Storia del terrorismo in Italia. L'oblio delle vittime, il potere dei carnefici
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Storia del terrorismo in Italia. L'oblio delle vittime, il potere dei carnefici - Mario Adinolfi
Rosse"
1. LA BIOGRAFIA TACIUTA DI UNA NAZIONE
La pretesa del terrorismo di agire in nome dei poveri
è una flagrante impostura
– San Giovanni Paolo II –
La storia del terrorismo in Italia si apre il 17 maggio 1972 con l’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi e si chiude simbolicamente con il suicidio di Bruno Fortunato il 9 aprile 2010, l’ultimo ferito sopravvissuto alla azione delle Nuove Brigate Rosse che uccisero il sovrintendente Emanuele Petri. Ferito e dimenticato, come tutte le vittime dei terroristi, devastato dal senso di colpa sia per non aver difeso Petri che per aver ucciso il terrorista suo assassino Mario Galesi, il Fortunato si sparò un colpo in testa a 62 anni a simboleggiare la resa davanti a una violenza che aveva tracciato non la sua vita, ma la storia d’Italia: Le Brigate rosse mi hanno ferito, lo Stato mi ha dimenticato
, aveva detto qualche anno prima in un’intervista.
C’è un prima e c’è un dopo, ma di certo i quattro decenni di violenza politica in Italia restano la biografia taciuta di una nazione. C’è il Sessantotto che fa da brodo di coltura, c’è la stagione delle prime stragi, la strategia della tensione, la lettera dei 757 notabili dell’intellettualismo italiano contro Calabresi, prima dell’omicidio Calabresi. E c’è lo Stato arreso, che grazia l’omicida di Calabresi per finte ragioni umanitarie, che celebra ogni anniversario intervistando i terroristi e dimenticando le vittime, che ai vertici di fin troppi apparati politici, culturali e mediatici ha, guarda un po’, i firmatari della lettera contro Calabresi, in maniera che tutto torni e i conti siano a vantaggio dei carnefici, con omaggi sacrificali e solamente rituali alle sempre più inutili vittime. Il quotidiano fondato da uno dei firmatari della lettera contro il commissario Luigi Calabresi è oggi diretto dal figlio di Luigi Calabresi e così si pensa di fare pacificazione, cooptando nei luoghi figli di quella cultura violenta, i più miti e accondiscendenti dei violentati.
Si dimenticano completamente i nomi degli eroi, di quelli che hanno provato a capire e a far capire, ma sono stati zittiti. Il caso più emblematico è forse quello di Libero Mazza, il prefetto di Milano che coniò l’espressione opposti estremismi
. Lo fece non in una chiacchiera al bar, ma in un rapporto prefettizio in cui spiegò con grande capacità di analisi e di profezia quel che stava per accadere. Scrisse che nell’area dell’estrema sinistra, in quella dell’estrema destra oltre che nella consueta marginale area dell’anarchismo stava organizzandosi una svolta violenta. Scrisse che numericamente la forza più evidente era quella della sinistra extraparlamentare ed accennò anche al gruppo che stava costituendo le Brigate Rosse. Bene, il rapporto di Libero Mazza venne pubblicato il 16 aprile 1971, giusto un anno prima dell’assassinio proprio a Milano di Luigi Calabresi che avrebbe dato il via alla storia del terrorismo politico italiano. Il prefetto di Milano venne applaudito per aver lanciato l’allarme? No, Mazza venne letteralmente linciato da tutti gli ambienti. Eugenio Scalfari, con la consueta intelligenza delle cose, scrisse che Mazza era uno sciocco che non capisce quanto accade o un fazioso che non vuole capire
. Il quotidiano del Partito comunista Italiano, l’Unità, vinse col senno del poi la palma del commento più ridicolo: Quello di Mazza è uno pseudorapporto in cui si farnetica di fantomatiche organizzazioni paramilitari di sinistra
. Anche il sindaco di Milano, il socialista Aldo Aniasi, si schierò platealmente contro il prefetto. Il solo giornalista a scrivere un articolo di esplicita difesa di Libero Mazza fu Carlo Casalegno su La Stampa. Sei anni dopo, il 16 novembre 1977, le Brigate Rosse tesero al giornalista l’agguato che gli costò la vita dopo due settimane di agonia.
Ci sono stati, insomma, coraggiosi uomini di Stato, coraggiosi intellettuali, coraggiosi interpreti della silenziosa maggioranza del Paese che si sono opposti agli assassini e spesso per questo sono diventati loro vittime. Ma per le vittime c’è l’oblio, provocato anche dal potere dei carnefici. La lunga storia del terrorismo politico italiano è una lunga storia che inanella squilibri e clamorose ingiustizie, in cui i violenti sembrano averla fatta franca e il prezzo pagato da chi è stato colpito non è equiparabile al saldo richiesto a chi ha impugnato le pistole e i mitra, meno che mai ai loro mandanti, che erano tanti come ricorda in Scacchi e tarocchi il buon Francesco De Gregori (avevano certo dei mandanti / ed erano tanti / senza né viso né storia
/ e senza prove). Anche in quella canzone, le vittime non ci sono. Ad essere celebrati sono solo i terroristi giovani vite dentro a una fornace
. Sapevano di essere usati? L’impressione è che abbiano ottenuto la libertà avendo deliberatamente saputo tacere viso e storia dei mandanti.
Qui parleremo anche di loro perché quel che manca davvero per concludere la storia del terrorismo in Italia è la verità. Gli assassini rossi e neri sono tutti fuori dal carcere, sono liberi come non sarebbe mai accaduto in alcun ordinamento civile, senza aver sostanzialmente mai raccontato quel che è accaduto davvero. L’oltraggio finale alle vittime, il segno finale del potere degli assassini, è la loro vergognosa libertà ottenuta con l’omertà.
2. STORIA ESSENZIALE DEL TERRORISMO ITALIANO
La storia insegna, ma non ha scolari
– Antonio Gramsci –
Nella seconda metà degli Anni Sessanta l’Italia è attraversata da una serie di tensioni sociali e politiche. Le prime forme terroristiche hanno una dimensione locale, legate in particolare a esperienze indipendentiste in Sardegna e in Alto Adige. Il 9 settembre 1966 in località Malga Sasso, provincia di Bolzano, una bomba ad alto potenziale viene fatta esplodere davanti alla locale stazione della Guardia di Finanza. Tre agenti rimasero uccisi e quattro feriti. Verranno condannati gli indipendentisti sudtirolesi di lingua tedesca. Nel 1966 muove i suoi primi passi politici non lontano di lì, a Trento, colui che pochi anni più tardi fonderà le Brigate Rosse, Renato Curcio, allora strettamente legato a Mauro Rostagno che fu a sua volta tra i fondatori di Lotta Continua.
Nel 1967 Curcio, allora ventiseienne, fonda il gruppo Università Negativa e entra a far parte della redazione della rivista marxista-leninista Lavoro Politico. Il 1 marzo 1968 studenti di destra e di sinistra si scontrarono con la polizia a Valle Giulia, in una battaglia
che segnò l’inizio del Sessantotto italiano, caratterizzato dal ribellismo neofascista dell’Avanguardia Nazionale di Stefano Delle Chiaie e da un più vasto movimento all’estrema del Pci, che a Valle Giulia si rese protagonista di violenze compiute e subite con nomi destinati a divenire molto noti come Giuliano Ferrara, Paolo Liguori, Ernesto Galli Della Loggia, Paolo Pietrangeli, Aldo Brandirali, Oreste Scalzone, Valerio Morucci. Pier Paolo Pasolini, conoscendo l’estrazione borghese di questi giovani sessantottini, scrisse la famosa poesia in cui si schierò con i poliziotti contro gli studenti figli di papà
.
Il 1969 è l’anno prodromico di un triennio che condurrà all’avvio vero e proprio della storia del terrorismo politico in Italia, che si apre con l’assassinio del commissario Luigi Calabresi ordinato da Lotta Continua a Milano il 17 maggio del 1972. L’8 settembre 1969 Renato Curcio insieme alla moglie Margherita Mara
Cagol dà vita al Collettivo Politico Metropolitano a Milano, nella stessa città il 19 novembre viene ucciso durante una manifestazione dei marxisti-leninisti il poliziotto ventiduenne Antonio Annarumma e il commissario Luigi Calabresi deve difendere con i pugni Mario Capanna, leader del Movimento studentesco, che