido Rizzotto, fine di un uomo contro la mafia
Piazza Fontana e l’inizio della strategia della tensione
Il sequestro di Aldo Moro e la notte della Repubblica
Roberto Calvi e la morte sotto il ponte dei Frati Neri
La scomparsa di Emanuela Orlandi, un mistero che dura da 30 anni
I fratelli Savi e la banda della Uno bianca
La strage di Capaci e quella di via D’Amelio
L’enigma dell’assassinio di Elisa Claps
Erika e Omar: il delitto di Novi Ligure
Gabriele Sandri: morte “accidentale” di un tifoso
Sarah Scazzi e il giallo di Avetrana


Emanuele Boccianti
è nato a Modena nel 1971. Dopo aver studiato filosofia, ha trasformato la sua passione per la cucina in una professione diventando chef, ma continuando parallelamente a coltivare l’amore per il cinema e per la scrittura, che alla fine ha ripreso il sopravvento. Dopo un’esperienza come editor, ha da poco pubblicato il suo primo romanzo, Trecento piccolissime mani.


Sabrina Ramacci
è nata a Roma nel 1970. Laureata in Storia e Critica del Cinema e specializzata in Arte Contemporanea, è stata giornalista freelance, occupandosi di cronaca nera, per poi approdare alla scrittura. Con la Newton Compton ha pubblicato Hollywood criminale, 1001 cose da vedere a Roma, 101 personaggi che hanno fatto grande Roma e Italia giallo e nera.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854153240
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    Anteprima del libro

    Italia giallo e nera - Sabrina Ramacci

    95

    Per quanto concerne le immagini contenute nel presente libro, l’editore è a disposizione degli aventi diritto che non è riuscito a rintracciare.

    Prima edizione ebook: maggio 2013

    © 2013 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-5324-0

    www.newtoncompton.com

    Edizione digitale a cura di geco srl

    Emanuele Boccianti – Sabrina Ramacci

    Italia giallo e nera

    Omicidi passionali, delitti di mafia, stragi terroristiche.

    La storia del nostro Paese è scritta con il sangue

    A tutte le vittime di una mano assassina

    che mai sono state raccontate dalla cronaca

    «Non credete a nulla di quanto sentito dire

    e non credete che alla metà di ciò che vedete».

    Edgar Allan Poe

    «Chi vuole uccidere il suo nemico, consideri bene

    se proprio con ciò non lo renda, dentro di sé, eterno».

    Friedrich Nietzsche

    In questo saggio si fa riferimento a numerose inchieste giudiziarie, molte delle quali ancora in corso. Tutte le persone coinvolte o citate a vario titolo, anche se condannate nei primi gradi di giudizio, sono da ritenersi penalmente innocenti fino alla sentenza definitiva.

    Prefazione

    «La storia non è che un quadro di delitti e sventure». Una visione pessimista ma, di certo, realistica quella di Voltaire. Oltre a guerre, invasioni, aggressioni di Stati, etnie o tribù, l’evoluzione dell’umanità sembra accompagnata (dalla clava alle bombe più o meno intelligenti) da un ininterrotto filo di sangue. Si uccide per denaro, per gelosia, per rabbia, per furore politico, per un’eredità contesa o un sorpasso sbagliato. Pistola, carabina, coltello, spranga, coccio di bottiglia, stricnina o mani nude: l’arma è soltanto un dettaglio. E molto spesso, nella stragrande maggioranza dei casi, il movente è estemporaneo. «Ho ucciso così… non so perché». Una frase che generazioni di poliziotti, carabinieri e magistrati si sono sentiti ripetere, in assoluta sincerità, centinaia di volte. Un clic, un dito che preme sul grilletto, un coltello da cucina afferrato d’impulso e una vita si spegne.

    L’omicidio è una costante, un evento estremo ma immutabile che accompagna l’evoluzione del costume, della cultura, dell’economia. Le spiegazioni sociologiche sono quasi sempre pura teoria, la visione antropologica (come quella di Jared Diamond in Armi, acciaio e malattie, vincitore del Pulitzer nel 1998), troppo globale per applicarla ai singoli casi. Si uccide in periodi di crisi economica e cambiamenti sociali come negli anni della ricostruzione e del boom economico: la guerra di coppia, di famiglia, di strada non conosce tregua. Le grandi organizzazioni criminali sono soltanto uno dei fattori criminogeni, la stragrande maggioranza degli omicidi avvengono tra le mura domestiche. Questo libro non è soltanto un elenco, preciso e avvincente, di casi di cronaca nera: è la dimostrazione di quanto l’impulso di Caino sia radicato in profondità nell’animo umano. Dai delitti di un secolo fa a quelli dell’altro ieri, i cambiamenti sono quasi insignificanti. Le motivazioni (a parte gli episodi legati a particolari contesti storici come il banditismo sardo, la disamistade o le faide e le vendette dei dopoguerra) sono sempre gli stessi.

    Il primo caso citato dai due autori è quello di Antonio Boggia, il Mostro di Stretta Bagnera, impiccato per aver massacrato tre uomini e una donna. Un omicida seriale quando l’espressione doveva essere ancora inventata: uno dei tanti che, da Correggio a Nerola a Firenze, hanno monopolizzato per mesi le pagine dei quotidiani. Con una drammatica costante: una volta arrestato, il serial killer si trasforma quasi inevitabilmente in un agnello. Confessa, spesso chiede perdono, a volte tenta di giustificarsi, frequentemente tace e si rassegna al suo destino. Non c’è psicologo forense che abbia mai, veramente, fatto luce su questo impulso, irreprimibile e iterativo, verso l’assassinio.

    Il delitto è anche letteratura, giornalismo, spettacolo. Dai coniugi Bebawi a Marta Russo, dalla torbida storia dei Marchesi Casati Stampa all’orrore di Avetrana, il sangue appassiona, il mistero coinvolge, e i grandi processi, specie quando si giudica un omicidio passionale, fanno audience e richiamano folle di colpevolisti e innocentisti. Chi crede che sia la televisione a catalizzare l’interesse del pubblico sulla cronaca nera troverà una smentita categorica nell’interesse quasi morboso che accompagnò molti casi del primo dopoguerra e degli anni Sessanta. I media erano diversi, la passione identica. E per ogni Carlo Emilio Gadda o Fedor Dostoevskij ci sono centinaia, migliaia di scrittori più o meno conosciuti che, senza raggiungere le vette della narrativa, traggono ispirazione dagli stessi elementi primordiali: la morte, l’omicidio, le indagini, i dubbi, le piste vere e quelle false o costruite ad arte. Quello che ci caratterizza, come Paese, è l’ininterrotta serie di misteri eterni, le stragi di Stato (che non sono state certo una prerogativa degli anni Settanta), le trame di servizi più o meno deviati, le incessanti collusioni tra criminalità e politica.

    Se è vero che le statistiche degli omicidi sono costantemente in calo (con l’eccezione di una risalita nell’ultimo anno), è anche innegabile che l’interesse dei lettori o degli spettatori non si è mai affievolito. E molto spesso la condanna etica ha solo il senso di un grande esorcismo collettivo per nascondere una pulsione a cui pochissimi sanno resistere. Chi si ostina a chiedere meno morti ammazzati nelle pagine dei quotidiani o sullo schermo ricorda il moralismo di Giuseppe Gioacchino Belli nel sonetto che rievoca un omicidio per rapina a Perugia:

    Pe arubbà quattr’argenti e quarche anello

    C’era bisogno mo’, fiji de cani

    De fa tutto st’orore e sto sfragello?

    Volete ammazzà n’omo, oggi o domani?

    Eh buggiaravve, pijate n’cortello

    E ammazzatelo armeno da cristiani.

    Massimo Lugli

    Introduzione

    I morti ammazzati non vanno lasciati in pace. Bisogna disturbarli e poi, dopo averli fatti riposare, di nuovo tornare a tormentarli, ancora e ancora. Non è mancanza di rispetto, anzi. Il loro sguardo è prezioso, la loro prospettiva indispensabile per capire quello che è stato e quello che sarà.

    Quando abbiamo iniziato a lavorare su Italia giallo e nera ci siamo presto resi conto che con quei mille (e uno) paia d’occhi avremmo dovuto confrontarci. Entrare nella storia e nella vita di ognuna delle vittime è un processo impegnativo, spesso c’è una coda lunga che permane per ore dopo la chiusura di un caso, un retrogusto con cui bisogna fare i conti. Tutti quei nomi, se ci si avvicina abbastanza, hanno qualcosa da dire e soprattutto da far vedere. Quando la visuale cambia, c’è sempre un contraccolpo.

    Abbiamo cercato di far parlare le vittime, di non limitarci a ricordare l’episodio criminale che ha messo fine alla loro vita ma, dove possibile, le conseguenze che la perdita ha provocato nella società. Risposte importanti per contrastare gli atti delittuosi sono arrivate nell’arco di un secolo e mezzo dall’evolversi della legislazione penale, da una maggiore attenzione psichiatrica e dalla nascita di associazioni o fondazioni, spesso volute dai familiari.

    Ora provate a immaginare: una lunga processione di punti di vista diversi, inanellati con il semplice filo della cronologia, che parte dal 1861, quando nasce l’Italia come Stato unitario, e arriva all’altro ieri. Questa che vi ritrovate tra le mani è una storia del nostro Paese, raccontata attraverso quei punti di vista. Si affianca alle tante altre storie già scritte, le completa utilizzando un obiettivo diverso, posto in basso, forse il più in basso possibile. All’altezza dell’asfalto, dei pozzi artesiani, degli scantinati, della terra umida, delle culle.

    Ne risulta un posto d’osservazione interessante. Da lì si vede tutto. Il che è anche controintuitivo, bisogna ammetterlo. Da che mondo e mondo, è la visuale a volo d’uccello quella che offre il panorama più ampio. Eppure il senso delle cose sta nella loro grana fine, nei dettagli. È da laggiù che poi, in filigrana, si leggono anche i grandi eventi, i grandi nomi, quelli che hanno fatto la Storia ufficiale. Il contrario sarebbe impossibile. Dall’alto non si vedrebbero le persone, né quello che loro hanno da mostrarci.

    È stato difficile individuare i mille e uno casi che avrebbero raccontato, seppur evitando analisi sociologiche dei fenomeni criminali, la storia d’Italia attraverso i casi gialli e la croncaca nera. Siamo così partiti dal selezionare dieci categorie di delitti che focalizzano la natura e il movente di un crimine. In seguito, abbiamo cercato di trovare un equilibrio nel numero di casi selezionati, per quanto il susseguirsi di determinati eventi abbia portato a una loro naturale distribuzione. Il contesto storico ha mutato in modo naturale l’elettrocardiogramma del Paese. Si pensi, per esempio, che negli anni Settanta le pallottole dei terroristi non lasciavano spazio mediatico ai crimini privati.

    La cronaca nera ha subìto dunque delle modifiche legate ai contesti sociali e politici, ma le tipologie criminali non sono mai cambiate. Gli assassini seriali colpivano nell’Ottocento come nel Novecento, quando si è tentato di studiarne la psiche. Nonostante gli sforzi fatti dalla scienza, i serial killer sono rimasti un mistero e conseguentemente sono diventati icone letterarie e cinematografiche, e poi fenomeni mediatici.

    Spesso molti omicidi trovano poca risonanza nelle fonti d’informazione, ed è anche per questa ragione che abbiamo cercato di modulare la scelta: dai grandi casi da prima pagina fino ai trafiletti nei giornali di provincia. Cercando di fornire una selezione che non si limitasse ai delitti più eclatanti, ma che comprendesse anche quelli che altrimenti sarebbero rimasti tra la polvere degli archivi.

    La storia che emerge dalla lettura di Italia giallo e nera è una storia azzerata, in cui, come la Livella di Totò, tutti stanno a quel ground zero dell’esistenza che è la morte: il giudice, il prete, l’avvocato, il tifoso, il contadino, il carabiniere, il passante, il politico, la prostituta, il bambino. Fa un effetto particolare rendersi conto che spesso a restarti addosso sono gli omicidi a margine, non le vittime eccellenti, ma quelle che hanno trovato spazio solo in un trafiletto di cronaca locale. Un magistrato a Palermo può mettere in conto di morire per lo Stato e, se accade, un’intera società processa il lutto proprio grazie alla forza della vittima e il dolore lascia spazio alla memoria collettiva. Il delitto della porta accanto, invece, incute in ogni individuo una paura profonda. Poiché ognuno di noi teme di potersi trasformare in assassino o in vittima.

    Avvicinandosi il più possibile a quegli sconosciuti e osservandoli, nel tentativo di porsi sul loro stesso asse ottico, si scopre così un piccolo scorcio di mondo: il pavimento di un tinello illuminato da una luce fioca, odore di panni che si asciugano e il mormorio di sottofondo di un televisore lasciato acceso; oppure il fondo di un fosso al margine di una strada di periferia, l’aroma del sottobosco e ogni tanto una macchina che passa. Ma da quel televisore arrivano le parole di un notiziario, dicono che siamo appena sbarcati sulla luna, o che l’Italia ha vinto i mondiali, o parlano di un Paese strano chiamato Tangentopoli. E da quella macchina viene la musica di una radio. Trasmette la Hit parade del momento, è il 1971 e in classifica c’è Lucio Battisti con Pensieri e parole e Adriano Celentano con Una storia come questa. Spostiamo appena lo sguardo e gli elementi di una coreografia più ampia si affacciano, a volte solo alla coda dell’occhio, altre con prepotenza: le leggi razziali, il boom economico, gli anni di piombo, i grandi lutti nazionali, i misteri, le meschinità e gli eroismi di un popolo intero.

    Perché un omicidio è sempre il filo smagliato che sporge dalla trama e che dà fastidio. Lo tiri nel tentativo di strapparlo, e invece viene su tutto.

    Emanuele Boccianti

    Sabrina Ramacci

    Dall’Unità d’Italia al nuovo secolo

    Il Mostro di Stretta Bagnera

    Milano, 18 novembre 1861 – Questa storia inizia tanto tempo fa, quando l’Italia non è ancora uno Stato, ma di sangue è già intrisa la sua terra poiché di crimini efferati si sono macchiati gli uomini. A Livorno, nel 1764, l’editore Marco Coltellini stampa un saggio che influenzerà i più grandi pensatori dell’epoca: Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria. Un libello dai contenuti provocatori, diranno alcuni, un caposaldo del pensiero illuminista per la maggioranza. Nel testo l’autore analizza la giustizia dell’epoca e si pone domande sugli errori dell’uomo che giudica e sanziona in base alla Legge; e soprattutto si chiede quanto sia legittimo condannare a morte un individuo, poiché così è lo Stato che, per punire un delitto, ne compie un altro.

    È il 18 novembre 1861 quando, nella Milano erede del pensiero illuminista, la forca aspetta impassibile un condannato a morte. L’uomo si chiama Antonio Boggia, ma per il popolo è il Mostro di Stretta Bagnera, un vicolo tra i Navigli della città vecchia. Il killer ha ucciso quattro persone – tre uomini e una donna – li ha massacrati con affilate lame di coltelli, ha fatto scempio dei corpi, ha macchiato la terra del loro sangue per impossessarsi dei loro beni, per avidità. La condanna arriva implacabile: impiccagione. La folla acclama l’ultimo passo verso il cappio. Una corda di canapa è immobile persino al vento, circondata dal tumulto delle grida e degli schiamazzi della gente che si accalca ai bastioni di Porta Ludovica e Porta Vigentina. Sul palco, bene in vista, la corda è la regina protetta dal boia in attesa di compiere il suo lavoro. «Chi è senza peccato scagli la prima pietra», si legge nel Vangelo di Giovanni, ma la folla non è mai innocentista.

    Beccaria scrive che per alcuni la pena di morte è motivo di compassione e sdegno, per altri è uno spettacolo. Secondo gli storici, quella di Antonio Boggia fu l’ultima condanna a morte eseguita su un civile nel Regno d’Italia, divenuto il 17 marzo di quello stesso anno uno Stato.

    La notte dei pugnali

    Palermo, primo ottobre 1862 – È quasi mezzanotte nel capoluogo siciliano, quando, per qualche minuto, la città impazzisce. C’è stato un agguato. Un uomo si è avvicinato a un passante e lo ha assalito con un coltellaccio, una lama di quindici centimetri che si è fatta strada nello stomaco, lasciando una scia di sangue e di grida. Eppure le grida riecheggiano anche in un’altra parte della città, dopo il mercato. Un’altra aggressione. E un’altra ancora. Le descrizioni sono concitate, quasi isteriche, ma parlano, incredibilmente, dello stesso uomo: stessi vestiti, stessa altezza. Nel medesimo momento, in tredici punti diversi della città, sembra che un singolo assassino abbia infilzato tredici diverse persone, uccidendone solo una per dissanguamento. Alla fine, il pugnalatore verrà catturato; o meglio, come si scoprirà poco dopo, uno dei tredici. Angelo D’Angelo, ex confidente della vecchia polizia borbonica, confessa i nomi degli altri dodici, scelti per fattezze e corporatura simili, e di chi li ha assoldati, un certo Gaetano Castelli. D’Angelo racconta di esser rimasto inizialmente perplesso dalla stranezza del lavoro: infilare un coltello nelle viscere di passanti presi a casaccio. È una questione, come gli dice Castelli, di alta politica burbunesca, borbonica. Ma la paga è buona, cosa che spazza via ogni dubbio.

    Alle stupefatte orecchie del giudice piemontese Guido Giacosa, il primo pentito della storia d’Italia proferisce un nome che nel tribunale esplode come una bomba. Il vero mandante sarebbe nientemeno che Romualdo Trigona, principe di Sant’Elia, senatore del nuovo Regno d’Italia, acceso sostenitore dei Borboni prima di vestire accortamente la casacca sabauda. Giacosa in un primo tempo non crede alla storia del mandante illustre, ma poi cambia idea ed esprime le proprie perplessità, scrivendo che gli indizi contro Trigona «erano maggiori e più imponenti di quelli contro tutti gli altri imputati». A nulla serve: il 13 gennaio 1863 i pugnalatori di Palermo sono condannati chi alla ghigliottina, chi ai lavori forzati. Nessun mandante, solo tredici folli che avrebbero agito in un sincronico raptus solitario.

    Giacosa è il primo magistrato a trovarsi davanti a quella che, seppur con le dovute differenze, verrà poi chiamata la strategia della tensione: terrorizzare l’opinione pubblica per polarizzare il risentimento e innescare offensive tra due parti avverse. In questo caso, gli autonomisti siciliani e i sostenitori del regno. Disgustato dal gioco al quale assiste, di cui fanno le spese solo i manovali del crimine, ma non le menti, Giacosa rifiuta il trasferimento e la toga da giudice: preferisce tornare a fare l’avvocato in una Torino che capisce di più, e che gli fa meno paura.

    Un garibaldino abbattuto

    Palermo, 3 agosto 1863 – Giuseppe Corrao si reca in calesse in direzione del suo podere di San Ciro, poco fuori dal quartiere di Brancaccio. Si sente vecchio, anche se ha solo 41 anni. Sono le delusioni ad appesantirlo, non la ferita al braccio, regalo di un bersagliere nella battaglia dell’Aspromonte, un anno prima. È fatto di ferro, il Corrao, è grande e grosso, barbuto come Garibaldi, che lo ha fatto generale sul campo. Ma contro la delusione anche la sua scorza si ammorbidisce: delusione per l’onda garibaldina infranta dall’esercito sabaudo prima di arrivare a Roma; per la retrocessione al grado di colonnello nel vestire l’uniforme del nuovo regno – un’umiliazione bella e buona che non riesce ad accettare a lungo, lui, eroe decorato – ma soprattutto per la fine dell’utopia di uno Stato unitario, di una Sicilia senza più Borboni, né altri padroni, ugualitaria, capace di offrire migliori condizioni di vita a tutti quelli che finora hanno mandato giù pane e fiele. A che altro doveva servire, sennò, l’impresa dei Mille? Insoddisfazione e risentimento contro un Piemonte che si rivela solo l’ennesimo vessatore, sordo alle esigenze di riscatto e di giustizia sociale di una terra che – Corrao ne è convinto – ci ha creduto e sperato.

    Ma non finisce qui, mugugna tra sé l’ex garibaldino, il cui sangue ancora bolle nelle vene per i fermenti e gli ideali rivoluzionari. Lui può essere una spina nel fianco per i piemontesi: è un eroe popolare, a Palermo, è famoso. Ha parecchie amicizie pericolose: un gruppo di caporioni mafiosi, mascalzoni irriducibili che a un suo cenno possono mettere insieme intere falangi di volontari in armi. Non che sia lui stesso un mafioso, questo no. Ma, se necessario, sa come fomentare quelle forze, soffiare sul fuoco dello scontento. Non credano di poterlo fermare con uno schiocco di dita.

    Non è uno schiocco di dita ad abbatterlo, facendolo crollare giù dal calesse, ma due colpi di lupara. Chi sia a impugnarla, chi il vero mandante del suo assassinio, la storia non l’ha messo nero su bianco. I giornali del tempo parlano solo di una testimone: una donna che avrebbe visto in quei paraggi, nei giorni precedenti, due cacciatori intenti a cercare chissà cosa. Poi, racconta, le stesse due facce sono vicine al corpo, nella confusione generale subito dopo il delitto, ma vestono l’uniforme di carabinieri. In seguito, tutti gli incartamenti relativi al caso spariscono misteriosamente dalle questure, secondo uno schema che diventerà sempre più familiare. È la prima volta nella storia del Regno d’Italia che viene usato il termine maffia negli atti ufficiali a indicare un possibile mandante. O un possibile depistaggio.

    Morte di una fabbrica

    Portici (Napoli), 6 agosto 1863 – Nessuno ricorda più Pietrarsa, industria siderurgica che fino al 1861 era un fiore all’occhiello del meridione e dell’Italia tutta. Il Real Opificio Borbonico è un modello a cui si rifanno le officine russe di Kronštadt, anche per le condizioni e i diritti dei lavoratori: i turni di otto ore, la paga buona, una pensione statale senza contributi soffocanti. La musica cambia drasticamente dopo l’Unità d’Italia; con l’annessione al Piemonte, le nuove politiche filosettentrionali tendono ad alienare tutte le risorse dell’ex Regno delle Due Sicilie. Di conseguenza, le commesse metalmeccaniche, prima numerose, vengono dirottate in maniera sempre più massiccia verso il Nord, verso la genovese Ansaldo. Poi cominciano i licenziamenti, tanti, sempre di più, fino a trasformare l’opificio nel fantasma di se stesso, e i suoi lavoratori, più che dimezzati in soli tre anni, in dipendenti disperati. Ma quella disperazione li rende disposti a rischiare il tutto per tutto.

    Il 6 agosto si radunano, compatti e minacciosi, nel piazzale interno dello stabilimento. Il signor Zimmermann, capo contabile dell’opificio, supplica allora l’intervento delle forze dell’ordine: un intero battaglione di truppa, nientemeno. A circondare gli edifici arrivano pure la Guardia Nazionale, i bersaglieri e i carabinieri: è un assedio, ma gli operai non si disperdono. Le baionette vengono snudate in segno di minaccia, senza sortire alcun effetto; i militari rilanciano, le trombe danno il segnale di aprite il fuoco e inizia il tiro al bersaglio. Quando i fucili tacciono di nuovo, quattro lavoratori restano a terra: Luigi Fabbricini, Domenico Del Grosso, Aniello Olivieri e Aniello Marino. I primi martiri accertati della storia operaia d’Italia.

    Su uno dei muri della fabbrica qualcuno, in quei giorni di tensione, scriverà: «Muovetevi artefici, ché questa società di ingannatori e di ladri con la sua astuzia vi porterà alla miseria». Nel 1989 l’ex opificio diventerà un museo, ma la scritta è scomparsa.

    La prima strage di Stato

    Torino, 21-22 settembre 1864 – Torino non sarà più capitale. La voce sembra di quelle impossibili da credere, eppure così scrivono i giornali. Un accordo con la Francia, dicono; un’imposizione dell’imperatore Napoleone iii. Oscure trame politiche. Quello che non è oscuro per i torinesi, e davvero difficile da accettare, è che, entro sei mesi, effettivamente corti e ministeri dovranno trasferirsi a Firenze. E le attività commerciali? E le speculazioni sui palazzi? E i posti di lavoro? Il malessere si contiene a stento, è trasversale, va dai borghesi imprenditori ai comuni lavoratori; si scende in piazza, composti ma con fermezza. Il governo, però, pensa bene di soffiare sul fuoco di quel malessere, lo trasforma in rabbia, paga sobillatori per creare disordini, mentre riempie la città di truppe, molte delle quali provenienti dai reparti del Sud. Tutto quel fermento lo si vuole portare a proprio vantaggio, per dimostrare quanto Torino non sia adatta per dare lustro, come capitale, al neonato regno.

    Il 21 settembre la gente si raduna spontaneamente in piazza Castello, di fronte alla questura. A fronteggiarli c’è un esercito composto in buona parte da meridionali, che non parlano quello strano dialetto e che sentono addosso la tensione di chi li percepisce nemici e stranieri. Parte un colpo di fucile, per errore, come sempre. Cominciano gli scontri, le sparatorie. Quel giorno si chiude con sedici morti e decine di feriti. Il 22 settembre è il secondo atto di quella tragedia, che assume contorni quasi surreali. Un nuovo assembramento di cittadini si forma in piazza San Carlo, ma stavolta ad accerchiare i torinesi sono tre falangi di militari, all’imbocco di altrettante diverse strade. Quando, per l’ennesimo errore, viene aperto di nuovo il fuoco, a esser raggiunta dalle pallottole non è solo la popolazione nel mezzo, ma gli stessi carabinieri delle vie affluenti, che reagiscono sparando a loro volta, sempre di più, in un’escalation di piombo e follia in cui si muore da tutte le parti, ma soprattutto nel mezzo. Le cronache locali sono discordanti: voci ufficiali parleranno di almeno cinquanta cadaveri, molti dei quali giovani o giovanissimi. Ma altre fonti giornalistiche ne conteranno centotrenta, e in alcuni resoconti dell’epoca addirittura cinquecento. Due giorni di carneficina insensata per la prima strage dello Stato italiano.

    Il delitto di Natale

    Villamassargia (Carbonia-Iglesias), 24 dicembre 1865 – Giusta Mei non è mai stata così determinata: la notte della vigilia di Natale suo marito deve morire. Sul perché la donna abbia commissionato a Giovanni Cara ed Emanuele Steri il delitto non è mai stata fatta chiarezza, così come non è stato accertato se uno dei due assassini fosse o meno il suo amante. Fortunato Reginali viene ritrovato in un lago di sangue con il corpo trafitto da un numero imprecisato di coltellate. Quando una donna vuole il sangue del suo uomo, sa bene come non santificare le feste.

    In morte del padre  

    Savignano sul Rubicone (Forlì-Cesena), 10 agosto 1867 – «San Lorenzo, io lo so perché tanto, di stelle per l’aria tranquilla, arde e cade, perché si gran pianto, nel concavo cielo sfavilla». I versi di X Agosto di Giovanni Pascoli evocano il dolore del poeta, le lacrime versate in morte del padre Ruggero. In una notte colma di stelle, mentre fa ritorno a casa sul suo calesse, due sconosciuti lo uccidono: «[…] Tornava una rondine al tetto: l’uccisero: cadde tra spini: ella aveva nel becco un insetto: la cena dei suoi rondinini. / Ora è là, come in croce, che tende quel verme a quel cielo lontano; e il suo nido è nell’ombra, che attende, che pigola sempre più piano. / Anche un uomo tornava al suo nido: l’uccisero: disse: Perdono; e restò negli aperti occhi un grido: portava due bambole in dono… / Ora là, nella casa romita, lo aspettano, aspettano invano: egli immobile, attonito, addita le bambole al cielo lontano […]».

    Ruggero Pascoli è un padre affettuoso, al rientro da Cesena porta con sé alcuni doni per i figli; ma all’altezza di San Giovanni in Compito il buio, il silenzio, due colpi, due sicari, di nuovo silenzio e buio. Perché? Nessun movente. Nessun colpevole. Ruggero Pascoli è l’amministratore della tenuta dei principi Torlonia. Servo dei padroni? La Romagna all’epoca è terra di briganti e malavitosi ma sono anche anni di tensioni politiche, di quelli che sono definiti atti terroristici mazziniani, in altre parole: repubblicanesimo estremista contro l’ordine sabaudo. Di indagini se ne fanno poche, si rintracciano due presunti colpevoli: Raffaele Dellamotta e Michele Sacchini. Innocenti. Per Giovanni Pascoli, per sempre condizionato dall’omicidio del padre, si dovrebbe indagare tra chi ha beneficiato del delitto: il successore al potente incarico di amministratore. Nulla di fatto. Il poeta per molti anni ogni 10 agosto invierà una busta con un biglietto bianco listato a lutto a quello che ritiene essere il mandante dell’omicidio: «E tu, Cielo, dall’alto dei mondi sereni, infinito, immortale, oh! d’un pianto di stelle lo inondi quest’atomo opaco del Male!».

    Demoni in parrocchia

    Serri (Cagliari), 6 marzo 1868 – La chiesa è sacra ma è anche ricca, per questa ragione è un bersaglio ideale per rapinatori senza scrupoli. È una piccola parrocchia quella che una banda di uomini mascherati assalta lasciandosi alle spalle tre morti: il prete, Antonio Spissu, la sorella Gaetana, violentata prima di essere ammazzata, e un ragazzino di 11 anni, Gioacchino Lai, che se ne stava bighellonando nei pressi della sacrestia. I delinquenti se ne vanno con un bottino di 8000 lire – una fortuna per l’epoca – inseguiti dai colpi di lupara dei paesani corsi in aiuto del parroco. I briganti sparano su tutti e per fortuna non fanno altri morti, ma nessuno dei fedeli riesce a fermare la fuga di quei demoni.

    L’onore del guappo

    Napoli, 20 luglio 1869 – La Bella Società Riformata, come a quei tempi si chiama a Napoli la camorra, vive nelle strade ma prospera nelle carceri. Qui si stringono alleanze e, grazie alla tradizionale connivenza con il personale di custodia, i contatti si ramificano e si estendono all’esterno, permettendo ai vari capintesta di proseguire i loro traffici e mantenere la propria influenza. Dopo l’unificazione dell’Italia, il governo tenta di porre un freno all’infezione camorristica nelle prigioni: gradualmente si procede a un completo cambio degli agenti di custodia e, attraverso una serie di condanne esemplari, si inibiscono alcune delle tradizionali pratiche camorristiche, tra cui quella della zumpata: il duello tra affiliati a fil di lama, che normalmente termina con uno sfregio o con la morte. Il primo a far le spese di questo giro di vite è Gaetano Marranzino, membro della Bella Società Riformata, che nel 1869 finisce nel carcere di San Francesco per rissa aggravata. Marranzino, guappo e latin lover, prima di entrare in cella affida la sua amata Carmelina al compagno di cosca Raffaele Doria. Questi, però, riesce a difendere l’onore della ragazza dall’assalto di chiunque tranne che dai propri appetiti. Marranzino, informato del tradimento, non deve attendere molto per vedere esauditi i suoi fermi propositi di vendetta: l’ex amico è presto rinchiuso nello stesso istituto penale. Lo avvicina con un sorriso di circostanza e la melliflua offerta di un caffè ma, appena lo ha a tiro, gli si avventa contro e, infliggendogli dodici pugnalate, gli grida: «E ora vai pure a fare l’amore con Carmelina!». Per questo delitto il pubblico ministero chiede la condanna a 20 anni di lavori forzati: una pena inaudita per un classico delitto d’onore. Al punto che gli stessi camorristi, quando la notizia prende a girare, si radunano in massa sotto le mura del carcere di San Francesco, chiedendo una revisione del processo e minacciando nientemeno l’assalto alla prigione e la liberazione di tutti i detenuti. Servirà l’intervento dei carabinieri in assetto di guerra per disperdere gli indignati malviventi.

    Una tragica bardana

    Siliqua (Cagliari), 21 marzo 1870 – La bardana è in uso tra i briganti sardi dalla metà dell’Ottocento sino ai primi anni del Novecento. Si tratta di un’azione criminale che consiste nell’invadere un paese e metterlo a ferro e fuoco: decine di briganti a cavallo spaventano le famiglie, non hanno pietà dei più deboli, rubano e uccidono chiunque. La bardana all’epoca è un problema dilagante, tanto che viene messo in evidenza dalle istituzioni persino fuori dall’isola, così come spiega René Chiarina, console francese a Cagliari, in una lettera indirizzata al segretario di Stato al Dipartimento degli affari esteri di Parigi. Il politico racconta, tra i tanti episodi, di come in una notte di terrore più di quaranta briganti colpirono molte famiglie di Siliqua, di come derubarono le case, violentarono le donne e uccisero cinque uomini per poi fuggirsene impuniti tra le montagne.

    Il vampiro della Bergamasca

    Bottanugo (Bergamo), 1870/71 – Giovanna Motta ha 14 anni. Non si separa mai da una piccola effigie di Pio ix, un santino che porta sempre in tasca. Lo ha con sé anche quell’8 dicembre del 1870. Niente può il Bene quando il Male è in agguato: «La spaccai non con la falcetta ma con un rasoio, con cui il giorno prima m’ero sbarbato, provai nello spaccarla un gran piacere; le graffiature che si trovarono sulle cosce non erano prodotte colle unghie ma con i denti, perché io, dopo strozzata la morsi e ne succhiai il sangue che era colato, con che godei moltissimo».

    Il vampiro della Bergamasca è un contadino affetto da gravi patologie, da bambino fa scempio di animali, da adulto vive una sessualità malata e violenta, prova piacere nell’aggredire, strangolare e squartare giovani donne, conserva brandelli della loro carne e sui cadaveri infila spilloni seguendo un rituale mai chiarito; eppure quando compie i delitti è perfettamente lucido. Due le vittime, ma numerose le aggressioni ad altre donne.

    Nell’estate del 1871, all’alba del 27 agosto, uccide Elisabetta Pagnoncelli. È grazie alla testimonianza di Maria Previtali, scampata alla morte qualche ora prima dell’altra più sfortunata donna, che Vincenzo Verzeni viene catturato e condannato ai lavori forzati a vita. Si occupa del caso Cesare Lombroso, il quale raccoglie le crude testimonianze dell’uomo: «Non ho rimorsi […]. Però è meglio che io sia in carcere e ci resti, perché se fossi fuori tanto era quel piacere che io non potrei fare a meno di procurarmene, e uccider altre donne». Giovanna viene ritrovata cadavere il 13 dicembre sotto un mucchio di gambi di frumento. La bocca è piena di terra. Il corpo deformato dalla violenta asportazione delle viscere. Qualche giorno prima, all’interno di una capanna, è stato rinvenuto un polpaccio destro di donna e il santino.

    In morte del rettore

    Orune (Nuoro), 9 febbraio 1873 – Il rettore di Orune ama andare a cavallo. È un’attività che lo rilassa. Quando dalla sua tenuta di Marreri si reca in paese quasi mai prende la carrozza: a meno che il tempo non sia ostile, lui preferisce cavalcare. Così muore Francesco Angela Satta Musio, ammazzato con quattro fucilate mentre è in sella al suo animale preferito. Un omicidio che non può restare impunito poiché l’uomo è il nipote del senatore Giuseppe Musio, dunque un discendente di una delle più importanti famiglie della zona. Le indagini sono serrate, i primi a essere sospettati sono Giovanni Chessa, un anziano sacerdote e i suoi nipoti, ma è una falsa pista; gli assassini sono altri: Giovanni e Vito Mossa, due fratelli di Bitti. Le prove ci sono e bastano per portarli a giudizio. Soltanto che la Corte, almeno agli occhi dei parenti della vittima, sembra sin troppo indulgente nel fissare la pena: 10 anni di detenzione. Troppo poco per l’onore dei Musio. Si riaccende così un’antica disamistade tra le famiglie dei Satta Musio e i Mossa Delogu, una faida che sin dal Settecento trova sempre nuove ragioni per giustificare la violenza. Nel maggio del 1895 finalmente si arriva alla pace, o forse a un’ennesima tregua. La sola certezza sono i morti, sessantaquattro, e due famiglie devastate dall’odio.

    L’Ammazzabambini

    Incisa Valdarno (Firenze), 1873/75 – «Mi canzonavano, mi prendevano a burla, mi dileggiavano, mi dicevano pelato, ventundito, perché ho un piede con sei dita, e mi dicevano guercio, e nano, e mi facevano il capo grosso, e quando venivano in bottega mi facevano sempre qualche biricchinata». Callisto Grandi è carradore, un lavoro ormai scomparso: costruisce e ripara carri. È solo, gli uomini non lo rispettano, le donne lo evitano e i bambini del paese lo prendono in giro per il suo aspetto orribile. Callisto, detto Carlino, ha i lineamenti irregolari e il corpo sproporzionato, basso di statura e calvo, non brilla nemmeno per la sua intelligenza. I continui scherzi liberano il mostro, non quello deforme nel corpo bensì quello crudele assopito nell’anima di Grandi. «Uno mi tinse il viso col pennello, e stessi col viso tinto per tre giorni […]. Una sera venne nella mia bottega, e io avevo fatto una buca nel sottoscala apposta per mettercelo appena mi capitava. Mi capitò. Lo portai là nella buca, lo gettai giù, e lo coprii di terra, e sopra ci misi le legne […]. Un altro mi cagò nel carbone, lo uccisi e lo seppellii nella buca voltato in su con la faccia, e nella bocca gli pigiai la terra, e coprii tutto il suo corpo di terra». Si tratta solo di ingenui scherzi ma non per lui, non per il mostro.

    L’Ammazzabambini, così lo chiamano i giornali dell’epoca, è colto in flagranza di reato mentre sta per uccidere un quinto innocente. Cesare Lombroso lo ritiene colpito da cretinismo, altri medici discordano, la Corte soddisfa periti e concittadini condannandolo ai lavori forzati e poi al manicomio a vita. Resta un fatto: per quanto affetto da megalomania paranoica, Callisto Grandi è lucido quando per vendetta inizia a invitare a bottega le sue piccole vittime promettendo loro dolci e giocattoli. Purtroppo anche i mostri sanno come conquistare il cuore dei bambini.

    Il giallo del giudice Cavagnati

    Bologna, 31 maggio 1874 – «Il mistero Giovanni Cavagnati scoperto? Certo Vitali Francesco […] ha denunziato al ministero dell’Interno di essere a cognizione della tragica fine del sostituto procuratore del re avvocato Cavagnati scomparso nel maggio del 1874 a Bologna alla vigilia della sua partenza per Piacenza, dove si recava a impalmare una signorina alla quale era fidanzato. Il Cavagnati sarebbe stato sorpreso dai fratelli di un’altra ragazza da lui tradita e rimasta incinta, condotto in campagna, assassinato e sepolto assieme alle valigie e ai valori che possedeva […]. Tutti sanno a Bologna che il Cavagnati scomparve e si trovarono le sue tracce fino a vicolo del Riccio, dove si suppone fosse avvenuto il delitto. Le autorità fecero lunghe indagini senza risultato, e senza risultato rimasero le ricerche fatte in conseguenza di pretese rivelazioni».

    L’articolo pubblicato nel settembre del 1892 su «Il Resto del Carlino» riporta in primo piano un famoso giallo bolognese: l’improvvisa e inspiegabile scomparsa del sostituto procuratore del re presso il tribunale, ma è solo una falsa pista e la verità non è mai stata svelata. Un delitto passionale o una vendetta per qualche sentenza del magistrato, una sparizione volontaria o un rapimento finito male? Da allora tutto è avvolto tra le ombre del mistero.

    Il caso Sonzogno

    Roma, 6 febbraio 1875 – «La nostra stella, o Signori, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la Città Eterna, sulla quale venticinque secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del Regno italico». Passeranno altri dieci anni e scorrerà parecchio sangue prima che le parole di Camillo Benso, conte di Cavour, diventino realtà. Nel 1870 la Breccia di Porta Pia segna un passaggio cruciale nella storia d’Italia, l’anno successivo Roma è la capitale del regno.

    Nel 1871 Raffaele Sonzogno, giornalista ed erede della ben nota famiglia di editori, fonda il quotidiano «La Capitale», di cui è direttore e influente firma. È proprio nella redazione del suo giornale che quattro anni dopo viene ucciso con tredici coltellate da un tale di Trastevere, Pio Frezza, detto Spaghetto. Questi, però, è solo l’esecutore materiale dell’omicidio. I mandanti sono individuati in: Giuseppe Luciani, garibaldino e amante della moglie di Sonzogno, Michele Armati, ufficiale delle guardie municipali, Luigi Morelli, detto il Caporaletto, e Cornelio Farina. Il complesso processo che segue gli arresti, tuttavia, non chiarisce del tutto il movente dell’omicidio, per cui da un lato si segue la pista politica e dall’altro quella passionale; gli imputati sono condannati all’ergastolo per pagare un delitto che a tutt’oggi è un mistero.

    I quattro poteri

    Sorradile (Oristano), 1876 – Dall’ultimo censimento della popolazione risulta che a Sorradile, un piccolo centro in provincia di Oristano, ci siano 443 abitanti, tra uomini e donne. La maggior parte dei quali anziani. Nel 1876 non era molto diverso, c’erano più giovani, non se n’erano ancora andati nelle grandi città, ma comunque tutti si conoscevano, com’è normale che sia nei paesi. Accade però che il 1876 per Sorradile fosse un bruttissimo anno poiché, nel corso di una rapina in chiesa, vennero uccisi tre uomini, tre persone importanti per una piccola comunità: il sacerdote, Bachisio Madeddu, il sindaco Cristoforo Cuccui e il carabiniere Antonio Onida. In una notte i banditi spazzarono via tre simboli dei quattro poteri di uno Stato: politico, militare e religioso; il quarto, quello giudiziario, non fu in grado di fermare gli assassini e fu sconfitto al pari degli altri.

    A proposito del caso Fadda

    Roma, 6 ottobre 1877 – La ricca borghesia romana perde la propria innocenza con l’omicidio del capitano Giovanni Fadda. Il militare che, dopo aver combattuto sui fronti risorgimentali, finisce ammazzato dall’amante della moglie. Un fattaccio di nera, come tanti. Come quelli che dovrebbero coinvolgere solo il popolino e non la bella società. Eppure quel campo di battaglia dove si scontrano gli istinti più bassi di ogni individuo non fa distinzioni tra classi. Le passioni sono comuni a tutti e lo scontro è feroce. Così il nome del capitano Giovanni Fadda finisce da un giorno all’altro sulle prime pagine dei quotidiani. È stato ucciso con ventitré coltellate da un cavallerizzo, tal Pietro Cardinali, detto Francone per la sua stazza.

    In fase processuale la domanda chiave è se Raffaella Saraceni abbia o meno commissionato l’omicidio del marito. È davvero colpevole la bellissima dark lady annoiata da un uomo che, un tempo eroe, è ormai un reduce senza carisma e incapace di soddisfarla come un marito dovrebbe? I giornali sfruttano l’occasione e attingono a ogni dettaglio della loro vita privata grazie a quell’arte antica del pettegolezzo che solo i cronisti sanno far passare per ufficiale fonte d’informazione. Alcune testate fanno la propria fortuna stuzzicando la curiosità del bel mondo. Persino Giosuè Carducci scrive un articolo di critica nei confronti di quella borghesia morbosa di notizie pruriginose: A proposito del processo Fadda. Riflessioni che lasciano il passo ai tempi, a un tipo di informazione che serve a vendere e non a far riflettere. Poiché dame e cavalieri non perdono una copia dei quotidiani sino a quando non viene battuta l’ultima notizia: Pietro Cardinali è condannato all’ergastolo mentre Raffaella Saraceni, mandante del delitto, da un appello all’altro, passa dai lavori forzati a vita a 30 anni di detenzione, poi ridotti a 10 per buona condotta. Trascorsi con classe e senza troppi pettegolezzi.

    Il bel Pasquino

    Napoli 29 settembre 1885 – «Muoio per amore», rantola Luigi Soreca, riverso sul marciapiede di corso Vittorio Emanuele con la testa fracassata. Lo chiamano Pasquino, e benché sia solo un giovanotto onorato – ossia una delle leve minori della Bella Società Riformata – è famoso a Napoli per il suo fascino romantico e tenebroso, e per il fatto di aver stregato, negli anni, molte belle donne, facendo innamorare anche signore dell’alta società. Magari è questo il motivo per cui – sotto la spinta dell’opinione pubblica indignata per la morte di un beniamino del gossip ante litteram come Pasquino, per di più non durante un duello ma a tradimento – il vicecommissario Castaldi ha parecchio da faticare per trovare i suoi assassini. Nel suo caso, infatti, indagare negli ambienti della malavita non basta: bisogna cercare anche nei salotti buoni, e nelle alcove, dell’aristocrazia. La storia che alla fine salta fuori è degna conclusione delle atmosfere torbide e romantiche di questa vicenda. Soreca aveva avvicinato Elvira la francese, vedova di un avvocato, donna elegante e ufficialmente mantenuta da un commerciante facoltoso, tale Tartarone, forse solo un personaggio di copertura per il suo vero protettore, dal nome segreto e impronunciabile. Sarebbe stato questo signore misterioso e altolocato, magari un politico, a ordinare l’eliminazione dello scomodo rivale, chiedendo un favore proprio alla camorra. Pasquino, infatti, il 29 settembre è costretto a sfidare a duello un altro giovanotto onorato, che lo ha vilipeso: lui si aspetta una leale zumpata, invece è tutta una messinscena: due complici del camorrista saltano fuori all’ultimo istante, si avventano addosso al dongiovanni napoletano e lo finiscono a colpi di sbarra.

    Si narra, al di fuori dei rapporti ufficiali, che i tre scherani si siano presentati subito dopo al cospetto di Giovanni Rapi e della stessa Elvira, che premia gli assassini donando i suoi orecchini di brillanti. Rapi, maestro elementare e camorrista di lunga data, che fingeva di essere grande amico e mentore del Soreca, sarebbe stato in realtà il contatto camorrista interpellato dal protettore di Elvira per disfarsi di Pasquino. Che muore, sempre secondo la diceria popolare, mormorando il nome del vero mandante. Nome da alcuni udito ma mai ripetuto da nessuno.

    Penelope, la dark lady

    Roma e Paliano (Frosinone), primo maggio 1890 – «Caro Mario, in questo momento è morto William. Io tremo dalla paura che lo sezionino, perché sappi che io l’ho avvelenato per essere tua… Se mai io fossi scoperta e andassi carcerata, spero che tu non sarai di nessun’altra donna e che continuerai ad amarmi». Penelope Menghini è una donna passionale. Innamorata della chimica dell’amore. Giovanissima perde la testa per Mario Carnevali e ne diventa l’amante, la famiglia però ostacola il loro matrimonio e Penelope finisce prima in convento e poi sposa di William Jones. Quest’ultimo è pazzo di lei, ma la donna ama comunque Mario e per lui avvelena il marito. Nelle poche righe di una lettera confessa l’omicidio al novello sposo, Mario non le crede e le consiglia di gettar via quella ridicola confessione. Passa qualche tempo ma il matrimonio non porta a Penelope la felicità sognata, così inizia a frequentare altri uomini. S’innamora perdutamente di Augusto Ottavi, un amico di famiglia residente in Ciociaria, ed è a lui che consegna la lettera, una dimostrazione d’amore: lei farebbe qualsiasi cosa per restare sola con lui, anche uccidere Mario. La missiva è una prova: lo ha già fatto con William. Augusto inorridisce al punto di lasciarla.

    Nessuno però dovrebbe mai sottovalutare l’arte manipolatrice di una dark lady, soprattutto se ferita nell’orgoglio. Ed è così che Penelope convince il marito che Augusto ha abusato di lei e l’uomo, sconvolto dalla gelosia, uccide l’amante. Qualcuno troverà la lettera e i due coniugi Carnevali saranno condannati all’ergastolo: lei per l’omicidio di William, lui per quello di Augusto.

    Rosa e la sua spina

    Roma, 9 luglio 1890 – «Annorno giù pe’ Ponte de Ripetta, tra la nebbia der cielo nero nero, e sur ponte che allora era de fero, lui t’agguanta la moje co’ ’na stretta. / Lei, prima nun ciariva, poi sospetta […]. / S’attacca a ’gni sporgenza der ripiano, co la forza più forte che possiede, lui, pe’ staccalla mette fori un piede, spigne e je pista tutt’e due le mano […]. / Lei, da su, come ’n fagotto umano, casca ne l’ombra che non ce poi vedé». Versi del poeta Giulio Cesare Santini, che nel sonetto racconta la triste storia di Augusto Formilli e Rosa Angeloni. I due, sposati da parecchi anni, non avevano mai avuto problemi, fin quando lui non aveva incontrato la bella e giovane Teresa Francesi durante la trasteverina Festa de’ Noantri. Augusto aveva perso la testa e da quel giorno non era più lo stesso, prova in tutti i modi a dimenticare la ragazza ma ormai era come stregato. Tenta di ricucire il rapporto con la moglie, quella sera la porta a cena in una trattoria, da Cesare er Fornaciaro, ma tornando a casa la stringe in un ultimo abbraccio e poi la getta nel fiume. Il biondo Tevere inghiotte Rosa e tutto il suo dolore.

    Il riposo dei lavoratori

    Ierzu (Lanusei-Tortolì), primo aprile 1891 – Di notte le persone perbene dormono, per rigenerare il corpo dalle fatiche del giorno. Gli onesti lavoratori crollano sui loro letti, poiché al mattino dovranno essere di nuovo in forze. Anche Usala Carta e suo figlio Antonio stanno riposando: i due sono falegnami e per mandare avanti la bottega ci vuole tanto vigore. Però quella notte uno sconosciuto entra nella loro casa e li ammazza, senza ragione, a colpi di bastone. Talvolta il destino è assai bizzarro: due falegnami uccisi a legnate, con quello stesso materiale che per anni gli ha dato il pane. I carabinieri si convincono che ad ammazzarli sia stato Tomaso Puddu, uomo impegnato in politica in un partito di minoranza. Subito si pensa a un complotto: qualcuno ha approfittato del duplice omicidio per togliere dalla circolazione una persona scomoda, che lotta affinché i cittadini abbiano sempre maggiori garanzie dallo Stato (all’epoca gli uomini come Puddu si chiamavano conciliatori). Un’accusa ingiusta che scatena una vera e propria faida tra le diverse fazioni politiche sin quando i magistrati liberano il presunto colpevole: con i due morti ammazzati, lui non ha davvero niente a che vedere. Qualcun altro, forse in preda a un raptus di follia, quella notte se n’è andato in giro ad ammazzare, invece di dormire come le persone perbene.

    Un poeta in politica

    Bonorva (Sassari), 6 agosto 1892 – «Ci portammo io e l’Angius sopra una collina […]. Quindi stettimo tre giorni in attesa che il Mossa uscisse dal predio suo per restituirsi in paese e finalmente nel terzo giorno al calar del sole lo vedemmo uscire a cavallo dal suo podere e avviarsi verso Bonorva. Corsimo precipitosamente ai piedi della collina e ci portammo frettolosi nella regione Nurapé ove ci appiattammo in un predio rasente al muro di cinta che costeggia il viottolo per il quale dovea il Mossa transitare. Quando infatti egli arrivò in direzione del luogo ove eravamo noi appiattati, l’Angius si alzò ed esplose un colpo di fucile contro di lui. Immediatamente dopo io gli sparai contro ambe le canne del mio fucile e quindi l’Angius esplose l’altra canna»; dalla deposizione di Francesco Cicciu Derosas nel procedimento penale a suo carico per l’omicidio di Paolo Mossa, poeta. La Corte condanna sia il brigante sia il suo complice, Pietro Angius, come autori materiali del delitto ma il movente resta oscuro; l’uomo sostiene che i mandanti siano Angela, figlia del poeta, e Francesco Polo, il suo fidanzato. C’è tuttavia chi dice che a volere l’assassinio siano stati alcuni nemici politici del Mossa il quale, oltre a comporre liriche, si batteva per il bene della sua terra.

    Binario morto

    Sciara (Palermo), 2 febbraio 1893 – Il treno numero 8 proveniente da Messina raccoglie il commendatore Emanuele Notarbartolo di Sangiovanni per riportarlo a Palermo. È sera, Notarbartolo è solo, stanco di quel noioso viaggio a Sciara per curare l’amministrazione di un terreno; non vede l’ora di rientrare a casa. Non la vedrà mai più. Poco dopo essere salito sul convoglio, infatti, due figure scivolano furtivamente nel suo compartimento, lo agguantano, iniziano a pugnalarlo selvaggiamente, vibrano decine di colpi che lo devastano. Restano un momento a contemplare il corpo, soddisfatti, infine uno dei due apre il finestrino e lo scaraventano sui binari. Qualche giorno dopo, si ritroveranno in una tenuta di campagna a brindare, insieme ad altri venti e più caporioni, alla morte del commendatore. La tenuta si chiama La Montagnola, è di proprietà di don Raffaele Palizzolo, e quelle due dozzine di mafiosi sono parte della cosiddetta cosca di Villabate, comandata da tale Giuseppe Fontana, molto amico del boss. Tra amici, si sa, ci si scambiano favori, e Fontana ne ha appena fatto uno al suo padrino. Un favore di quelli grossi.

    Notarbartolo è, fino a quella disgraziata corsa in treno, il direttore generale del Banco di Sicilia, un pozzo a cui si abbevera la maggior parte dei soggetti economici potenti, favoriti dalla politica e sostenuti da affari di stampo mafioso. Quella situazione sta stretta al direttore, uomo di ferreo rigore e moralità senza compromessi. Uno che Sciascia definirebbe di tenace concetto. Una tenacia che lo porta nel mirino di un agglomerato di interessi inestricabili che dalle cosche rurali arriva ai baronati urbani più sofisticati, quelli che si muovono come squali nel mondo dell’economia e della politica, tra le sezioni di partito e i palazzi del potere palermitano. E Palizzolo è proprio uno di quelli a cui il direttore dà più fastidio. Ma don Raffaele ha amici fidati.

    Il processo Notarbartolo si trascina come una tragica farsa per undici agonizzanti anni, durante i quali solo la tenacia del figlio, il giovane Leopoldo – che da guardiamarina arriverà alla carica di ammiraglio – fa sì che non si areni in qualche porto delle nebbie. O meglio, non lo faccia anzitempo. La chiara pista di matrice mafiosa, con agganci che riguardano addirittura interessi di governo, rende da subito viziata la progressione delle indagini: reticenze dei teste, timori degli stessi inquirenti. Passando per vicende alterne, sentenze annullate e trasferimenti di sede – da Palermo a Bologna e poi a Firenze – si arriva all’amara conclusione: sia Fontana che il suo mentore vengono assolti per insufficienza di prove. Uno schema che si ripeterà spesso nella storia italiana.

    Il terribile don

    Napoli, 8 marzo 1893 – Tra tutti i guappi di sciammeria della storia di Napoli, don Teofilo Sperino è senz’altro quello più celebre. Sorta di camorristi autonomi, i guappi di sciammeria esigono il pagamento dello sbruffo, la tangente, in virtù solo del loro carisma personale e della paurosa fama che li accompagna. A Sperino, però, non basta, la sua megalomania esige ammirazione, e insieme ai taglieggiamenti comincia a collezionare atti di eroismo: salva la gente da annegamenti, ferma cavalli imbizzarriti per la strada, smaschera finti fantasmi, seda da solo sparatorie tra camorristi, che terrorizza con la sua sola presenza. In breve, finisce per farsi amare dal popolo della sua città, che gli riconosce anche l’ambito titolo di don. C’è solo una persona per cui Sperino è fumo negli occhi, ma è un ragazzo di 20 anni, tutt’altro che una minaccia per il terribile guappo. Il giovane si chiama Andrea Forgione, è il nipote di uno dei due impresari di pompe funebri con cui il don si mette in società, senza peraltro versare neppure una lira, col solo scopo di espandere la sua attività di taglieggiatore nel settore dei funerali e delle casse da morto. Forgione non può sopportare il camorrista, e tenta in ogni modo di metterlo in ombra sostituendosi a lui nella conduzione degli affari; come risultato, i litigi tra i due sono all’ordine del giorno, e solo la parentela del ragazzo costringe Sperino a mantenere la pazienza. Si limita ad avvertire Luigi Forgione, zio di Andrea e suo consocio, di tenerlo a bada: per il suo stesso bene, ammonisce, che non si presenti più in azienda. La questione sembra risolta, fino alla sera in cui Napoli dovrà dire addio al suo beniamino. Sperino torna a casa, in via Capodimonte nel rione Sanità, dopo aver assistito a uno spettacolo teatrale, quando vede una carrozza avvicinarsi. Dentro c’è proprio Andrea Forgione, che si affaccia dal finestrino e gli spara un colpo di pistola a bruciapelo, troncandogli la carotide. Il lutto cittadino sarà quello che si riserva alle alte cariche governative: perfino un sottosegretario di Stato presenzierà al chilometrico corteo funebre, che attraversa Napoli facendosi largo tra migliaia di persone inginocchiate e in lacrime. La carotide recisa del guappo finirà addirittura sotto formalina, vera e propria reliquia laica.

    La giustizia del popolo

    Chiaramonti (Sassari), 6 novembre 1896 – Quando il popolo è esasperato dalla violenza, può accadere che decida di difendere la propria sicurezza agendo al di sopra della legge, applicando una certa giustizia sommaria. La rabbia dei cittadini di Chiaramonti esplode dopo l’efferato omicidio di due carabinieri per mano dei fuorilegge Paolo Fois e Giovanni Maria Chessa. Stanchi di subire le azioni criminali dei briganti che imperversano nella regione, decine di uomini danno la caccia ai due e, quando li trovano, non prevedono indulgenza. I criminali confessano il duplice omicidio e il tribunale del popolo li condanna a morte. Circondati da una folla inferocita, Fois e Chessa vengono decapitati e i loro cadaveri gettati in un torrente. Giustizia è fatta.

    La Contessa Lara

    Roma, 30 novembre 1896 – «Le rose che de’ suoi baci hanno odore. Non mi bastano più: lui solo io voglio». Evelina Cattermole è una scrittrice. Una poetessa romantica che si firma con lo pseudonimo di Contessa Lara. Si sposa, si lascia andare alla passione, frequenta i salotti di Milano, Roma, Venezia e incontra i più grandi poeti dell’epoca. Il marito, Francesco Eugenio Mancini, è distratto dai tavoli da gioco e dalle ballerine dei cafè chantant; lei, femme fatale, incontra altri uomini. Tra questi c’è Giuseppe Bennati Baylon, con cui inizia una travagliata storia d’amore. È il maggio del 1875 quando i due amanti vengono scoperti. Come da consuetudine dell’epoca, solo una sfida a duello può vendicare l’onore offeso. L’amante muore trafitto dalla spada, il marito è assolto perché legittimato a uccidere, Evelina fugge verso Roma, sovrastata dalla vergogna dello scandalo e con il cuore a pezzi.

    Il tempo cura ogni ferita. La Contessa Lara è apprezzata per i suoi versi e la vita torna a scorrere. Nuovi legami sentimentali, nuove poesie. È sul finire del 1894 che Evelina incontra tal Giuseppe Pierantoni, pittore bohémien napoletano dal dubbio talento e dal pessimo carattere. Nel giro di pochi mesi, lei si rende conto di quanto l’uomo sia violento e possessivo. Tenta di lasciarlo ma lui non vuole e, tra botte e minacce, le è sempre troppo vicino. Così è lei ad andarsene per una breve vacanza in Liguria. Qui incontra un tenente di vascello, Ferruccio Battali, l’opposto del suo amante. Tra i due è l’idillio. Il tenente è preoccupato per il rapporto della Contessa con il pittore e le dona una pistola dal modesto calibro ma da tenere sempre con sé, all’occorrenza. Rientrata a casa, la donna spera di trovare un po’ di quiete con il progetto di trasferirsi a Livorno, per stare più vicina all’amato. Lui è imbarcato a La Spezia, lei gli invia lettere piene di passione. Il Pierantoni scopre il tradimento e, accecato dalla rabbia, il 30 novembre irrompe in casa di Evelina. I due iniziano a litigare, il pittore trova sul comodino un revolver da borsetta, lo impugna e spara. La donna non muore subito ma, come in una sequenza al rallentatore, perde sangue dall’addome, goccia dopo goccia, fin quando non ne avrà più, né per vivere, né per amare: «Era di maggio un dì, sull’imbrunire. Ei mi gettò una rosa entro ’l balcone. Io la raccolsi e mi sentii morire».

    Le tre morti del falegname

    Roma, 2 maggio 1897 – «Venga con noi, è una formalità», si sente dire il falegname Romeo Frezzi, che ha 29 anni e pericolose idee socialiste. Quelle parole le pronuncia la polizia regia, poco dopo aver perquisito il suo modesto appartamento. Undici giorni prima, Pietro Acciarito, un anarchico – termine molto elastico, soprattutto a quei tempi – ha provato a uccidere il re Umberto i a coltellate. Si rastrella ovunque in cerca di altri anarchici coinvolti nell’attentato, per portare acqua alla tesi del grande complotto, e Frezzi resta impigliato nei rebbi di questo rastrello per le sue dichiarate posizioni socialiste. O anarchiche, per loro fa lo stesso. In casa sua trovano una foto in cui, tra gli altri, campeggia proprio l’Acciarito; gli chiedono spiegazioni, lui sostiene di non sapere chi sia quell’individuo: possiede tale foto perché uno degli otto ritratti tiene in grembo l’immagine del suo idolo, Nicola Barbato. Barbato è il capo dei Fasci siciliani, che hanno tentato quattro anni prima un’effimera rivoluzione socialista nell’isola. Un’autoaccusa come nemico dello Stato per la polizia non è male: Frezzi viene condotto in questura, dove trascorre i peggiori giorni della sua vita, gli ultimi.

    Secondo il questore, si è suicidato battendo ripetutamente la testa contro il muro. Secondo il commissario, ha avuto un improvviso aneurisma. Secondo i questurini, si è lanciato dalla finestra, schiacciato dalle proprie responsabilità. Il clamore della vicenda impone un’inchiesta, con relativa autopsia. Saltano fuori le macchie di sangue sulla branda, i vestiti strappati, il bavaglio bucato dal morso dei denti. Le testimonianze delle donne che abitano di fronte alla questura, che parlano di grida disperate: «Aiuto, mi ammazzano!». Soprattutto, salta fuori la descrizione delle ferite, del tutto incompatibili con ognuna delle tre versioni ufficiali. Fratture al cranio, colonna vertebrale staccata dalle costole all’altezza della spalla destra, lesioni alla milza e al pericardio. Malgrado tutto, per le tre morti di Romeo Frezzi il processo non troverà responsabili: «Insufficienza di indizi».

    Quattro giorni a Milano

    Milano, 6/9 maggio 1898 – È stata chiamata la protesta dello stomaco, perché parte da lì: dal ventre vuoto di cibo e pieno di rabbia. Milano in quegli anni è il centro focale di un conflitto che infiamma tutto il neonato Regno d’Italia; un conflitto tra posizioni radicali e atteggiamenti conservatori. Le prime di matrice sindacalista, socialista, libertaria e anarchica; i secondi provenienti dalle istituzioni: regie, borghesi, autoritarie. La bomba della disoccupazione e dei salari bassi ha una miccia corta, e la scintilla che le dà fuoco è l’aumento imposto del prezzo del frumento da 35 a 60 centesimi al chilo. Mentre un pugno di intellettuali moderati tentano di arrivare alle riforme con la mediazione politica, in tutta la penisola la situazione degenera in un lampo. Napoli, Firenze, Puglia, Romagna: il numero di città in cui viene dichiarato lo stato d’assedio aumenta progressivamente.

    A Milano, il generale Fiorenzo Bava Beccaris, comandante del iii Corpo d’Armata, non si fa trovare impreparato. È da aprile che sta radunando e organizzando le forze a sua disposizione, perché nell’aria l’odore di bruciato è già alto da un po’. Il 5 maggio il prefetto di Milano lo allerta: si temono scontri nei prossimi giorni. Bava non batte ciglio, e aspetta coi suoi tremila uomini, tra fanteria, cavalleria e artiglieria.

    Dovrà usare tutte le sue risorse, il generale, fino ai pezzi d’artiglieria: non c’è altro modo per abbattere le barricate che la popolazione milanese continua a erigere e contro cui la cavalleria può ben poco. Cannoni contro il popolo. Quattro giorni di guerra civile alla fine dei quali si conterà un numero imprecisato di morti: non meno di ottanta, forse trecento. Il generale verrà insignito della Croce di Grand’Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia direttamente dal re Umberto i: «Per rimeritare il grande servizio che Ella rese alle istituzioni e alla civiltà». Un mese e mezzo dopo, Bava Beccaris si insedia al Senato.

    Il primo Novecento

    Storia di Isolina

    Verona, 5 gennaio 1900 – «Cosa vole, questa l’è la stanza dove l’è successo quel che l’è successo. I g’ha ficado su le man, i g’ha meso su un piron e così è successo quel che è successo. E dopo i l’ha portada fora in un’altra casa». Annibale Isotta, proprietario della Trattoria del Chiodo, sa bene che le sue parole potrebbero incastrare i colpevoli, ma non dice più di tanto, perché non vuol essere coinvolto in quella brutta storia. C’è di mezzo l’omicidio di una diciannovenne, il suo cadavere fatto a pezzi con una scure e gettato nell’Adige, c’è la misteriosa morte della sua amica, Emma Poli, unica testimone del fattaccio, c’è un ufficiale degli Alpini, indagato e infine prosciolto.

    Quella dell’omicidio di Isolina Canuti è una storia

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