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Stragi, delitti, misteri.
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Stragi, delitti, misteri.
E-book277 pagine4 ore

Stragi, delitti, misteri.

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Info su questo ebook

PREFAZIONE DI NICOLA GRATTERI
Stragi, delitti e misteri rimasti senza forma e senza nomi. In questo magma, ancora fortemente incandescente, affonda la penna Arcangelo Badolati e ne riversa fuori storie brucianti. Si tratta di vicende oscure accadute in Calabria che, a distanza di anni, non smettono di essere inquietanti: la tragedia della giovane studentessa Roberta Lanzino, il mistero del mig libico "caduto" a Castelsilano, il tentato "golpe" della 'ndrangheta, i sei morti della "Freccia del sud" , i quattro anarchici reggini "deceduti" in auto durante il tragitto Roma-Reggio, il mancato "colpo di stato" (con precedenti e riflessi calabresi) del "principe nero" Junio Valerio Borghese, e la superloggia massonica "coperta" a Reggio. Ci sarebbe sì molto da aggiungere, ma a patto che si aprano, finalmente, gli archivi di Stato e si cancelli il "segreto" imposto dai governi che si sono succeduti dal dopoguerra ad oggi. C'è già una "petizione" in atto: è assurdo che su tante stragi, delitti e misteri, anche quelli riesumati da Arcangelo Badolati, non si archivi mai raggiungendo i colpevoli e consegnando alla storia italiana nomi e cognomi di chi si è macchiato di delitti orrendi
LinguaItaliano
Data di uscita23 ott 2012
ISBN9788881018451
Stragi, delitti, misteri.

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    Anteprima del libro

    Stragi, delitti, misteri. - Arcangelo Badolati

    Paesi.

    Prefazione

    La Calabria è una terra di frontiera, in cui s’incrociano poteri criminali e misteri insoluti.

    È una terra solo apparentemente distante dal resto d’Europa perché da questo lembo di terra sono stati spesso controllati interessi delinquenziali ed economici in molti paesi del mondo.

    Calabrese era Giacomo Colosimo, detto Big Jim, nato a Colosimi, diventato il signore di Chicago prima di Al Capone.

    Calabresi erano due tra i più famosi gangster che negli anni ’30 del secolo scorso terrorizzarono gli Stati Uniti: Francesco Castiglia, detto Frank Costello, originario di Cassano Ionio, plenipotenziario di Cosa nostra americana e ascoltato consigliori di Lucky Luciano; e Albert Anastasia, nato a Parghelia, divenuto capo della spietata Anonima Omicidi newyorchese e per un breve periodo capo dei capi delle famiglie statunitensi.

    Calabrese era il più importante contrabbandiere di superalcolici del Canada, Rocco Perri, nato a Platì e trasformatosi nel protagonista quasi assoluto dei palcoscenici mafiosi nordamericani.

    Origini calabresi avevano anche Robert Timboli, padrone del traffico di stupefacenti a Griffith e Peter Callipari, sospettato di legami con la ’ndrangheta e diventato punto di riferimento dall'altra parte del mondo non solo per i connazionali ma pure per influenti uomini politici australiani. Importante il ruolo assunto negli anni ’60 e ’70 a Montreal da Vic Cotroni e Paul Violi, il primo originario di Mammola, l’altro di Sinopoli, assurti al rango di capi della criminalità organizzata italo-canadese che faceva riferimento alla famiglia di Joe Bonanno di New York. La ’ndrangheta non è mai stata insomma solo un’organizzazione isolata, arretrata e barbara ma, al contrario, è riuscita nel tempo a fare affari in tutto il globo attraverso le cellule create in molti continenti. Non solo: la mafia calabrese è stata complice di poteri deviati che miravano a sovvertire l’ordine democratico in Italia.

    Il libro di Arcangelo Badolati lo dimostra ricostruendo i legami intessuti dai boss con i golpisti coinvolti nel progetto ideato nel 1970 dal principe Junio Valerio Borghese. Un progetto che trovò le sue origini nella rivolta di Reggio Calabria, durante la quale, gli ’ndranghetisti strinsero un patto inconfessabile con le organizzazioni eversive di estrema destra. Fu in quel periodo che venne compiuta la strage di Gioia Tauro, tragico effetto d’un ordigno fatto esplodere lungo i binari ferroviari che fece deragliare il treno Freccia del Sud.

    Gli oscuri rapporti con la destra eversiva e le massonerie deviate attive anche in Sicilia, continuarono anche dopo il fallito colpo di stato, con la costituzione di una superloggia alla quale aderirono mafiosi, professionisti e il terrorista Franco Freda, imputato e poi assolto per la strage di piazza Fontana. Freda lasciò l’Italia per nascondersi come latitante in Costarica proprio grazie all’aiuto degli amici calabresi.

    Il libro di Badolati testimonia come la Calabria sia stata in parte scenario di un altro grande mistero: la strage di Ustica. Tra i monti della Sila, infatti, il 18 luglio del 1980 venne ritrovato un Mig libico, coinvolto – come sostiene l’autore – nel duello aereo che cagionò l’abbattimento del Dc9 Itavia sui cieli di Ustica. La caduta del velivolo militare africano è ben ricostruita con un incrocio di dati storici davvero significativi. Depistaggi, testimonianze inedite, documenti dei servizi segreti si susseguono nel racconto di Badolati appassionando il lettore. L’autore analizza anche un altra vicenda oscura avvenuta in Calabria e mai adeguatamente approfondita in un saggio: la morte del generale Enrico Mino. Il comandante generale dell'Arma dei carabinieri morì mentre si spostava da Catanzaro a Rosarno a bordo di un elicottero. Il velivolo improvvisamente precipitò, apparentemente a causa del maltempo: la Procura di Catanzaro archiviò l’inchiesta come se si fosse trattato di un incidente, ma Badolati ripercorre la vicenda, anche in questo caso, attraverso documenti e testimonianze di pregevole interesse, alimentando il dubbio che Mino possa essere stato eliminato con un attentato. La storia di questo militare s’inserisce, infatti, in un contesto storico complesso nel quale l’influenza della Loggia P2, i conflitti tra i partiti politici e clamorosi fatti di cronaca condizionarono le vicende della nostra Repubblica.

    Appassionante la definizione del quadro nazionale e internazionale e la ricostruzione delle fasi della fuga dall’ospedale militare del Celio dell’ex Ss Herbert Kappler. L’evasione dell’ufficiale tedesco indusse il generale Mino a rimuovere molti graduati dell’Arma suscitando contestazioni e divisioni. Questo volume consente al lettore di comprendere quanto la Calabria sia stata da sempre coinvolta nelle vicende criminali non solo mafiose. Ma consente anche di capire quanto questa regione sia stata centrale anche in molti misteri italiani. E di questa va dato atto a Badolati che già in passato aveva dato dimostrazione delle sue qualità di cronista e di narratore con la pubblicazione di numerosi libri sulla ’ndrangheta in Calabria.

    Nicola Gratteri

    Introduzione

    Premessa, di rigore: Arcangelo Badolati è cronista di razza pura. Nato, cresciuto e maturato nella trincea di Palmi. Mi legano a lui sentimenti di stima e di affetto profondi. Anch’io cronista – ma dalla trincea opposta, quella jonica, di Locri, non meno interessante della sua, la tirrenica – ho avuto modo, leggendolo prima frequentandolo poi, di conoscerlo a fondo, apprezzarlo ed, infine, incoraggiarlo all’unica scelta possibile per diventare giornalisti veri: liberandosi, cioè, dal vincolo della corrispondenza da territori seppur intriganti e dall’offerta professionale esaltante (sequestri di persona, omicidi, maxi processi di rilevanza nazionale, per intenderci), ed abbracciare l’esperienza formativa delle redazioni. Pur in epoche diverse, abbiamo intrapreso un percorso comune: non sta ovviamente a noi giudicarne i risultati. Badolati, dunque, ha mostrato doti e capacità non indifferenti. Per lui parlano i traguardi raggiunti nel suo giornale, la Gazzetta del Sud. E soprattutto i libri. Che sforna con una continuità impressionante. Anche l’ultimo – Stragi, delitti e misteri –, per il quale, gratificandomi, mi ha chiesto una breve introduzione, conferma la sua capacità di scrittura, di analisi e di approfondimento dei fatti di cui si occupa. Con lo scrupolo e il rigore del cronista di razza pura. Mai indulgente. Sempre documentato. Mi ha colpito molto il capitolo dedicato alla studentessa di Rende. Il suo omaggio a Franco e Matilde Lanzino, genitori non rassegnati di Roberta, gli sgorga dal cuore. Solo chi non è padre o madre non può capire. La grande tragedia di Roberta l’ho vissuta agli inizi della mia avventura – che dura ancora oggi – in Rai. Ero stato appena assunto e l’assassinio – un atto di bestialità! – della studentessa 18enne di Rende fu una delle mie prime volte alle prese con i nuovissimi strumenti della tv e della radio del servizio pubblico. Mi stavo allenando: alla penna dovevo sostituire il microfono e trasformare in poche righe le abituali due, tre o quattro cartelle dattiloscritte. E non era facile! Sono trascorsi, da allora, quasi 23 anni e su quell’agguato ad una giovane e solare ragazza in motorino, ignara del destino che l’attendeva lungo i tornanti che si affacciano sul mare paolano, restano interrogativi irrisolti. E inquietanti. Due processi – uno in corso –, attori diversi, nessuna verità giudiziaria. Arriverà mai? Franco e Matilde Lanzino continuano la loro battaglia. Tutta l’informazione – Badolati lo ha già fatto, da par suo – dovrebbe affiancarli, nella consapevolezza che l’inchiesta su uno degli episodi più gravi e feroci della storia contemporanea della nostra regione non è stata condotta in modo esemplare, con apparati investigativi superficiali e forse sufficienti, convinti che la prima pista fosse la giusta e trascurandone – sbagliando – ogni altra che avrebbe potuto offrire uno squarcio di luce. Altri errori non sarebbero più giustificabili. Straordinariamente avvincenti si presentano gli altri capitoli del volume di Badolati. Egli affonda il coltello con efficacia in altre quattro vicende oscure accadute in Calabria. Il mistero del mig libico caduto (o abbattuto) a Castelsilano, nell’allora provincia cosentina (oggi crotonese) resta un mistero e nessuno si sforza più di renderlo intellegibile. Al contrario, si celebra con tutti gli onori (e corredo di cavalli e magnifiche giumente magari da cavalcare…) il supercolonnello Gheddafi che certo non può non sapere… Dalle alture della Sila a Monte Covello, nel catanzarese, teatro dell’assurda morte del generale Enrico Mino, l’alto ufficiale alla guida dell’Arma nei secoli fedele che nonostante confidasse al leader radicale Marco Pannella il suo timore di viaggiare in elicottero si imbarcò lo stesso lasciandoci la vita in circostanze, anche in questo caso, piuttosto oscure: guasto al motore, disattenzione del pilota, condizionato dal maltempo, oppure sabotaggio? Risposte esaustive ed esaurienti, nemmeno a cercarle con il lanternino. E che dire più di quanto non si sappia, per via ufficiale s’intende, del tentato golpe della ’ndrangheta, dei sei morti della Freccia del sud (che si trattò non di un deragliamento ma di una bomba collocata sui binari, nel contesto della strategia della tensione richiamata nelle sue confessioni anche dal collaboratore e malandrino di vaglia Ubaldo Giacomo Lauro, lo si saprà a distanza di 24 anni!), dei quattro anarchici reggini deceduti in auto durante il tragitto Roma-Reggio, il mancato colpo di stato (con precedenti e riflessi calabresi) del principe nero Junio Valerio Borghese, e la superloggia massonica coperta a Reggio (ne parla diffusamente Filippo Barreca, collega di Lauro, che ospitò durante la sua latitanza Franco Freda…)? Ci sarebbe sì molto da aggiungere, ma a patto che si aprano, finalmente, gli archivi di Stato e si cancelli il segreto imposto dai governi che si sono succeduti dal dopoguerra ad oggi. C’è già una petizione: l’ho firmata anch’io, perché in un Paese civile è assurdo – lo ha ripetuto, nella sua prima visita in Calabria, a Catanzaro, l’ex giudice istruttore di Milano Guido Salvini, che da Piazza Fontana in avanti di servizi segreti, di depistaggi, di inquinamento delle prove se ne intende davvero – che su tante stragi, delitti e misteri, anche quelli riesumati da Arcangelo Badolati, non si archivi mai raggiungendo i colpevoli e consegnando alla storia italiana nomi e cognomi di chi si è macchiato di delitti orrendi.

    Pietro Melia

    LA STRAGE DI USTICA

    E IL MISTERO DEL MIG LIBICO

    27 Giugno-18 luglio 1980

    I corpi galleggiano sull’acqua quasi fossero bambole di plastica. Nella sala di attesa dell’aeroporto di Punta Raisi decine di persone urlano disperate il loro dolore. Il Dc9 dell’Itavia in volo da Bologna a Palermo è finito in fondo al mare: 81 i morti, tra cui 13 bambini partiti per le vacanze. Nessuno è in grado di fornire delle spiegazioni ai familiari in lacrime. Tutti pronunciano frasi di circostanza…

    Trent’anni dopo, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, già ministro dell’Interno e parlamentare per decenni del Partito comunista, in occasione del Giorno della Memoria dedicato alle vittime del terrorismo, pronuncia un’amara verità. Il Capo dello Stato evoca «intrecci eversivi» e parla, in riferimento al caso di Ustica, di «intrighi internazionali, che non possiamo oggi non richiamare insieme con opacità di comportamenti da parte di corpi dello Stato e di inefficienze di apparati e di interventi deputati all’accertamento della verità. L’Italia faccia ogni sforzo anche diplomatico – continua il Presidente – per giungere alla verità sulla tragedia di Ustica. Comprendiamo il tenace invocare, da parte dei familiari delle vittime, ogni sforzo possibile, anche sul piano dei rapporti internazionali, per giungere ad una veritiera ricostruzione di quel che avvenne la notte del 27 giugno 1980». L’ipotesi più accreditata, ma mai definitivamente riscontrata, è che il velivolo civile sia stato abbattuto da un missile lanciato da un caccia occidentale spedito sui cieli italiani per cancellare dalla scena politica mondiale Muammar Gheddafi, padrone della Libia e nemico giurato di americani e francesi. Il leader africano doveva essere in viaggio, quella sera, su un aereo di Stato diretto a Belgrado. L’intelligence straniera lo sapeva ed aveva preparato una trappola mortale. Il sistema Nadge, la rete radar che proteggeva i paesi dell’Alleanza Atlantica, dalla Norvegia alla Turchia, in quegli anni difficili di guerra fredda con l’Urss, presentava delle zone buie. Dei corridoi attraversabili senza essere individuati che non solo i libici, ma pure i palestinesi di Yasser Arafat, utilizzavano per compiere spostamenti segreti al fine di raggiungere Paesi alleati. Spostamenti tollerati dagli italiani che mantenevano all’epoca buoni rapporti sia con Tripoli che con l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina). Il Tupolev che trasportava lo statista tripolitano doveva essere agganciato, in quella calda sera d’estate, da due aerei militari libici decollati dalla Iugoslavia. Nella nazione guidata col pugno di ferro dal maresciallo Tito i velivoli dell’aeronautica africana venivano spesso trasferiti per compiere le operazioni di manutenzione. Giuseppe Santovito, capo del servizio segreto militare italiano (Sismi), seppe della trappola e avvertì gli amici d’oltre Mediterraneo che fecero tornare indietro, all’altezza di Malta, l’aereo di Stato con a bordo il colonnello tripolitano. I Mig, nel frattempo partiti da Belgrado, rimasero in volo e tentarono di nascondersi probabilmente dietro la sagoma del Dc9 Itavia. Gli intercettori occidentali incaricati di colpire Gheddafi ingaggiarono a questo punto un duello con i piloti nordafricani, colpendo per sbaglio il velivolo civile e abbattendo uno dei Mig 23 poi ritrovato sulle montagne calabresi della Sila. Uno scenario inquietante ma finora mai riscontrato.

    Una lunga azione internazionale di depistaggio ha infatti impedito di ricostruirlo compiutamente. Uno scenario del quale ha invece parlato diffusamente il Presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, scomparso nell’agosto del 2010. Cossiga che, tra l’altro, nel 1980 era Presidente del Consiglio, ha dichiarato pubblicamente: «Quando ero presidente della Repubblica i nostri servizi segreti mi informarono che a provocare la strage di Ustica furono i francesi utilizzando un aereo della Marina, che lanciò un missile non a impatto, ma a risonanza. Se fosse stato a impatto non sarebbe rimasto nulla dell’aereo. La tesi è che i francesi sapevano che sarebbe passato l’aereo di Gheddafi. La verità è che Gheddafi si salvò perché il Sismi, il generale Santovito, appresa l’informazione, lo informò quando lui era appena decollato inducendolo a tornare indietro. I francesi questo lo sapevano – ha concluso Cossiga – e videro un aereo dall’altra parte di quello italiano che si nascose dietro per non farsi prendere dai radar, partì un missile e fu la strage».

    Sul punto concorda anche l’allora giudice istruttore Rosario Priore, autore dell’inchiesta sulla tragedia di Ustica. «Le conclusioni di Cossiga sono le stesse alle quali sono arrivato anch’io con la mia inchiesta. Credo che le sue informazioni siano attendibili, anche se le sue fonti sono diverse dalle mie. Io non ho potuto dare una nazionalità all’aereo militare, anche se poteva essere solo statunitense o francese. La Nato disse che quella sera c’era un forte movimento aereo, che rendeva possibile la presenza di una portaerei. Anche in questo caso le possibilità non erano molte: o la Clemenceau, che però i francesi dissero che si trovava in porto a Tolone, o l’americana Saratoga, a Napoli». Plausibile, per Priore, anche l’ipotesi di un Sismi che allerta Gheddafi: «È una teoria che circolava fin dall’inizio. C’era una frattura nel Sismi: una parte filo-araba guidata da Santovito e un’altra più filo-israeliana».

    D’accordo nel non sottovalutare le dichiarazioni di Cossiga è sempre stato anche l’avvocato Alessandro Gamberini, legale dei familiari delle vittime di Ustica. «Si sa che quella notte un aereo, giunto all’altezza di Malta tornò indietro. Quelle di Cossiga sono informazioni che vanno coltivate, anche perché la Francia è l’unico paese a non aver risposto alle rogatorie in modo compiuto». L’allora presidente francese, Giscard D’Estaing, ha sempre negato il coinvolgimento della sua nazione nella tragedia di Ustica. Ma non avrebbe potuto fare altrimenti. La Francia, tuttavia, non sopportava il dinamismo di Gheddafi, che fomentava la guerriglia in Ciad contro il governo filo francese in carica a ’Ndjamena e infastidiva sensibilmente e contestualmente l’esecutivo tunisino schierato apertamente con Parigi. Non solo: il leader libico contrastava il processo di pace avviato dal presidente egiziano Sadat e dal premier israeliano Begin con il trattato di Camp David nel 1977. E, proprio per questo, aveva schierato truppe e costruito fortificazioni lungo il confine egiziano. Pure gli Usa malsopportavano il colonnello di Tripoli che rischiava di creare disequilibri in Africa. Disequilibri che l’opinione pubblica americana non mostrava di gradire, soprattutto dopo la batosta subita nel 1979, con la fallita liberazione degli ostaggi tenuti prigionieri dai pasdaran khomeinisti nell’ambasciata di Teheran.

    Il quadro nazionale e internazionale, in quegli anni, appariva dunque molto articolato.

    L’Italia era schierata con la Nato che fronteggiava sullo scacchiere europeo l’Unione Sovietica ed i paesi della Cortina di Ferro. In effetti, tuttavia, la nostra politica estera contemplava il mantenimento di rapporti con stati, come la Libia, o organizzazioni, come l’Olp, schierati contro il blocco Usa.

    La situazione politica interna era invece condizionata dal terrorismo di sinistra e di destra per via della presenza delle Brigate Rosse, Prima Linea e Nap da un alto e, dall’altro, dei Nuclei Armati Rivoluzionari. Nel 1978 era stato assassinato Aldo Moro, sostenitore del compromesso storico tra la Dc e il Pci e inventore del cosiddetto Lodo Moro, che consentiva appunto a libici e palestinesi di muoversi nel Belpaese con assoluta libertà, impegnandosi, però, a non compiere sanguinosi attentati sul nostro territorio. Tra le cellule terroristiche sguazzavano i servizi segreti, civile e militare, divisi in cordate e, spesso, responsabili di coperture e patti inconfessabili.

    La vita dello Stato era ulteriormente influenzata dalla presenza della Loggia Propaganda 2 che annoverava tra i suoi affiliati uomini di governo e delle Istituzioni e poteva contare sul Supersismi, una struttura attiva all’interno dell’intelligence militare che garantiva contatti preferenziali con gli americani e il mondo dell’estrema destra.

    La criminalità organizzata, nel frattempo, regolava nelle regioni meridionali i suoi conti con decine di omicidi compiuti in Campania, Calabria e Sicilia. A Roma dominava la scena delinquenziale la Banda della Magliana, più volte inserita negli affari sporchi della Repubblica, mentre persino la Chiesa cattolica era attraversata da sinistri fremiti, generati dagli obliqui rapporti mantenuti dal cardinale Marcinkus e dallo Ior (la Banca Vaticana) con il bancarottiere Michele Sindona e il banchiere Roberto Calvi.

    Tra le consorterie delinquenziali la mafia siciliana nel 1980 era quella più fortemente infiltrata nella massoneria deviata e maggiormente influente nella vita dei partiti grazie a rappresentativi uomini politici isolani come Vito Ciancimino. Già sindaco ed assessore ai lavori pubblici di Palermo, Don Vito era il referente della feroce fazione dei corleonesi nella Democrazia cristiana e appariva particolarmente abile nel tessere trame e organizzare raggiri. Proprio per questo, nel giugno dell’80, venne interpellato dal ministro Attilio Ruffini, democristiano come lui, che gli chiese aiuto per risolvere un problema legato alla strage di Ustica. Così ha raccontato ai giudici Massimo Ciancimino, figlio di Vito, divenuto dichiarante dopo aver incassato una condanna penale: «Una sera eravamo a Mondello e stavamo andando a cena al Circolo Lauria, verso le 21.30. A un certo punto fummo raggiunti da un signore che ci disse di essere latore di un messaggio urgente da parte dell’onorevole Attilio Ruffini, fino a qualche settimana prima ministro della Difesa. Il messaggero comunicò a mio padre che Ruffini aveva bisogno di un incontro urgentissimo.

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