Quell'oscuro desiderio: Un profilo del mostro di Firenze
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Anteprima del libro
Quell'oscuro desiderio - Cristiano Demicheli
Shakespeare
Premessa
Questo è uno studio sui delitti e sulle vittime del mostro di Firenze, non sulla storia giudiziaria, su quell’inchiesta infinita che, a detta del commissario Perugini, è «il vero mostro» [1] . Non si stupisca, quindi, il lettore se, a differenza di altre consimili, la mia analisi si interrompe il 10 settembre 1985, poiché tale è la data dell’ultimo atto sicuramente attribuibile all’assassino: la lettera alla Procura di Firenze.
A ben vedere, il mostro si è rivelato soltanto in due circostanze: gli omicidi e, appunto, la lettera. Questi, di conseguenza, andranno considerati gli unici punti fermi della vicenda, i soli su cui sia corretto fondare un’ipotesi. Tutto il resto può essere più o meno attendibile, più o meno verosimile, ma rimane (ancora) indimostrabile. Nel trattare questo materiale ambiguo ho applicato il principio del pluralitas non est ponenda sine necessitate, per cui la versione più semplice è, in senso probabilistico, la più plausibile. Così, ad esempio, poiché la possibilità di un assassino unico non è contraddetta da alcuna evidenza nota, ho postulato un assassino unico.
Queste pagine non offrono la soluzione di un mistero che perdura ormai da mezzo secolo. Le soluzioni devono trovarle coloro che sono professionalmente incaricati di trovarle. Io, in quanto scrittore, mi ritengo professionalmente incaricato di sollevare dubbi, porre domande, mettere in discussione.
Come obiettivo minimo, mi sono proposto di dimostrare che, al di là della versione ufficiale, una ricostruzione coerente e completamente diversa dei fatti è possibile. Come obiettivo massimo, spero di fornire un contributo all’identificazione dell’assassino di quattordici ragazzi.
Infine, qualche parola sul metodo.
Lo studio di questo caso, estremamente complesso, è ostacolato tanto dall’irreperibilità o lacunosità di buona parte della documentazione ufficiale, quanto, sul versante ufficioso, da una mitologia proliferante e incontrollata.
Il mio lavoro si è basato sulle fonti ufficiali (verbali, sentenze, referti peritali), partendo dal presupposto che, per quanto maldestra, una testimonianza diretta degli eventi è sempre preferibile. Laddove i documenti ufficiali non erano disponibili, ho attinto alle fonti giornalistiche coeve per la stessa ragione, cioè per la loro vicinanza all’accaduto.
Ho cercato infine di colmare le lacune rimaste attenendomi al principio sopra indicato: tra due spiegazioni possibili, quindi, è stata sempre scelta quella più semplice, ovvero quella che, stabiliti determinati presupposti psicologici e materiali, conduceva per la via più diretta alla circostanza verificatasi.
[1] R. Perugini intervistato da «Panorama», 8 marzo 2019.
1968
1. Romanzo di provincia
La sera del 21 agosto 1968, Barbara Locci e Antonio Lo Bianco si recano allo spettacolo serale del cinema di Signa, cittadina che sorge una quindicina di chilometri a ovest di Firenze. È con loro il figlio seienne della Locci, Natale detto Natalino. Lasciato il cinema tra mezzanotte e un quarto e mezzanotte e mezza, la coppia si dirige nell’auto di Lo Bianco fino a una traversa sterrata di via di Castelletti, ove si apparta.
La Locci, casalinga trentunenne di origine sarda, è moglie di Stefano Mele, un manovale sardo di diciotto anni più vecchio di lei; è una donna dai costumi sessuali disinvolti cui si attribuiscono numerose relazioni extraconiugali. Non è bella, però, stando alla descrizione di uno dei suoi amanti, «quando faceva l’amore non era certo una statua. Sapeva che gioco era, lo conosceva bene» [1] .
Quanto ad Antonio Lo Bianco, è un muratore di origine siciliana di ventinove anni; è sposato con una cugina, Rosalia Barranca, dalla quale ha avuto tre figli.
Intorno alle due di notte, il piccolo Natalino suona il campanello dell’interno 1 civico 154 di via del Vingone, a Sant’Angelo a Lecore, distante 2,1 km dal luogo del delitto. Davanti agli allibiti occupanti dell’abitazione, certi De Felice, recita trasognato: «Aprimi la porta che ho sonno e ho il babbo ammalato a letto. Dopo mi accompagni a casa perché c’è la mi’ mamma e lo zio che sono morti in macchina» [2] .
Questa la scena che si presenta agli occhi dei carabinieri di Signa accorsi sul luogo del delitto: l’auto di Lo Bianco, un’Alfa Romeo Giulietta, è accostata al bordo destro del viottolo sterrato che unisce Signa a Sant’Angelo a Lecore, un centinaio di metri oltre l’imbocco dalla strada principale. A lato, dietro una barriera di verzura, scorre il torrente Vingone. L’auto ha l’indicatore di direzione destro in funzione, la portiera posteriore destra semiaperta, le altre chiuse; i finestrini sul lato sinistro (anteriore e posteriore) sono parzialmente abbassati, quelli sul lato destro chiusi.
La vittima femminile giace riversa sul sedile di guida, le gambe scoperte fino all’inguine; quella maschile, parimenti supina, occupa il sedile del passeggero reclinato. Entrambi sono parzialmente svestiti: la donna reca l’abito sollevato sulle gambe nude; l’uomo regge con le mani i pantaloni slacciati.
I bossoli ‒ tre rinvenuti sul lato sinistro dell’auto, due all’interno ‒ indicano che l’attacco è stato portato da quel lato dell’auto, cioè dal centro del viottolo, anziché dalla boscaglia che lo bordeggia sul lato opposto. L’esame autoptico eseguito sui corpi rileva che la vittima femminile è stata attinta da quattro colpi d’arma da fuoco al dorso; altri quattro se ne riscontrano sulla vittima maschile. La direzione dei colpi, dall’alto in basso, indica che sono stati esplosi introducendo la canna della pistola nel pertugio aperto di uno dei finestrini sul lato sinistro, e illustra chiaramente la posizione delle vittime al momento dell’aggressione, con la donna chinata sopra l’uomo supino, l’una quindi che rivolge allo sparatore schiena e fianco destro, l’altro l’emitorace sinistro.
Senza scendere in questioni balistiche, già adeguatamente analizzate altrove e comunque esulanti dagli scopi di questo lavoro, mi limiterò a rilevare come la posizione supina in cui è stata rinvenuta Barbara Locci contrasti evidentemente con i quattro fori d’entrata alla schiena e implichi una manipolazione post mortem del corpo. Stefano Mele ammetterà: «Afferrai mia moglie per le vesti e la feci ritornare in posizione seduta» [3] .
Altrettanto si può dire della strana postura in cui giace Lo Bianco ‒ sdraiato compostamente, le mani aggrappate al bordo dei calzoni ‒ che è impensabile ritenere accidentale o anche, come sostengono alcuni, provocata da un estremo tentativo di ricomporsi: considerato che quasi certamente la Locci, trovandosi tra l’amante e lo sparatore, fu colpita per prima, è legittimo presumere che Lo Bianco, in quei pochi secondi che gli restavano da vivere, abbia avuto ben altro di cui preoccuparsi che la pudicizia o il decoro. A me sembra che, più che comporre pietosamente i corpi, l’ignoto o gli ignori manipolatori abbiano inteso metterli in posa secondo qualche codice intimidatorio: sia o meno un caso, infatti, i cadaveri raffigurano in modo pressoché letterale la donna «scostumata» e l’uomo che «non riesce a tener chiusi i pantaloni».
Il comportamento del neo-vedovo, Stefano Mele, appare subito sospetto. Il giorno del delitto è rincasato prima dal lavoro accusando un malessere (il «babbo ammalato a letto» del piccolo Natalino); inoltre si presenta ai carabinieri con le mani sporche di grasso da bicicletta (una sostanza che può inficiare il test del guanto di paraffina [4] , a cui peraltro risulta positivo) e mostra di conoscere un po’ troppi dettagli del delitto: sa, ad esempio, che l’Alfa Romeo aveva una freccia lampeggiante in funzione, che i colpi sparati erano otto, che Lo Bianco aveva perso una scarpa.
Mele ammette tranquillamente di essere a conoscenza delle numerose relazioni extraconiugali della moglie, di cui snocciola gli amanti: i tre fratelli Vinci (Giovanni, Salvatore e Francesco), oltre a «Virgilio» ed «Enrico» (che risultano essere, rispettivamente, Carmelo Cutrona e Antonio Lo Bianco) [5] . Dichiara che tanto Francesco Vinci quanto Carmelo Cutrona manifestavano una violenta gelosia nei confronti della Locci. Entrambi, interrogati, risultano in possesso di alibi suffragati dai familiari. Si procede quindi a sottoporre tutti e tre al test del guanto di paraffina. Mele risulta, come si è detto, positivo «tra il pollice e l’indice della mano destra […] in un punto ove rincula la massa battente della pistola» [6] ; identico è il risultato per Cutrona, il quale, però, maneggia per lavoro sostanze sensibili ai reagenti del test; Francesco Vinci risulta invece negativo.
Il test del guanto di paraffina è notoriamente inattendibile a causa della facilità di produrre falsi positivi in presenza di tracce di comuni materiali da lavoro, e perfino del tabacco o dell’orina, ma non tutti sanno ‒ e mai, per quanto mi risulta, è stato rilevato in questa indagine ‒ che l’inattendibilità del test si estende anche ai risultati negativi. Detto altrimenti, « in molti casi un revolver o una pistola possono essere usati senza lasciare traccia di polvere da sparo rilevabile sulla mano della persona che usa l’arma»; inoltre, ed è rilevantissimo nel caso in questione, «la pistola automatica […] è quasi completamente chiusa e praticamente tutte le particelle di polvere vengono deviate lontano dalla mano della persona che spara» [7] .
Siamo solo all’inizio della girandola di esternazioni di Stefano Mele che, in rapida successione, accusa Salvatore Vinci (il quale, essendogli debitore di 300 mila lire, si sarebbe offerto di uccidergli la consorte fedifraga), quindi se stesso. Ricostruisce la dinamica del delitto, indicando in Salvatore Vinci il complice che gli avrebbe fornito il passaggio in auto e, soprattutto, l’arma per commetterlo. Conclude sostenendo di aver gettato la pistola nel torrente Vingone.
Salvatore Vinci si difende sostenendo di aver trascorso la sera del 21 al Bar Sport di Vaiano e, successivamente, al Circolo dei preti di Prato in compagnia di un neo-dipendente della sua impresa edile, Nicola Antenucci, e di Silvano Vargiu. I due, interrogati, confermano anche se, in seguito, Vargiu ammetterà di aver seguito semplicemente le indicazioni di Vinci.
Silvano Vargiu è, nell’ottica dell’indagine, una figura assai interessante. Immigrato sardo, fratello di un membro dell’Anonima Sequestri che verrà ucciso insieme a Francesco Vinci nel 1993, intrattiene rapporti con tutti e tre i fratelli Vinci, incurante del cattivo sangue che corre tra loro: in particolare è figlioccio e compagno di scorribande sessuali di Salvatore, nonché complice di Francesco in svariate attività illegali. Nella vicenda di Signa il suo nome è legato, oltre che all’alibi di Vinci, a una coincidenza sconcertante: risulta infatti che Vargiu abbia «vissuto per alcun tempo intorno al ’68» nella casa accanto a quello dei De Felice, ovvero la famiglia a cui il piccolo Natalino Mele si rivolse in cerca di aiuto [8] .
Nonostante alcuni lo diano sicuramente residente in via del Vingone all’epoca del delitto (per es. Mario Spezi: «Chi accompagnò Natalino doveva arrivare a quella palazzina, perché nella casa accanto abitava un altro sardo e non uno qualunque: Silvano Vargiu» [9] ), credo sia più ragionevole presumere che l’«alcun tempo» di Rotella si riferisca a un periodo antecedente, seppure di poco, in primo luogo perché, per quanto maldestre, le indagini non potevano ignorare una coincidenza così grossolana, ma soprattutto perché, se Vargiu avesse ancora abitato nelle vicinanze dei De Felice all’epoca del delitto, difficilmente l’accorto Salvatore Vinci sarebbe ricorso a lui per garantirsi un alibi.
In definitiva, mentre è possibile che esista effettivamente una connessione tra la vecchia residenza di Vargiu e la comparsa del piccolo Natalino al numero 154 di via del Vingone, allo stato attuale delle nostre conoscenze non c’è modo di stabilirlo, né di comprendere come questo fatto potesse risultare di qualche utilità all’esecutore o agli esecutori del delitto.
2. Dopo il delitto
«Resosi conto che la madre e lo zio
erano morti» non è verosimile, scrive Rotella, che il piccolo Natalino abbia avuto «la determinazione necessaria per raggiungere la casa De Felice in una direzione opposta rispetto a quella che gli era già nota per l’andata», tanto più che «poche decine di metri prima, era un casolare, proprio all’angolo della via di Castelletti», e altre abitazioni si incontravano prima di raggiungere il civico 154 («sparse lungo il percorso, alcune case lo fiancheggiano»).
Per comprendere quanto è improbabile che Natalino abbia raggiunto da solo via del Vingone basta considerare i seguenti fatti: la notte era illune, la strada sconnessa e priva di illuminazione; il viottolo che si inoltrava nella campagna buia era senza dubbio la direzione meno allettante per un bambino sotto choc che, per di più, come dimostreranno i sopralluoghi effettuati con i carabinieri, è «in grado di indicare due diverse direzioni» per raggiungere il luogo del delitto e, dunque, sa che poche decine di metri alle sue spalle corre una strada asfaltata, sorgono delle abitazioni. A ciò si aggiunga che il viottolo è assai sconnesso, eppure Natalino, privo di scarpe, non presenta lesioni alle piante dei piedi, i suoi calzini vengono descritti come sporchi ma non strappati [10] , sul corpo in genere non sono rilevabili escoriazioni o graffi come di chi, nel buio più completo, abbia brancolato su un terreno irregolare.
Ne dobbiamo concludere che Natalino, quasi sicuramente, fu accompagnato, e questo ci fornisce già un’indicazione circa l’identità dell’autore (o autori) del delitto, dato che, come si può comprendere facilmente, un completo estraneo non avrebbe avuto alcun motivo di preoccuparsi dell’incolumità del piccolo.
Il comportamento di questi esecutori, peraltro, non sfugge alle medesime obiezioni che valevano per Natalino: se lo scopo era di depositare il bambino presso una casa qualsiasi, perché sobbarcarsi il rischio di accompagnarlo per oltre due chilometri quando, come abbiamo visto, altre abitazioni sorgevano più vicino, sia nell’una che nell’altra direzione? Sembra, insomma, che quella di via del Vingone sia stata una scelta precisa, basata su qualche criterio di convenienza che purtroppo non è facile stabilire.
D’altronde, questo non è nemmeno l’unico comportamento incomprensibile degli esecutori del delitto: perfino più indecifrabile è il motivo che li spinse a colpire nonostante la presenza di Natalino. Se accettiamo la premessa, difficilmente contestabile, che Stefano Mele partecipò, in un modo o nell’altro, al delitto [11] , ne deriva infatti che la presenza del bambino, quella sera, non poteva essere ignota agli assassini (Mele stesso ammise di «aver tentato invano di impedire che la donna [Barbara Locci] portasse seco il figlio»). Dunque perché non scelsero un’altra notte per agire? Forse l’occasione era, per motivi a noi oscuri, irrinunciabile? O forse Mele, ormai deciso ad agire, fino all’ultimo tacque la presenza del bambino al complice (o complici)? Dopotutto, sul suo istinto paterno c’era poco da contare: mai mi risulta che, nel corso della vicenda, abbia manifestato turbamento o dispiacere per la tremenda esperienza vissuta dal figlio [12] .
Ma può anche darsi che non ci fossero alternative: l’atteggiamento contraddittorio della Locci, che da un lato, com’è noto, temeva uno stalker [13] e dall’altro insisteva per portare con sé Natalino, induce il sospetto che la donna contasse sulla presenza del bambino come deterrente o garanzia contro eventuali aggressioni e quindi, cinicamente, lo conducesse sempre con sé nelle uscite serali [14] .
In breve, pur tenendo conto del fatto che, secondo Rotella, «le indagini successive non dimostra[ro]no che in quel luogo, a preferenza di altri, la coppia fosse solita portarsi», mi sembra ragionevole concludere che l’accompagnamento di Natalino in via del Vingone fu, con ogni probabilità, premeditato.
3. Conclusioni del 1970
Il giorno dopo aver confessato l’uxoricidio, Stefano Mele ritratta un particolare: la pistola non l’ha gettata nel Vingone, ma l’ha riconsegnata al legittimo proprietario, ovvero Salvatore Vinci.
Quattro ore più tardi, un’altra ritrattazione: il Vinci implicato nel delitto non è, in realtà, Salvatore, bensì suo fratello Francesco, il quale, per di più, ne sarebbe l’esecutore materiale. Qualche giorno dopo, Stefano Mele scagiona entrambi i Vinci e indica Carmelo Cutrona quale colpevole. Questa versione dura lo spazio di qualche settimana, prima che Mele (sottoposto nel frattempo a una perizia psichiatrica che ne ha diagnosticato «l’oligofrenia a livello d’imbecillità») riporti sul banco degli accusati Francesco Vinci.
La vicenda si complica con le dichiarazioni di Natalino, il quale addita in due occasioni lo zio Piero Mucciarini (marito di una sorella di Stefano Mele, Antonietta) quale complice del padre nonché esecutore materiale del delitto. Emerge che Mucciarini, fornaio, con antichi precedenti per rapina, la sera del delitto era in permesso dal lavoro.
Al processo (marzo 1970) Stefano Mele si dichiara innocente e torna ad accusare Francesco Vinci, aggiungendo che costui teneva una pistola nel bauletto della Lambretta, un particolare già a suo tempo indicato agli inquirenti da Salvatore Vinci [15] . Il processo si conclude con la condanna di Stefano Mele per omicidio e calunnia a sedici anni e dieci mesi di reclusione.
4. La scoperta